Sentenza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 18360 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 3 Num. 18360 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 05/07/2025
R.G. 22509/2021
COGNOME
Rep.
U.P. 27/5/2025
C.C. 14/4/2022
FONDO DI ROTAZIONE PER LE VITTIME DEI REATI DI TIPO MAFIOSO
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 22509/2021 R.G. proposto da : NOME e NOMECOGNOME tutti rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, elettivamente domiciliati presso l’ indirizzo PEC indicato dal difensore
-ricorrenti-
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, COMITATO SOLIDARIETÀ PER LE VITTIME REATI DI TIPO MAFIOSO E DEI REATI INTERNAZIONALI VIOLENTI, rappresentati e difesi per legge dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, elettivamente domiciliati presso l’indirizzo PEC indicato dal difensore
-controricorrenti- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di CATANIA n. 201/2021 depositata il 28/01/2021.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Udito il Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Uditi l’avvocato NOME COGNOME per i ricorrenti e l’avvocato dello Stato NOME COGNOME per i controricorrenti.
FATTI DI CAUSA
NOME, NOME e NOME COGNOME eredi della defunta NOME COGNOME, convennero in giudizio il Ministero dell’interno, davanti al Tribunale di Catania, chiedendo che fosse riconosciuto il loro diritto ad accedere al Fondo di rotazione per la solidarietà delle vittime dei reati di tipo mafioso, previsto dalla legge 22 dicembre 1999, n. 512, in riferimento alla precedente condanna pronunciata in loro favore dal Tribunale di Ragusa.
A sostegno della domanda esposero, tra l’altro, che sia il fratello che il padre di NOME COGNOME, rispettivamente NOME e NOME COGNOME, erano rimasti vittime di omicidi di stampo mafioso e che il Tribunale di Ragusa, con la sentenza n. 881 del 2013, aveva condannato gli autori dei due crimini al risarcimento dei danni in favore dei familiari. In forza di tale condanna, NOME COGNOME aveva presentato istanza di accesso al Fondo suindicato, la quale era stata accolta quanto all’omicidio del padre, ma non in relazione a quello del fratello, poiché dagli accertamenti esperiti era emerso che NOME COGNOME era stato ucciso per aver contravvenuto agli ordini dei clan mafiosi.
Venuta a mancare, nelle more, NOME COGNOME gli eredi avevano agito per sentirsi riconoscere il diritto all’accesso al fondo anche in relazione alla morte di NOME COGNOME.
Il Tribunale accolse la domanda e riconobbe l’esistenza del diritto avanzato dagli attori.
La decisione è stata impugnata dal Ministero dell’interno e la Corte d’appello di Catania, con sentenza del 28 gennaio 2021, ha
accolto il gravame e, in totale riforma della pronuncia del Tribunale, ha rigettato la domanda degli originari attori e li ha condannati alla rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
2.1. Ha osservato la Corte territoriale che la sussistenza dei requisiti soggettivi e oggettivi di cui alle leggi 20 ottobre 1990, n. 302, e n. 512 del 1999 deve essere dimostrata dai richiedenti, seguendo le regole generali sull’onere della prova. Tra le condizioni di accesso al Fondo vi è che il soggetto leso non abbia concorso alla commissione del fatto e che il medesimo risulti del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali; e tali condizioni, previste dall’art. 1 della legge n. 302 del 1990, valgono anche per i superstiti dei soggetti deceduti a seguito dei crimini in questione, come previsto dall’art. 4 della stessa legge n. 302 del 1990. Il carattere ostativo di tali condizioni è stato ribadito anche dall’art. 2quinquies del d.l. 2 ottobre 2008, n. 151, convertito, con modifiche, nella legge 28 novembre 2008, n. 186. D’altra parte, ha aggiunto la Corte di merito, i criteri suindicati sono in tutto rispondenti alla ratio legis , «che è appunto quella di indennizzare le vittime, intendendosi per tali, necessariamente, i soggetti del tutto estranei agli ambienti malavitosi e non coloro che ne fanno parte».
Ad ulteriore conferma della propria tesi, la Corte d’appello ha richiamato anche l’art. 15 della legge 7 luglio 2016, n. 122, il quale ha espressamente modificato l’art. 4, comma 3, della legge n. 512 del 1999, prevedendo come causa ostativa all’accesso al Fondo la sussistenza delle condizioni di cui all’art. 1, comma 2, lettera b ), della legge n. 302 del 1990. La disposizione dell’art. 15, comma 3, cit., prevede, inoltre, che lo ius superveniens si applichi anche alle istanze non ancora definite ; e la Corte d’appello ha interpretato questa previsione nel senso che solo il giudicato possa escludere l’applicazione retroattiva della norma. Nel caso di specie, quindi, poiché la domanda amministrativa dei familiari era stata respinta e la sentenza del Tribunale di Catania, viceversa a loro favorevole,
non era ancora passata in giudicato alla data di entrata in vigore della legge n. 122 del 2016, la norma transitoria dell’art. 15 cit. doveva ritenersi applicabile. E a conforto di simile interpretazione la Corte d’appello ha richiamato la sentenza di questa Corte 8 novembre 2019, n. 28820.
2.2. Alla luce della ricostruzione del complesso quadro normativo, la Corte etnea ha affermato che la defunta COGNOME -e per lei i suoi eredi -avrebbero dovuto dimostrare l’estraneità del congiunto ucciso agli ambienti malavitosi, estraneità che non era stata provata. Anzi, al contrario, dallo stesso atto di citazione di NOME COGNOME si poteva evincere «che la morte di NOME COGNOME, unitamente ad altre due vittime, era stata decisa ‘perché le vittime avevano ripetutamente destato le ire dei clan’». Derivava da tale elemento la prova della non estraneità della vittima ad ambienti malavitosi, mentre risultava irrilevante la mancata prova di condanne penali, dovendo ritenersi sufficiente il collegamento con ambienti mafiosi.
Contro la sentenza della Corte d’appello di Catania propongono ricorso NOMECOGNOME NOME e NOME COGNOME con unico atto affidato a cinque motivi.
Resiste il Ministero dell’interno con controricorso.
Le parti hanno depositato memorie.
Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte, chiedendo che il ricorso venga rigettato.
Fissata la trattazione del ricorso per la camera di consiglio del 17 ottobre 2024, questa Corte, con ordinanza interlocutoria del 15 novembre 2024, n. 29552, ha rimesso la decisione alla pubblica udienza, attesa la complessità delle questioni trattate.
In vista dell’udienza pubblica odierna i ricorrenti hanno depositato un’ulteriore memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omessa valutazione circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione e contestazione tra le parti; nullità della sentenza impugnata; violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. e violazione dell’art. 2697 cod. civ., nonché omessa o apparente motivazione.
Lamentano i ricorrenti che la sentenza impugnata, ponendo a loro carico l’onere della prova dell’estraneità del soggetto ad ambienti e rapporti malavitosi, avrebbe assunto una decisione in contrasto con le risultanze di causa e con i principi in tema di onere della prova. Più specificamente, i ricorrenti sostengono che la Corte d’appello avrebbe posto a loro carico una sorta di probatio diabolica , posto che essi avevano allegato di aver diritto di accesso al Fondo e dedotto l’insussistenza di elementi negativi, per cui non avrebbero potuto fare altro per assolvere al proprio onere della prova. In sede di merito, aggiungono i ricorrenti, essi avevano contestato la mancata esistenza di sentenze penali di condanna e di accertamenti investigativi in capo alla vittima.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1, comma 2, e 7 della legge n. 302 del 1990, oltre a omessa motivazione su un punto decisivo della controversia e motivazione apparente.
I ricorrenti, dopo aver premesso che gli artt. 1, comma 2, e 7 della legge n. 302 del 1990 escludono dall’accesso al Fondo di rotazione coloro che non risultino estranei ad ambienti malavitosi, osservano che la sentenza impugnata avrebbe violato tali norme sotto due profili: da un lato, per aver affermato l’irrilevanza della mancata prova costituita da una sentenza di condanna, e dall’altro per aver affermato che fosse sufficiente, per ritenere dimostrato il collegamento con gli ambienti della malavita, l’espressione ‘ aver
suscitato le ire dei clan ‘. Le ire dei clan, ad avviso dei ricorrenti, possono essere ricondotte alle più varie ragioni, fra le quali anche quella di aver cercato di indagare sulle ragioni della morte di NOME COGNOME; e tale motivazione sarebbe anomala, avendo dato rilievo a elementi non decisivi e avendo viceversa escluso ogni valore ad elementi necessari (la sussistenza di una condanna penale).
Il primo ed il secondo motivo devono essere esaminati congiuntamente, attesa l’evidente connessione che li unisce.
Occorre innanzitutto rilevare che la Corte d’appello ha motivato la propria decisione, per quanto attiene alla questione dell’estraneità dei richiedenti rispetto alle strutture malavitose, attraverso due diverse rationes decidendi : l’una fondata sul principio dell’onere della prova e l’altra, evidentemente basata su di una valutazione di merito delle acquisizioni processuali, riguardante la prova concreta della contiguità rispetto a dette strutture.
Quanto all’onere della prova, la Corte osserva, in generale, che la legge può addossare a carico di una parte l’onere della prova anche di un fatto negativo; e in tal caso, per evitare di rendere troppo difficile o impossibile l’esercizio dell’azione, poiché non è materialmente possibile dimostrare un fatto non avvenuto , la relativa prova può essere fornita mediante dimostrazione di uno specifico fatto costitutivo contrario o anche mediante presunzioni (v., tra le altre, la sentenza 6 giugno 2012, n. 9099, e l’ordinanza 22 marzo 2021, n. 8018; si veda pure, a proposito di rapporti agrari, la sentenza 20 agosto 2015, n. 17009).
Nella specifica materia oggetto del presente ricorso, poi, si deve rilevare -anticipando, in qualche misura, quello che si dirà in seguito -che la Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 122 del 2024, ha affermato, ricostruendo la fitta trama normativa che regola i benefici economici in favore delle vittime della criminalità organizzata, che è «immanente nel sistema la necessità di una
verifica rigorosa della radicale estraneità al contesto criminale» e che su chi «rivendica elargizioni o assegni vitalizi grava l’onere di dimostrare in modo persuasivo l’estraneità, che assurge a elemento costitutivo del diritto, e la carenza di una prova adeguata ridonda a danno di chi reclama le provvidenze».
Il Giudice delle leggi non poteva essere più chiaro; e tali affermazioni, che sono pienamente in armonia con la giurisprudenza di questa Corte, dimostrano in modo inoppugnabile che nessuna violazione delle regole sull’onere della prova è addebitabile alla sentenza oggi impugnata (assai di recente, del resto, l’ordinanza 16 marzo 2025, n. 6962, ha ribadito che, a seguito della sentenza costituzionale citata, grava a carico dei richiedenti l’onere di dimostrare il requisito della meritevolezza sia della vittima diretta che dei soggetti che richiedono l’elargizione).
Quanto all’ulteriore e diverso problema della prova concreta dell’estraneità dei richiedenti al contesto criminale, il Collegio osserva che la motivazione resa dalla Corte d’appello, benché alquanto stringata sul punto, consente di comprendere pienamente il ragionamento ivi seguito. Si legge nella sentenza, infatti, che dal contenuto dello stesso atto di citazione si poteva dedurre che la morte di NOME COGNOME era avvenuta «unitamente ad altre due vittime» e che i tre omicidi erano stati determinati dall’avere le vittime «ripetutamente destato le ire dei clan». Quest’affermazione, letta unitamente al passaggio successivo nel quale la Corte etnea ha considerato «irrilevante la mancata prova di condanne penali», dimostra in modo evidente che il richiamo alle «ire dei clan» deve essere inteso non nel senso oggi auspicato dai ricorrenti, bensì in quello opposto, cioè come segno indiretto del coinvolgimento della vittima in quel tessuto criminale che ne aveva, ad un certo punto, decretato la morte.
Dal complesso di tutte le argomentazioni precedenti emerge la manifesta infondatezza del primo e del secondo motivo di ricorso, che devono essere entrambi rigettati.
Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 4 e ss. della legge n. 512 del 1999, dell’art. 11 delle preleggi, della legge n. 186 del 2008, quest’ultima ritenuta non applicabile in quanto sopravvenuta, con violazione dei principi del diritto quesito e del legittimo affidamento.
I ricorrenti sostengono che la sentenza avrebbe errato nella ricostruzione del quadro normativo e avrebbe ritenuto applicabili al caso in esame anche alcune norme sopravvenute, dettate in relazione ad un contesto diverso.
Il motivo in esame fa un ampio accenno alla normativa vigente, osservando che la legge n. 302 del 1990 ha istituito un sostegno di solidarietà a favore di quanti fossero rimasti vittime incolpevoli di atti di criminalità organizzata, mentre la legge n. 512 del 1999 è intervenuta per finalità ben diverse. In particolare, i ricorrenti osservano che:
-la legge n. 302 del 1990 è stata dettata in favore delle vittime di atti di terrorismo e di eversione;
-la legge n. 512 del 1999 non prevedeva, quale presupposto del beneficio da essa introdotto, il requisito dell’estraneità agli ambienti delinquenziali della vittima diretta, ma realizzava un intervento innovativo volto ad agevolare le vittime nel conseguire i diritti patrimoniali già riconosciuti per effetto della costituzione di parte civile nel processo penale o dell’azione risarcitoria civile, sicché sarebbe errato volerne parificare la ratio a quella della legge n. 302 del 1990;
-le modifiche introdotte dal d.l. n. 151 del 2008, convertito nella legge n. 186 del 2008, dovrebbero essere distinte, perché l’art. 2 -ter ha ad oggetto modifiche alla legge n. 512 del 1999,
mentre l’art. 2 -quinquies riguarda i limiti di concessione dei benefici ai superstiti delle vittime della criminalità organizzata; quest’ultimo ha esteso il requisito della totale estraneità, già previsto per le vittime dirette, anche ai superstiti beneficiari della legge n. 302 del 1990;
-solo con la legge n. 122 del 2016 è stato aggiunto al comma 3 dell’art. 4 della legge n. 512 del 1999 l’inciso finale «ovvero quando risultano escluse le condizioni di cui all’art. 1, comma 2, lettera b ), della legge 20 ottobre 1990 n. 302», così equiparando, a decorrere dalla sua applicabilità, i presupposti richiesti per l’accesso al Fondo a quelli per la richiesta dei benefici di cui alla legge n. 302 del 1990.
La domanda riguardava, nella specie, l’accesso al fondo di cui alla legge n. 512 del 1999 e non ai benefici ex lege n. 302 del 1990; il procedimento amministrativo, alla stregua della giurisprudenza della Suprema Corte, era da inquadrare tra quelli meramente dichiarativi-accertativi in quanto finalizzato solo a certificare l’ an ed il quantum del credito; i casi di esclusione e di rigetto delle domande di cui alla legge n. 512 del 1999 erano elencati tassativamente negli artt. 4 e 4bis di quest’ultima, e gli stessi non consentivano alcuna interpretazione estensiva o rinvio ai casi di diniego di cui alla legge n. 302 del 1990; nella decisione amministrativa non poteva darsi spazio ad alcun potere discrezionale né a valutazioni di elementi non previsti legislativamente al momento della domanda; era stata provata la sussistenza dei presupposti normativi richiesti e l’inesistenza dei casi di esclusione indicati, non essendoci procedimenti penali o misure di prevenzione pendenti o definitivi a carico degli istanti né del deceduto.
La decisione impugnata, pertanto, con il richiamo al precedente di cui alla sentenza n. 28820 del 2019, che ha ritenuto immanente, e quindi vigente sin dall’origine, anche alla legge n.
512 del 1999 il requisito della ‘estraneità’, si sarebbe posta in contrasto con la giurisprudenza di legittimità che, pacificamente e costantemente, ha statuito l’illegittimità di ogni valutazione autonoma dei presupposti dell’accesso al fondo di solidarietà, nonché la tassatività delle cause originariamente elencate dall’art. 4 della legge n. 512 del 1999 e l’inammissibilità in materia del principio tempus regit actum (Sezioni Unite, sentenza 29 agosto 2008, n. 21927).
A conclusione della complessa censura i ricorrenti ricordano di aver presentato la domanda giudiziale nell’anno 2008, prima dell’entrata in vigore delle modifiche introdotte dal citato d.l. n. 151 del 2008 e della legge di conversione, di talché, a loro parere, sussisteva un legittimo affidamento sull’esistenza delle condizioni di legge per poter accedere al beneficio, perché in quel momento la legge vigente era la n. 512 del 1999 nel suo testo originario, «che non prevedeva lo scrutinio dei requisiti di cui all’art. 4 in capo alla vittima diretta, che poteva essere stato anche un soggetto con plurimi gravi precedenti».
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione della legge n. 302 del 1990 e della legge n. 122 del 2016, anche per la presunta non retroattività dell’art. 15, comma 3, di quest’ultima legge.
I ricorrenti osservano che la norma transitoria dell’art. 15, comma 3, cit., non sarebbe applicabile nel caso specifico poiché, diversamente da quanto ritenuto nella sentenza impugnata, « istanze non ancora definite » (alle quali, secondo la citata norma transitoria, è applicabile la nuova disciplina) non possono considerarsi quelle che, come l’istanza da essi proposta, anteriormente alla entrata in vigore della legge di conversione, sono state definite in sede amministrativa con delibera di rigetto, ancorché poi impugnata. L’avvenuta conclusione e definizione del
procedimento amministrativo in data antecedente l’entrata in vigore della modifica costituirebbe prova certa dell’inapplicabilità della riforma e del conseguente regime transitorio. Si tratterebbe, in caso contrario, di un’interpretazione non conforme ai principi costituzionali di ragionevolezza e di tutela dell’affidamento, che troverebbe fondamento nella sola sentenza n. 28820 del 2019, definito come un precedente ‘isolato’.
Il terzo ed il quarto motivo devono essere trattati congiuntamente, in considerazione dell’evidente connessione, poiché entrambi sono tesi a dimostrare l’erroneità della tesi sostenuta dalla Corte d’appello alla luce della ricostruzione della complessa normativa qui in esame.
6.1. Occorre ricordare che la sentenza impugnata ha ritenuto, richiamando a sostegno la sentenza n. 28820 del 2019 di questa Corte, che il requisito della estraneità agli ambienti malavitosi deve ritenersi sussistente ininterrottamente sin dall’entrata in vigore della legge n. 302 del 1990 e nelle successive disposizioni relative alla materia in esame; ben prima, cioè, dell’entrata in vigore della legge n. 122 del 2016, che altro non avrebbe fatto che confermare quanto già ricavabile dalle precedenti disposizioni. Tale orientamento è stato poi ribadito da altre e più recenti decisioni di questa Corte (ordinanze 13 ottobre 2023, n. 28627, 6 marzo 2024, n. 6007, e 6 maggio 2024, n. 12146).
Alla giurisprudenza ora richiamata l’odierna decisione intende dare ulteriore continuità. Si deve quindi osservare, richiamando le suindicate decisioni, che:
l’art. 1 della legge n. 302 del 1990 ( Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata ), nel prevedere il diritto alla « elargizione fino a euro 200.000 » in favore di « chiunque subisca un’invalidità permanente, per effetto di ferite o lesioni riportate in conseguenza dello svolgersi nel territorio dello Stato di atti di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico »
(comma 1), nonché in favore di chiunque tali pregiudizi subisca « in conseguenza dello svolgersi nel territorio dello Stato di fatti delittuosi commessi per il perseguimento delle finalità delle associazioni di cui all’articolo 416bis del cod. pen. » (comma 2), subordina detta provvidenza a talune condizioni negative, tra le quali quello dell’essere il soggetto leso « del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali » (comma 2, lett. b);
b) la stessa condizione negativa sussiste per l’elargizione prevista in favore dei superstiti del soggetto deceduto a seguito dei crimini in questione ;
c) i criteri dettati dalle norme citate valgono in via generale per tutte le provvidenze erogate dallo Stato, essendo insiti nella stessa ratio legis , che è appunto quella di indennizzare le vittime, intendendosi per tali, necessariamente, i soggetti del tutto estranei agli ambienti malavitosi e non coloro che ne fanno parte, i quali, a ragionare diversamente, riceverebbero, del tutto irragionevolmente, aiuti di Stato per avere scelto la via del crimine piuttosto che quella della legalità;
l’esposta condizione negativa è peraltro espressamente richiesta dall’art. 4, comma 3, legge n. 512 del 1999, come modificato dall’art. 15, comma 1, lett. c ), della legge n. 122 del 2016, attraverso il rimando alle « condizioni di cui all’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 20 ottobre 1990, n. 302 »;
l’estraneità agli ambienti di mafia del soggetto che chieda l’accesso al Fondo di rotazione ex lege n. 512 del 1999 (la cui istituzione persegue, come noto, lo scopo di rendere effettivo e concreto il diritto al risarcimento del danno riconosciuto giudizialmente a favore delle vittime di tale specifica tipologia di reati, attribuendone l’onere in via sussidiaria per l’appunto al Fondo), allo stesso modo che quella richiesta per i soggetti che chiedano l’indennizzo previsto dalle legge n. 302 del 1990, costituisce invero condizione immanente allo scopo stesso della legge, tale per cui essa contraddirebbe sé stessa e la funzione per cui il Fondo è stato istituito ove se ne ammettesse l’applicazione anche in favore di soggetti inseriti nel contesto criminale da cui originano i fatti lesivi;
scopo mediato, ma evidentemente prioritario, perseguito dalla legge istitutiva del Fondo è pur sempre, infatti, quello di contrastare i fenomeni d’infiltrazione mafiosa, nella ragionevole convinzione che la concreta solidarietà in favore di coloro che hanno subito danni materiali alle proprie attività economiche (per il coraggio di essersi sottratti al regime deprimente della mafia) possa consentire agli stessi di trarre benefici oggettivi dal diritto concreto al risarcimento dei danni patiti, così al tempo stesso contrastando quelle situazioni di debolezza, isolamento e inferiorità economica e sociale nelle quali attecchisce e si fortifica il fenomeno mafioso;
si otterrebbe invece, evidentemente, il risultato opposto se tale beneficio venisse riconosciuto nel caso in cui il beneficiario (o il congiunto dalla cui lesione origini il diritto al risarcimento
riconosciuto giudizialmente) risulti appartenere al contesto criminale che ha dato ragione e origine al fatto lesivo; tali soggetti riceverebbero in tal caso la provvidenza pubblica non per essersi coraggiosamente allontanati e opposti al contesto mafioso ma, al contrario, paradossalmente, proprio per averne fatto parte.
6.2. Ai fini della decisione del ricorso odierno gioca un ruolo fondamentale, per così dire, il testo dell’art. 4, comma 3, della legge n. 512 del 1999, già richiamato, sul quale è opportuno soffermarsi ulteriormente. È, infatti, in virtù di tale norma -il cui testo vigente risulta, come si è detto, dalla modifica in esso introdotta dall’art. 15, comma 1, lett. c ), della legge n. 122 del 2016 -che è stato introdotta la condizione ostativa derivante, a carico dei richiedenti le prestazioni del Fondo di rotazione per la solidarietà delle vittime dei reati di tipo mafioso, dall’esclusione delle condizioni di cui all’art. 1, comma 2, lettera b ), della legge n. 302 del 1990.
Il legislatore -com’è evidente nonostante la tecnica dei rimandi, di per sé non impeccabile -ha distinto, da un lato, al comma 3 dell’art. 4 cit., le circostanze in presenza delle quali « l’obbligazione del Fondo non sussiste », dall’altro, nel comma 4, le condizioni in presenza delle quali « il diritto di accesso al Fondo non può essere esercitato ». Le prime sono dunque identificate quali elementi negativi della fattispecie legale che dà diritto all’accesso al Fondo; le seconde quali fatti impeditivi dell’esercizio di un diritto già sorto.
Non a caso l’art. 15, comma 1, lett. c ), della legge n. 122 del 2016 ha inserito l’inciso « ovvero quando risultano escluse le condizioni di cui all’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 20 ottobre 1990, n. 302 » (vale a dire l’ipotesi in cui risulti esclusa l’estraneità del soggetto leso estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali) nel comma 3, ossia tra gli elementi che definiscono, in negativo, la stessa fattispecie legale costitutiva del diritto
all’accesso e non tra le condizioni che, alla stregua di eccezioni, ne impediscono l’esercizio. Appare evidente che, in tal modo, la modifica ha (solo) inteso esplicitare quello che è un connotato intrinseco alla definizione della fattispecie legale, come tale ricavabile dalla sua stessa ragion d’essere.
Va pertanto ulteriormente ribadito, anche alla luce della già citata sentenza n. 122 del 2024 della Corte costituzionale, che l’estraneità ad ambienti di mafia del richiedente l’accesso al Fondo di rotazione ha la natura di un prerequisito immanente allo scopo stesso della legge istitutiva n. 512 del 1999.
6.3. È necessario, giunti a questo punto, soffermarsi ancora sulla corretta interpretazione dell’art. 15, comma 3, della legge n. 122 del 2016, a norma del quale la disposizione del precedente comma 1, lettera c ) -che ha interpolato, come appena visto, all’interno dell’art. 4, comma 3, della legge n. 512 del 1999 il richiamo all’art. 1, comma 2, lettera b ), della legge n. 302 del 1990 -si applica « alle istanze non ancora definite alla data di entrata in vigore della presente legge ».
I ricorrenti, infatti, hanno particolarmente insistito, nel quarto motivo di ricorso, nel sostenere che l’espressione « istanze non ancora definite » renderebbe di per sé inapplicabile la norma sopravvenuta nel giudizio odierno, posto che essi avevano avanzato la loro domanda amministrativa prima dell’entrata in vigore della legge n. 122 del 2016 e se la erano vista rigettare, in via amministrativa, con un provvedimento definitivo. Di talché, obiettano, l’istanza era da considerare definita , con conseguente inapplicabilità della modifica legislativa.
La Corte ritiene di dover ancora ribadire che la tesi dei ricorrenti non può essere condivisa. Ed infatti, da un lato va rimarcato che la legge n. 122 non ha fatto altro che confermare la necessità di un prerequisito da considerare immanente nella legislazione in esame, per cui essa non ha carattere realmente
innovativo. Da un altro lato, poi, tenendo presente il meccanismo di accesso alle prestazioni erogate dal Fondo, che prevede la possibilità di contestare in via giurisdizionale, com’è avvenuto nel caso di specie, il diniego opposto in via amministrativa, è soltanto col passaggio in giudicato della sentenza che esamina l’impugnazione del provvedimento amministrativo che l’istanza può realmente ritenersi ‘ definita ‘ ai fini della previsione dell’art. 15 della legge n. 122 del 2016.
Giova poi ulteriormente richiamare quanto questa Corte ha già affermato nella citata ordinanza n. 28627 del 2023 là dove è stato detto che, ove anche si volesse, in via di mera ipotesi di scuola, ritenere che l’art. 15 cit. abbia inserito un requisito negativo nuovo e ostativo alla concessione del beneficio, nessun dubbio di legittimità costituzionale della norma sopravvenuta potrebbe porsi. Poiché, infatti, le prestazioni riconosciute dalle leggi qui in esame hanno funzione evidentemente solidaristica (art. 2 Cost.), «in presenza di una situazione di compromissione del soggetto beneficiario o del congiunto dalla cui lesione origini il diritto al beneficio con il contesto criminale che ha dato ragione e origine al fatto lesivo», sarebbe del tutto razionale e giustificabile l’intervento retroattivo del legislatore volto ad escludere la realizzazione di un intento solidaristico privo di giustificazione.
È appena il caso di rilevare, infine, che le ulteriori e diverse pronunce che, secondo la difesa dei ricorrenti, imporrebbero di pervenire a diverse conclusioni non contengono, in realtà, affermazioni contrastanti con quelle della presente decisione, com’è stato già ampiamente dimostrato nell’ordinanza n. 28627 del 2023 alla quale si rimanda.
Si deve concludere, pertanto, nel senso che il terzo e quarto motivo di ricorso sono privi di fondamento.
Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione
e falsa applicazione degli artt. 112, 329, secondo comma e 342 cod. proc. civ., oltre a omessa motivazione su un fatto decisivo.
Secondo i ricorrenti, l’impugnata sentenza avrebbe violato numerosi canoni procedurali, mutando d’ufficio i fatti estintivi della pretesa e superando i limiti di operatività del principio iura novit curia . Il Ministero appellante, infatti, aveva impostato la propria impugnazione contro la sentenza del Tribunale invocando la falsa individuazione dei motivi sul possesso dei requisiti di accesso al Fondo di solidarietà in capo alla vittima NOME COGNOME ma senza richiamare le modifiche introdotte dalla legge n. 122 del 2016 alla legge n. 512 del 1999. La Corte d’appello, quindi, non avrebbe applicato la legge, ma piuttosto avrebbe aiutato l’appellante , integrando i motivi di gravame e andando oltre il principio del devolutum . Richiamando, poi, la circostanza per cui la vittima era stata uccisa per aver suscitato le ire del clan, la sentenza in esame avrebbe accolto l’appello sulla base di motivi diversi e non proposti dall’appellante.
7.1. Il motivo, quando non inammissibile, è comunque privo di fondamento.
Il Collegio rileva, innanzitutto, che le censure in esso formulate sono in una certa misura ripetitive di quelle già esaminate nei motivi precedenti.
Ciò premesso, si osserva che la presunta violazione del principio della domanda è palesemente insussistente, dal momento che la Corte d’appello si è limitata a rilevare l’incidenza di una normativa vigente sui fatti quali risultavano pacificamente già nel giudizio di primo grado, e tanto ha fatto attraverso un rilievo in diritto pienamente possibile per il giudice di appello (in mancanza di una pronuncia sul punto del primo giudice non censurata e oggetto di giudicato interno). Ed è evidente che la ricostruzione di un quadro normativo obiettivamente complesso non può essere
considerata come una sorta di favore nei confronti della parte appellante.
Il ricorso, pertanto, è rigettato, dovendosi enunciare i seguenti principi di diritto:
«In tema di elargizioni in favore di vittime di reati di tipo mafioso, il requisito dell’estraneità ad ambienti e rapporti delinquenziali costituisce elemento costitutivo originario della fattispecie legale che dà diritto all’accesso al Fondo di rotazione istituito dalla legge n. 512 del 1999, in quanto prerequisito tassativo di meritevolezza in funzione dello scopo perseguito di sostegno alle vittime della mafia e di contrasto ai fenomeni d’infiltrazione mafiosa. Tale natura implica, da un lato, sotto il profilo formale, l’esclusione del riconoscimento di efficacia innovativa dell’ordinamento giuridico al disposto dell’art. 15, comma 1, lettera c ), della legge n. 122 del 2016, quale norma meramente ricognitiva, in funzione chiarificatrice, di un connotato intrinseco alla fattispecie legale; dall’altro lato, sotto il profilo sostanziale, che il predetto requisito, da intendersi, non già, in negativo, come mera condizione di incensurato o come mancanza di affiliazione alle consorterie criminali, ma, in positivo, quale condotta di vita antitetica al codice di comportamento delle organizzazioni malavitose, deve essere provato dal richiedente la provvidenza o il beneficio, sicché, in difetto di tale dimostrazione, la domanda deve essere rigettata».
«L’espressione « istanze non ancora definite » contenuta nell’art. 15, comma 3, della legge n. 122 del 2016 che costituisce condizione per l’applicabilità della modifica dell’art. 4, comma 3, della legge n. 512 del 1999 introdotta dal comma 1, lettera c ), del medesimo art. 15 -deve ritenersi sottintendere la presenza di un contenzioso giurisdizionale non ancora approdato al giudicato, non potendo ritenersi definita l’istanza oggetto solo di una decisione emessa in sede amministrativa».
A tale esito segue la condanna dei ricorrenti, in solido, alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del d.m. 13 agosto 2022, n. 147, sopravvenuto a determinare i compensi professionali.
Sussistono inoltre i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 5.000 più spese eventualmente prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza