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Versamenti soci fallimento: quando non sono rimborsabili?

La Corte di Cassazione ha stabilito che i versamenti di un socio a una società in grave difficoltà finanziaria, anche se etichettati come “in conto futuro aumento di capitale”, devono essere considerati contributi a fondo perduto se la loro reale finalità è coprire le perdite. Di conseguenza, in caso di fallimento, il socio non ha diritto alla restituzione di tali somme. La sentenza ha analizzato la differenza sostanziale tra un finanziamento e un apporto al patrimonio, basandosi sull’effettiva volontà delle parti e sul contesto economico dell’operazione, piuttosto che sulla mera denominazione contabile. La Corte ha inoltre respinto una seconda pretesa del socio per un vizio procedurale, chiarendo che chi si surroga in un credito già ammesso al passivo non deve presentare una nuova domanda, ma solo comunicare il subentro al curatore.

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Versamenti soci fallimento: quando le somme non sono più un credito?

I versamenti soci fallimento rappresentano un tema cruciale nel diritto societario e fallimentare. Un socio che inietta liquidità nella propria azienda si aspetta spesso di poterla recuperare, ma cosa succede se la società fallisce? Un’ordinanza della Corte di Cassazione fa luce sulla distinzione tra versamenti rimborsabili e contributi a fondo perduto, sottolineando che non è l’etichetta a contare, ma la sostanza dell’operazione.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda una società holding, socia di maggioranza (al 99,37%) di una nota società sportiva, poi dichiarata fallita. La holding aveva richiesto l’ammissione al passivo del fallimento per due crediti distinti:
1. Circa 1,5 milioni di euro: per una serie di versamenti effettuati a favore della società sportiva, qualificati come “in conto futuro aumento di capitale”.
2. 50.000 euro: a titolo di regresso, per aver pagato in qualità di garante (fideiussore) un debito della società sportiva verso un terzo creditore.

Il Tribunale aveva respinto entrambe le richieste. La holding ha quindi presentato ricorso in Cassazione, che però ha confermato la decisione precedente, dichiarando il ricorso inammissibile.

La natura dei versamenti soci fallimento: oltre il nome

Il cuore della controversia risiede nella qualificazione dei cospicui versamenti effettuati dal socio. La Corte di Cassazione, confermando la linea del tribunale, ha stabilito che, per capire la vera natura di un’erogazione, bisogna guardare oltre la denominazione utilizzata nelle causali dei bonifici (es. “in conto capitale” o “in conto aumento capitale”).

I giudici hanno evidenziato diversi elementi fattuali che portavano a qualificare tali somme come versamenti “a fondo perduto”, e quindi non rimborsabili:

* Lo stato di crisi della società: I versamenti erano stati eseguiti in un periodo in cui la società sportiva accumulava perdite ingenti, tali da erodere completamente il capitale sociale e portarlo a un valore negativo. In questo contesto, l’iniezione di liquidità assume la funzione di rafforzare un patrimonio in sofferenza, non quella di un finanziamento da restituire.
* Mancanza di un progetto definito: Nonostante la causale, mancava un elemento essenziale per qualificare i versamenti come destinati a un futuro aumento di capitale: un termine o delle condizioni specifiche entro cui tale aumento avrebbe dovuto essere deliberato. L’assenza di un vincolo di destinazione chiaro e temporalmente definito indebolisce la tesi del credito.
* La finalità concreta: Lo stesso organo amministrativo della società fallita, pur usando la terminologia di “futuro aumento capitale”, aveva di fatto previsto di utilizzare tali fondi per “copertura delle perdite”. La finalità pratica, quindi, era quella di ripianare i buchi di bilancio e non di accantonare somme per una futura operazione sul capitale.

Per questi motivi, la Corte ha concluso che i versamenti erano stati “definitivamente acquisiti al patrimonio sociale” e la società era libera di usarli come riserva per ridurre le perdite. Non esisteva, quindi, alcun “collegamento causale” tra i versamenti e un successivo, mai realizzato in modo efficace, aumento di capitale. Di conseguenza, il socio non poteva vantare un diritto alla restituzione.

La Questione Procedurale della Surrogazione

Per quanto riguarda la richiesta di 50.000 euro, la Cassazione ha respinto il motivo per una ragione puramente procedurale. Il creditore originario era già stato ammesso al passivo fallimentare. La legge fallimentare (art. 115) prevede che, in caso di cessione del credito o surrogazione, il nuovo creditore non debba presentare una nuova domanda di ammissione. Deve, invece, semplicemente comunicare al curatore fallimentare l’avvenuto trasferimento della titolarità del credito, fornendo la documentazione probatoria. La società holding, invece, aveva erroneamente formulato una nuova domanda di insinuazione, una procedura non corretta in questo specifico contesto.

Le Motivazioni

La Corte ha ribadito principi consolidati in materia di finanziamenti e apporti di capitale da parte dei soci. La qualificazione di una somma dipende dall’esame della volontà negoziale delle parti, che deve essere desunta non solo dalla denominazione contabile, ma dal modo in cui il rapporto è stato attuato, dalle finalità pratiche e dagli interessi sottesi. Un versamento è “in conto futuro aumento capitale” solo se è inequivocabilmente subordinato a un’operazione di aumento di capitale, con elementi specifici (come una data) che ne definiscano il vincolo di destinazione. In assenza di ciò, e specialmente in un contesto di grave crisi aziendale, la presunzione è che si tratti di un apporto al patrimonio a fondo perduto, assimilabile al capitale di rischio.

Le Conclusioni

L’ordinanza offre un importante monito a soci e amministratori. Quando un socio effettua versamenti a favore della società, è fondamentale che la finalità di tali somme sia chiaramente e inequivocabilmente definita, non solo a parole ma nei fatti. Se l’intento è quello di un finanziamento rimborsabile o di un versamento vincolato a una specifica operazione, è necessario formalizzare l’accordo con delibere e pattuizioni che ne specifichino i termini e le condizioni. In caso contrario, soprattutto se la società è in perdita, il rischio è che tali somme vengano considerate apporti al patrimonio, non restituibili in caso di fallimento.

Quando un versamento di un socio è considerato “a fondo perduto” e non rimborsabile in caso di fallimento?
Secondo la Corte, un versamento è considerato “a fondo perduto” quando, al di là della sua denominazione formale, la sua finalità concreta è quella di rafforzare il patrimonio della società per coprire perdite significative. Elementi chiave per questa qualificazione sono lo stato di crisi della società e l’assenza di un progetto specifico e vincolante (es. con una data definita) per un futuro aumento di capitale.

Se un socio paga un debito della società e si surroga al creditore, può presentare una nuova domanda di ammissione al passivo?
No. Se il credito del creditore originario è già stato ammesso al passivo fallimentare, il socio che si surroga nei suoi diritti non deve presentare una nuova domanda di insinuazione. Deve invece seguire la procedura semplificata prevista dall’art. 115 della legge fallimentare, che consiste nel comunicare al curatore l’avvenuta modifica nella titolarità del credito, allegando la relativa documentazione.

L’etichetta “in conto futuro aumento capitale” usata nei bonifici è sufficiente a garantire la restituzione delle somme in caso di fallimento?
No, la sola etichetta non è sufficiente. La Corte di Cassazione ha chiarito che la qualificazione giuridica di un versamento dipende dall’effettiva volontà delle parti e dal contesto economico-finanziario. Se mancano elementi concreti che vincolano la somma a una futura e ben definita operazione di aumento di capitale e la società versa in uno stato di grave perdita, il versamento sarà considerato un apporto al patrimonio a fondo perduto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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