Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 14014 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 14014 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 26/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7426 R.G. anno 2021 proposto da:
COGNOME NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME
ricorrente
contro
COGNOME NOME , rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME presso il quale è domiciliato; controricorrente e ricorrente incidentale avverso la sentenza n. 2850/2020, depositata il 29 ottobre 2020, della Corte di appello di Venezia.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 aprile 2025 dal consigliere relatore NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
─ NOME COGNOME ha agito in giudizio confronti dei genitori
NOME COGNOME e NOME COGNOME, oltre che della sorella NOME COGNOME, deducendo di aver acquistato con atto del 2 agosto 1984 da NOME COGNOME una farmacia in Piove di Sacco e di avere in pari data stipulato un contratto di associazione in partecipazione con la predetta NOME: contratto da cui era receduto con comunicazione del 20 dicembre 1988. Ha quindi domandato , tra l’altro, l’accertamento in via esclusiva della titolarità della farmacia e l’accertamento dello scioglimento dell’associazione in partecipazione.
NOME COGNOME ha domandato in via riconvenzionale la condanna dell’attore a renderle il conto della gestione e a pagarle la quota di utili che le spettavano.
Il Tribunale di Padova ha accolto sia la domanda principale che la domanda riconvenzionale; quanto a quest’ultima , ha condannato l’attore a pagare alla sorella la somma di lire 205.718.000, oltre interessi.
2 . ─ La sentenza di primo grado è stata confermata una prima volta dalla Corte di appello di Venezia.
– A seguito della cassazione della pronuncia sul gravame, resa da questa Corte con sentenza n. 19434 del 18 dicembre 2003, la Corte lagunare ha nuovamente respinto l’appello di NOME COGNOME
– Con sentenza n. 1194 del 22 gennaio 2015 la Corte di legittimità ha cassato questa seconda sentenza di appello.
– In sede di rinvio la Corte di Venezia si è quindi pronunciata, per la terza volta, sull’appello proposto avverso la decisione di primo grado. Lo ha fatto nei termini che seguono: in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Padova, ha condannato NOME COGNOME a pagare a NOME COGNOME «la somma di lire 141.819.442, con gli interessi legali dalla domanda»; ha inoltre «ordinato la restituzione di quanto pagato in eccedenza».
Avverso detta sentenza ricorre per cassazione NOME COGNOME con otto motivi di impugnazione. Resiste con controricorso
NOME COGNOME il quale svolge una impugnazione incidentale su di un motivo. La ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Col primo motivo del ricorso principale è denunciata «immodificabilità della composizione del collegio».
Il secondo mezzo del ricorso principale è rubricato «omesso esame dell’eccezione ».
Il terzo mezzo del ricorso principale prospetta la violazione degli artt. 173 e 79 disp. att. c.p.c., 189 e 190 c.p.c..
I tre motivi hanno ad oggetto i vizi processuali da cui sarebbe affetto lo svolgimento, nel terzo giudizio di rinvio, dell’attività processuale conseguente al trattenimento della causa in decisione, a seguito dell’udienza collegiale del 3 aprile 2017. Rileva la ricorrente che con ordinanza del 13 maggio 2019 fu fissata udienza al 17 giugno 2019 per la ricostituzione del fascicolo di causa siccome smarrito. Il 15 maggio 2019 un magistrato estraneo al collegio che aveva assunto la causa in decisione pronunciò un decreto in cui diede atto del rinvenimento del fascicolo e della necessità di procedere alla costituzione di un nuovo collegio, posto che uno dei componenti dello stesso non era più in forza presso la sezione dell’ufficio; il detto magistrato nominò quindi se stesso presidente del collegio fissando per il 20 maggio 2019 la camera di consiglio in cui si sarebbe fatto luogo all’esame dei documenti di causa e alle conseguenti decisioni. Con ordinanza del 21 maggio 2019, poi, il collegio, nella nuova composizione, ammise consulenza tecnica d’ufficio e fissò l’udienza del 10 giugno 2019 per il giuramento del c.t.u..
Si deduce, col primo mezzo, che sarebbe stata violata la prescrizione dell’art. 276 c.p.c. circa l’immodificabilità del collegio giudicante avanti al quale era stata svolta l’ultima attività processuale prima del trattenimento della causa in decisione.
