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Videosorveglianza e licenziamento: la Cassazione

La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità di un licenziamento basato su prove raccolte tramite videosorveglianza aziendale. Il caso riguardava un addetto alla biglietteria licenziato per aver trattenuto il resto destinato ai clienti. La Corte ha stabilito che, se l’impianto è installato per la tutela del patrimonio aziendale in base a un accordo sindacale, le immagini possono essere utilizzate per provare illeciti del dipendente, anche in assenza di un reclamo specifico da parte di un cliente, come invece previsto dall’accordo stesso. La nozione di ‘patrimonio aziendale’ viene interpretata in senso ampio, includendo anche la reputazione e l’immagine dell’impresa, messe a rischio da comportamenti fraudolenti. La contestazione generica delle prove video da parte del lavoratore è stata inoltre ritenuta inefficace.

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Pubblicato il 16 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Videosorveglianza e licenziamento: la Cassazione stabilisce i limiti

L’uso della videosorveglianza e il licenziamento di un dipendente rappresentano un terreno complesso, dove si scontrano il diritto del datore di lavoro a proteggere la propria azienda e il diritto del lavoratore alla privacy. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali, stabilendo che le prove video possono essere utilizzate per un licenziamento per giusta causa, anche se le modalità di visione non rispettano alla lettera le previsioni di un accordo sindacale, a patto che lo scopo primario sia la tutela del patrimonio aziendale da condotte illecite.

I fatti di causa: il licenziamento basato su riprese video

Il caso ha origine dal licenziamento di un addetto alla biglietteria di una compagnia di trasporti. L’azienda, sulla base di filmati registrati da un impianto di videosorveglianza, ha contestato al dipendente di aver commesso gravi irregolarità nelle operazioni di cassa. Nello specifico, le immagini mostravano il lavoratore mentre, in due occasioni, non consegnava il resto corretto ai clienti, senza poi registrare l’incasso in eccesso. Ritenendo che tale condotta avesse irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario, l’azienda ha proceduto con il licenziamento.

Il lavoratore ha impugnato il provvedimento, sostenendo che l’uso delle videocamere fosse illegittimo. L’accordo sindacale che ne autorizzava l’installazione, infatti, prevedeva che la visione delle immagini potesse avvenire solo in presenza di un reclamo dettagliato da parte della clientela, reclamo che in questo caso non c’era stato.

La questione giuridica: i limiti della videosorveglianza e il licenziamento

La controversia è giunta dinanzi alla Corte di Cassazione, chiamata a risolvere un dilemma fondamentale: una clausola di un accordo sindacale, che subordina l’uso delle immagini a un evento specifico (il reclamo del cliente), può impedire al datore di lavoro di utilizzare le stesse immagini per provare un illecito penale o comunque una grave violazione commessa dal dipendente a danno dell’azienda? Inoltre, la contestazione generica sull’autenticità dei filmati è sufficiente a renderli inutilizzabili come prova?

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha respinto il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento con argomentazioni chiare e approfondite.

L’interpretazione estensiva del “patrimonio aziendale”

Il cuore della decisione risiede nell’interpretazione dell’Art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. La norma consente l’installazione di impianti audiovisivi, previo accordo sindacale, per esigenze organizzative, di sicurezza e di tutela del patrimonio aziendale. Secondo la Corte, la nozione di “patrimonio aziendale” non deve essere intesa in senso restrittivo, come l’insieme dei soli beni materiali.
Essa include anche elementi immateriali come l’immagine, la reputazione e il regolare funzionamento dell’impresa. Un comportamento fraudolento di un dipendente, anche se a danno dei clienti, lede direttamente il patrimonio aziendale perché ne pregiudica l’immagine e l’affidabilità. Di conseguenza, l’uso della videosorveglianza per accertare tali condotte rientra pienamente nella finalità di tutela consentita dalla legge.

La clausola del reclamo del cliente: non è un limite assoluto

La Corte ha ritenuto che la clausola dell’accordo sindacale, che richiedeva un reclamo del cliente per la visione delle immagini, non potesse essere interpretata come un limite invalicabile di fronte a un illecito grave. Se lo scopo primario dell’accordo è la tutela del patrimonio, questa finalità prevale sulla procedura specifica quando emergono prove di comportamenti che integrano addirittura un reato. La tutela del patrimonio aziendale da aggressioni interne (come l’appropriazione indebita) è una finalità talmente centrale da giustificare l’utilizzo delle registrazioni anche in assenza della condizione procedurale prevista dall’accordo.

La validità della prova video e il disconoscimento generico

Infine, la Cassazione ha respinto le censure del lavoratore sulla validità delle prove video. Ai sensi dell’art. 2712 del Codice Civile, le riproduzioni meccaniche formano piena prova dei fatti rappresentati se la parte contro cui sono prodotte non ne disconosce la conformità. Tuttavia, tale disconoscimento non può essere generico. Il lavoratore si era limitato a una contestazione vaga, senza fornire elementi concreti e specifici per dimostrare che i filmati non corrispondessero alla realtà. Un disconoscimento efficace deve essere circostanziato, chiaro ed esplicito, cosa che non è avvenuta nel caso di specie.

Conclusioni

L’ordinanza in esame rafforza un principio fondamentale: gli strumenti di controllo a distanza, se installati nel rispetto delle garanzie di legge (come l’accordo sindacale), possono essere legittimamente utilizzati per accertare gravi illeciti dei dipendenti che ledono il patrimonio aziendale. La tutela di tale patrimonio, inteso in senso ampio, costituisce una finalità prevalente che può giustificare l’uso delle prove video anche in deroga a specifiche clausole procedurali contenute negli accordi. Per i lavoratori, emerge la necessità di formulare contestazioni probatorie non generiche, ma dettagliate e supportate da elementi concreti, per poter invalidare efficacemente le prove a loro carico.

È possibile utilizzare le immagini della videosorveglianza per un licenziamento, anche se l’accordo sindacale prevede la visione solo dopo un reclamo del cliente che in questo caso mancava?
Sì. La Corte di Cassazione ha stabilito che se la finalità dell’impianto di videosorveglianza è la “tutela del patrimonio aziendale”, questa prevale sulle specifiche modalità procedurali previste dall’accordo, soprattutto di fronte a comportamenti del dipendente che costituiscono un grave illecito e ledono tale patrimonio.

Cosa si intende per “patrimonio aziendale” quando si parla di controlli a distanza sui lavoratori?
Secondo la Corte, il concetto di “patrimonio aziendale” va inteso in senso ampio. Non comprende solo i beni materiali (denaro, merci), ma anche beni immateriali come l’immagine e la reputazione dell’azienda, che possono essere danneggiate da condotte fraudolente dei dipendenti.

Come può un lavoratore contestare efficacemente la validità di una prova video in un processo civile?
Non è sufficiente un disconoscimento generico. Per contestare efficacemente una prova video ai sensi dell’art. 2712 c.c., il lavoratore deve formulare una contestazione chiara, circostanziata ed esplicita, allegando elementi concreti che attestino la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta nel filmato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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