Col secondo motivo si lamenta che la Corte di appello non avrebbe
preso in esame l’eccezione proposta dalla ricorrente il 10 giugno 2019 concernente la nullità dell’ordinanza ammissiva della consulenza tecnica: deduzione, questa, ribadita all’udienza di precisazione delle conclusioni del 28 ottobre 2019.
Infine, col terzo mezzo, ci si duole dei seguenti, ulteriori, vizi processuali: la sostituzione del consigliere istruttore era stata disposta non dalla presidente della Corte di appello ma dal magistrato che aveva assunto la qualità di presidente del secondo collegio della terza sezione; con ordinanza del 4 giugno 2019 le parti erano state invitate a precisare le conclusioni avanti al collegio, e non all’istruttore, in violazione degli artt. 189 e 190 c.p.c., nel testo previgente, applicabile ratione termporis ; l’ordinanza in questione aveva assegnato i termini per il deposito degli scritti conclusionali da depositarsi dopo l’udienza, nonostante le comparse e le memorie di replica dovessero essere depositati rispettivamente dieci giorni liberi e cinque giorni liberi prima dell’udienza di trattenimento della causa in decisione, essendo nella fattispecie applicabile il testo originario del l’art. 190 c.p.c..
2. – Il primo motivo è infondato.
La stessa ricorrente rileva che l’ordinanza del 13 maggio 2019, con cui fu fissata l’ udienza del 17 giugno 2019, venne assunta dal collegio «nella composizione dell’udienza del 3 aprile 2017»: e quindi dal collegio che aveva trattenuto la causa in decisione dopo lo scambio delle comparse conclusionali e le memorie di replica. La deliberazione di cui all’art. 276 c.p.c. è quindi da riferire a tale atto, non ai successivi con cui, nella sostanza, finì per essere assunta una nuova deliberazione collegiale, cui seguì la fissazione di udienza per la comparizione del c.t.u.. Il tema relativo all’eventuale irregolarità di questa nuova determinazione, peraltro preceduta dal provvedimento di formale costituzione di un nuovo collegio, esula dalla censura proposta, vertente sulla violazione della regola per cui alla decisione collegiale possono partecipare solo i giudici che hanno assistito alla discussione:
condizione, questa, che – si ripete fu soddisfatta dall’ordinanza del 13 maggio 2019, con cui il collegio fissò una nuova udienza, pronunciando ordinanza istruttoria a norma dell’art. 280 c.p.c..
– Il secondo motivo , con cui si lamenta che la Corte di appello abbia mancato di scrutinare l’eccezione di nullità processuale formulata con riguardo alla vicenda sopra descritta, è inammissibile.
Il mancato esame, da parte del giudice del merito, di una questione puramente processuale non può dar luogo ad omissione di pronuncia, configurandosi quest’ultima nella sola ipotesi di mancato esame di domande o eccezioni di merito (Cass. 16 ottobre 2024, n. 26913; Cass. 14 marzo 2018, n. 6174; Cass. 12 gennaio 2016, n. 321; Cass. 10 novembre 2015, n. 22952).
4. – Il terzo motivo è infondato.
In primo luogo, deve osservarsi che il difetto di costituzione del giudice ai sensi dell’art. 158 del codice di rito è ravvisabile unicamente quando gli atti giudiziari siano posti in essere da persone estranee all’ufficio e non investite della funzione esercitata, mentre non è riscontrabile quando si verifichi una sostituzione tra giudici di pari funzione e pari competenza appartenenti al medesimo ufficio giudiziario anche se non siano state osservate al riguardo le disposizioni previste dal codice di procedura civile, ovvero dalle norme sull’ordinamento giudiziario, costituendo l’inosservanza del disposto dell’art. 174 dello stesso codice e 79 delle relative disposizioni di attuazione, in difetto di una espressa sanzione di nullità, una mera irregolarità di carattere interno, che non incide sulla validità dell’atto e non è causa di nullità del giudizio o della sentenza (Cass. 7 aprile 2006, n. 8174: 27 dicembre 2004, n. 24018; Cass. 1 luglio 2004, n. 12012; Cass. 11 luglio 2003, n. 10952). In tal senso, questa Corte ha precisato che l’eventuale mancanza di un formale decreto di nomina del presidente del tribunale che incarichi un giudice di presiedere il collegio che decide le cause di lavoro per una particolare udienza costituisce una semplice irregolarità
formale, relativa ad un atto interno, e non determina alcun vizio della sentenza, neppure se il presidente del collegio eserciti il potere di designare sé stesso quale relatore della causa ed estensore della sentenza (Cass. 12 maggio 2005, n. 9968).
In secondo luogo, deve rilevarsi quanto segue. Se è pur vero che a norma dell’art. 90 l. n. 353 del 1990, come sostituito, da ultimo, dall’art. 9, comma 1, del d.l. n. 432 del 1995, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 534 del 1995, ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995 si applicano le disposizioni vigenti anteriormente a tale data, dovendosi a tal fine far riferimento alla data di introduzione del giudizio di merito, solitamente coincidente con quella di notificazione della citazione davanti al giudice di primo grado (Cass. 18 febbraio 2011, n. 4005; Cass. 16 maggio 2007, n. 11301), dall’adozione di un rito errato non deriva alcuna nullità, né la stessa può essere dedotta quale motivo di gravame, a meno che l’errore non abbia inciso sul contraddittorio o sull’esercizio del diritto di difesa o non abbia, in generale, cagionato un qualsivoglia altro specifico pregiudizio processuale alla parte (Cass. 12 maggio 2021, n. 12567; Cass. 29 settembre 2005, n. 19136). Nel caso in esame non viene in questione alcuna lesione del contraddittorio e del diritto di difesa e parte ricorrente non ha dedotto di aver risentito un danno dall’applicazione della disciplina processuale applicabile ai termini per il deposito degli scritti conclusionali.
La mancata allegazione di uno specifico pregiudizio assumerebbe rilievo anche con riguardo al vizio che si assume consistito nell’invito a precisare le conclusioni avanti al collegio, piuttosto che avanti all’istruttore : ma sul punto è da reputare assorbente il grave deficit di autosufficienza che affligge la censura; la ricorrente accenna a un’ordinanza del 4 giugno 2019 di cui manca di fornire alcun preciso ragguaglio e che non è nemmeno menzionata nella sequenza delle vicende processuali esposta nel ricorso.
5. Col quarto motivo del suo ricorso NOME COGNOME denuncia la violazione degli artt. 384 e 112 c.p.c..
Il quinto motivo del ricorso principale censura la sentenza impugnata per «omesso esame di richieste della ricorrente».
Col sesto mezzo la ricorrente principale lamenta la violazione degli artt. 2549 c.c. e l’omessa motivazione.
I motivi di ricorso in esame hanno ad oggetto la deduzione dei costi «in nero» dalla somma dovuta a NOME COGNOME in ragione del rapporto di associazione in partecipazione intercorso col fratello NOME
Col quarto motivo si deduce che questa Corte, con la sentenza rescindente del 2015, aveva accordato al Giudice del rinvio ampia discrezionalità in merito all’individuazione dei mezzi istruttori necessari per l’accertamento dei predetti costi «in nero», di talché alla Corte di Venezia si imponeva «di valutare tutte le possibilità istruttorie, compresa quella se un tale costo non fosse già stato contabilizzato e fosse di conseguenza indeducibile ». All’opposto, secondo parte ricorrente, il Giudice del rinvio aveva ritenuto fosse stato già accertato che il costo del venduto «avrebbe dovuto in ogni caso essere dedotto dal debito perché non già dedotto nei conteggi fatti dal Tribunale ed in particolare perché non ricompreso nella contabilità ufficiale della farmacia».
Col successivo mezzo di censura si lamenta che la sentenza si sarebbe discostata da quanto disposto da Cass. 22 gennaio 2015, n. 1194; si assume, inoltre, che essa non avrebbe tenuto conto della ripartizione dell’onere della prova oggetto di un giudicato interno; si deduce, infine, che la medesima non avrebbe esaminato le difese e le eccezioni della ricorrente, né la prova contraria offerta.
Il sesto motivo reca la trascrizione di un passaggio della comparsa conclusionale della ricorrente e prospetta il vizio della pronuncia consistente, in buona sintesi, nel mancato esame della seguente questione: gli acquisti in nero, pari a lire 44.687.488, gravavano su
NOME COGNOME non per l’intero, ma in ragione del 52%, e cioè in misura pari alla sua quota di partecipazione all’associazione.
6. La Corte di legittimità, nella sentenza n. 1194 del 2015 ebbe ad accogliere il secondo motivo di ricorso, avente ad oggetto il vizio di motivazione circa l’esistenza e la prova dei «costi sopportati per la realizzazione dei ricavi ulteriori, rispetto alla contabilità ufficiale», nonché dell’esistenza e della prova degli esborsi sostenuti dal ricorrente in qualità di sostituto d’imposta. Si imponeva pertanto di accertare queste due voci di spesa, che avrebbero dovuto decurtarsi dal totale già accertato, in primo grado, dal Tribunale di Padova.
Nella nominata pronuncia di legittimità fu poi osservato: «La sentenza n. 19434 del 2003», e cioè la prima sentenza di annullamento pronunciata da questa Corte nel presente giudizio, «ha affermato che non vi erano ostacoli all’accertamento del costo dei prodotti venduti attraverso una c.t.u., ovvero ricorrendo a criteri residuali (sconto medio praticato dai grossisti). Il Giudice il rinvio è andato in senso contrario, con argomenti che non giustificano la decisione».
Ora, la Corte di appello si è correttamente preoccupata di accertare i costi di cui si è detto, e lo ha fatto attraverso l’esperimento di una consulenza tecnica che quantificasse i costi «in nero» e l’ammontare delle ritenute d’acconto. Il c.t.u., in particolare, ha determinato il valore degli acquisti «in nero» per il biennio 1985-1986 in lire 44.687.488.
Per quanto la sentenza rescindente non imponesse al Giudice del rinvio la nomina di un consulente tecnico, è fuor di dubbio che il detto Giudice ben potesse affidarsi all’ausilio di un esperto contabile per accertare il costo dei prodotti venduti, segnatamente di quelli non documentati dalla contabilità ufficiale. L’indagine del consulente ha portato poi alla quantificazione del dato che, a mente della sentenza di cassazione con rinvio, era necessario individuare: quello relativo, come si è detto, ai «costi sopportati per la realizzazione dei ricavi ulteriori,
rispetto alla contabilità ufficiale»; è escluso, così, che ricorra la denunciata violazione dell’art. 384 c.p.c. . Quanto alla prospettata inosservanza dell’art. 112 c.p.c., la relativa censura è del tutto carente di specificità, mancando la ricorrente di spiegare in che modo la norma in questione sia stata violata.
La ricorrente – lo si è precisato – imputa alla Corte di appello di aver dato per presupposto che i costi accertati con la consulenza tecnica non erano stati presi in considerazione dal Tribunale di Padova con la sentenza di primo grado. Un detto convincimento non è tuttavia sindacabile nella presente sede, afferendo al giudizio di fatto. Al Giudice del rinvio competeva di rendere una nuova pronuncia rimediando al vizio di motivazione da cui era affetta la precedente sentenza di appello: ciò che poteva avvenire non solo valutando liberamente i fatti già accertati, ma anche indagando su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi (Cass. 14 gennaio 2020, n. 448; Cass. 7 agosto 2014, n. 17790) . E’ nell’ambito d i questa ampiezza di manovra che si colloca l’accertamento quanto al fatto che i costi «in nero» risultavano complessivamente pari alla cifra sopra indicata.
Il quarto motivo è dunque nel complesso infondato.
7. Il quinto mezzo è inammissibile.
L’accertamento della Corte di appello è rispettoso, come si è visto, del mandato contenuto della sentenza di cassazione con rinvio.
Non è ritualmente dedotta alcuna violazione dell’onere probatorio, posto che questa è configurabile soltanto nell’ipotesi, diversa da quella odierna, in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 31 agosto 2020, n.
18092; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; cfr. pure Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707).
La contestuale, generica, deduzione dei vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione è inammissibile, in quanto l’articolazione di un singolo motivo in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, costituisce ragione d’inammissibilità dell’impugnazione quando la sua formulazione non consente o rende difficoltosa, come qui accade, l’individuazione delle questioni prospettate (Cass. 17 marzo 2017, n. 7009), dovendo le doglianze, anche se cumulate, essere formulate in modo tale da consentire un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass. 23 ottobre 2018, n. 26790). A ciò si aggiunga che sul punto il motivo è pure carente di specificità, in quanto in esso non si è fatto luogo ad alcuna riproduzione delle deduzioni difensive che interessano.
La violazione dell’art. 115 c.p.c., che pure compare nello svolgimento del motivo, è lamentata infine a sproposito: per dedurre tale vizio occorre infatti denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. Sez. U. 30 settembre 2020, n. 20867; Cass. 9 giugno 2021, n. 16016).
8. – Il sesto motivo è nel complesso infondato.
Onde assolvere all’onere di adeguatezza della motivazione, il
giudice di appello non è tenuto ad esaminare tutte le allegazioni delle parti, essendo necessario e sufficiente che egli esponga concisamente le ragioni della decisione, così da doversi ritenere implicitamente rigettate le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. 9 febbraio 2021, n. 3126; Cass. 2 dicembre 2014, n. 25509).
Quanto alla deduzione del vizio consistente nella violazione degli artt. 2549 ss. c.c. e segnatamente dell’art. 2553 c.c., secondo cui l’associato partecipa alle perdite nella misura in cui partecipa agli utili, essa è carente di specificità, in quanto le argomentazioni trascritte (che sono tratte dalla seconda comparsa conclusionale depositata avanti alla Corte del rinvio) si basano su elementi (le quote di spettanza delle parti nell’associazione in partecipazione e i precisi contenuti della consulenza tecnica), che sono solo richiamati, senza fornire puntuali ragguagli al riguardo.
Il settimo motivo del ricorso principale prospetta la violazione dell’art. 345 c.p.c..
Con l ‘ottavo motivo del ricorso principale ci si duole della violazione dell’art. 384 c.p.c..
I due motivi hanno ad oggetto lo scomputo delle ritenute di acconto versate da NOME COGNOME che sono state quantificate in lire 19.211.070.
Assume la ricorrente, col settimo motivo, che la produzione documentale relativa alle richiamate ritenute risulterebbe tardiva, essendo stata operata in appello senza che la Corte di merito avesse riconosciuto l’indispensabilità dell’acquisizione processuale.
Col successivo mezzo di censura la ricorrente si duole che la Corte di appello abbia ritenuto già accertato giudizialmente l’ammontare delle dette ritenute.
– Si legge nella sentenza del 2015 di questa S.C. che «il profilo probatorio dell’esistenza e dell’ammontare» dei versamenti relativi alle ritenute d’acconto «era superato fin dal giudizio di primo
grado, e, come evidenziato dalla sentenza di Cassazione, la questione verteva sulla omessa detrazione della somma di lire 19.211.070 corrispondente alle ritenute di acconto effettivamente versata per gli anni 19851989 – dal quantum di pertinenza di Monaco NOME».
Ora, il giudice del rinvio è investito della controversia nei limiti segnati dalla decisione di legittimità relativamente alle questioni da essa decise e non può, quindi, riesaminare gli antecedenti logici e giuridici delle stesse (Cass. 14 gennaio 2019, n. 636; Cass. 22 maggio 2006, n. 11939). La Corte di appello era dunque tenuta a decidere la causa muovendo dal presupposto, che l’ammontare della somm a da detrarre per il titolo che interessa era quello indicato.
– L’unico motivo del ricorso incidentale oppone la violazione degli artt. 132, 156 e 161 c.p.c..
Si lamenta che la Corte di appello abbia riconosciuto, in motivazione, dovesse disporsi la restituzione di quanto eventualmente pagato in eccedenza dall’appellante in riassunzione a favore della controparte in forza dei titoli provvisoriamente esecutivi, con gli interessi al tasso legale decorrenti dal pagamento al saldo effettivo. Rileva, però, che quanto disposto con riferimento ai nominati interessi non compariva nel successivo dispositivo.
– Il motivo deve essere respinto in quanto la Corte di appello ha inteso univocamente accordare gli interessi legali sulla somma da restituire, con decorrenza dal pagamento. L ‘assenza di una corrispondente statuizione nel corpo del dispositivo è imputabile a errore materiale: ora, alla contraddittorietà fra motivazione e dispositivo che integri gli estremi non del vizio di motivazione ma dell’errore materiale, può porsi rimedio non con il ricorso per cassazione bensì con lo strumento previsto dagli artt. 287 ss. c.p.c. (Cass. 29 aprile 1993, n. 5032).
– I due ricorsi vanno dunque respinti.
Le spese del giudizio di legittimità gravano sulla ricorrente
principale, reputando il Collegio che, in considerazione dei temi in discussione, la soccombenza reciproca non giustifichi, nel caso specifico, alcuna compensazione delle spese : d’altro canto, fuori della ipotesi di violazione del principio di soccombenza per essere stata condannata la parte totalmente vittoriosa, il regolamento delle spese è rimesso, anche per quanto riguarda la loro compensazione, al potere discrezionale del giudice.
P.Q.M.
La Corte
rigetta entrambi i ricorsi; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 8.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, facente capo a entrambe le parti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione