Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 14888 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 14888 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 03/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 12540-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO NOME COGNOME INDIRIZZO presso lo studio degli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 833/2022 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 06/12/2022 R.G.N. 165/2022;
R.G.N.12540/2023
COGNOME
Rep.
Ud.04/03/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/03/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
RILEVATO CHE
La RAGIONE_SOCIALE conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Bologna, la dipendente NOME COGNOME per sentire dichiarare la legittimità dei provvedimenti disciplinari di quattro ore di multa e di sette giorni di sospensione dalla retribuzione e dal servizio, adottati in data 28.10.2019 e in data 12.11.2019, perché la lavoratrice, con qualifica di Capo Reparto II Livello CCNL presso l’esercizio commerciale RAGIONE_SOCIALE sito in Villanova di Castenaso, non aveva osservato il nuovo orario di lavoro in vigore dal settembre 2019.
NOME COGNOME contestava le avverse richieste e, in via riconvenzionale, chiedeva la condanna della ricorrente alla restituzione delle trattenute operate in applicazione delle sanzioni irrogate.
L’adito Tribunale respingeva le domande proposte da RAGIONE_SOCIALE e dichiarava l’illegittimità delle sanzioni disciplinari e delle trattenute operate condannando la società alla loro restituzione.
La Corte di appello di Bologna, con la sentenza n. 833/2022, confermava la pronuncia di prime cure evidenziando che la statuizione del Tribunale, in ordine ad un pregresso verbale di conciliazione intercorso tra le parti il 10.7.2014 con il quale peraltro l’articolazione dell’orario di lavoro era stata stabilita dalle ore 9:00 alle 12:30 e dalle 15:30 alle 19:30, era corretta lì dove era stato ritenuto che la relativa clausola fosse una espressa previsione conciliativa, che aveva fatto e faceva parte del complesso delle reciproche concessioni e pattuizioni con cui le parti avevano definito la controversia in questione e, quindi, pienamente vincolante tra loro.
Avverso tale sentenza la RAGIONE_SOCIALE proponeva ricorso per cassazione affidato a tre motivi cui resisteva con controricorso NOME COGNOME
La società depositava memoria.
Il Collegio si riservava il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
I motivi possono essere così sintetizzati, così come presentati dallo stesso ricorrente.
Con il primo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1362, 1363, 1369, 1366, 1365, 1367 e 2113 cc e degli artt. 115, 116 e 132 cpc, art. 41 Cost. nonché delle norme e dei principi in tema di qualificazione del contratto in ordine alla non corretta interpretazione del verbale di conciliazione del 10 luglio 2014 con riferimento ai canoni ermeneutici di letteralità, secondo la comune intenzione delle parti, e inoltre l’er roneità e superficialità della sentenza impugnata. Si sostiene che la Corte di appello, con una motivazione apparente e contraddittoria, svolta per relationem , aveva fornito una interpretazione distorta ed estranea alla ratio della clausola di cui al punto 6) del verbale di conciliazione in violazione dei principi cardine in tema di interpretazione della legge e dei contratti vigenti nel nostro ordinamento. Si deduce che il verbale di conciliazione aveva ad oggetto solo ed esclusivamente la revoca del provvedimento del trasferimento della RAGIONE_SOCIALE presso la filiale di Zola Pedrosa e l’articolazione oraria in regime di full time, mentre del tutto inverosimile era la possibilità di cristallizzare, con un accordo transattivo, per l’intera durata del rapporto lavorativo anche la turnazione oraria di una dipendente a tempo pieno.
Con il secondo motivo si censura, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1175, 1375, 1460 e 2086, 2104 e 2086 cc, del D.lgs. n. 66/2003, dell’art. 6 del verbale di conciliazione del 10 luglio 2014 e dell’ordine di servizio n. 2 del 31 agosto 2019 della RAGIONE_SOCIALE per avere la Corte distrettuale omesso qualsiasi valutazione sul comportamento della dipendente alla luce delle disposizioni in tema di esecuzione e di disciplina del lavoro im partite dall’imprenditore nonché della disposizione di cui all’art. 1460 cod. civ. relativamente all’eccezione
di inadempimento alla stregua dei principi di buona fede e correttezza. Si deduce che i giudici di seconde cure avrebbero dovuto effettuare una valutazione comparativa del comportamento delle parti alla luce dei reciproci obblighi e dei criteri di buona fede e correttezza contrattuale e verificare concretamente, da un lato, se la richiesta di variazione del turno potesse avere profili di illiceità e, dall’altro quale ripercussione e pregiudizio per le ‘esigenze vitali’ della lavoratrice avesse concretamente determinato.
Con il terzo motivo si obietta, ex art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 416 cpc, degli artt. 2697 cod. civ. per grave insufficienza, erroneità ed illogicità della sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di appello aveva ritenuto incontestata l’interpretazione della clausola di cui al punto 6) del verbale di conciliazione del 10 luglio 2014; si lamenta poi, l’errata valutazione delle risultanze istruttorie e il mancato accoglimento delle richieste istruttorie testimoniali come articolate.
Il primo ed il terzo motivo, da esaminare congiuntamente per la loro connessione logico giuridica, presentano profili di inammissibilità e di infondatezza.
Preliminarmente va evidenziato che la violazione dell’art. 132 cpc sussiste solo quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass. n. 3819/2020).
La motivazione della sentenza, con rinvio “per relationem” a provvedimenti giudiziari resi in altro processo, è, poi, ammissibile e rispetta il minimo costituzionale richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., purché la condivisione della decisione avvenga attraverso un autonomo esame critico dei motivi d’impugnazione, con richiamo ai contenuti degli atti cui si rinvia, non potendosi risolvere in una acritica adesione al provvedimento richiamato (Cass. n. 21443/2022).
Analogamente, il vizio di motivazione apparente della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. ricorre solo quando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture (cfr. Cass. n. 6758/2022).
Inoltre, in tema di esegesi di atti negoziali -riservata al giudice di merito ed il cui risultato è incensurabile in sede di legittimità ove rispettoso dei criteri di ermeneutica contrattuale e sorretto da motivazione immune da vizideve sottolinearsi che l’attività interpretativa va condotta sulla scorta di due fondamentali elementi che si integrano a vicenda, e cioè il senso letterale delle espressioni usate e la ‘ratio’ del precetto contrattuale, nell’ambito non già di una priorità di uno dei due criteri, ma in quello di un razionale gradualismo dei mezzi di interpretazione i quali debbono fondersi ed armonizzarsi nell’apprezzamento dell’atto negoziale (Cass. n. 701/2021; Cass. n. 11666/2022).
E’ stato, poi, affermato che, per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola (anche contrattuale) sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. n. 24539/2009).
Ciò perché i n tema di interpretazione dell’atto di autonomia privata il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità
della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass. n. 2465/2015).
Alla luce dei principi sopra richiamati e dalle argomentazioni svolte nella gravata sentenza (anche con il richiamo alle motivazioni del primo giudice) è, invece, agevole dedurre tutto l’iter logico -giuridico che ha condotto i giudici di seconde cure a ritenere che la clausola convenzionale di cui al punto 6) del verbale di conciliazione del 10.7.2014, nel quale era prevista l’articolazione dell’orario di lavoro rivendicato dalla COGNOME, poi modificato dalla datrice di lavoro unilateralmente e senza una successiva pattuizione, non costituiva un obiter dictum tra le parti ma una espressa previsione conciliativa che faceva parte del complesso delle reciproche concessioni e pattuizioni; è stato, inoltre, precisato che questo era l’unico senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessio ne di esse mentre l’interpretazione fornita da RAGIONE_SOCIALE non trovava alcun appiglio nel testo contrattuale ed anzi appariva contrastare con le reciproche concessioni oggetto di tale verbale tese a pre venire l’insorgenza di ulteriori vertenze tra la dipendente e la datrice di lavoro in correlazione ad ogni aspetto della prestazione lavorativa e, quindi, non soltanto in merito al luogo di una sua esecuzione, ma anche in punto alla sua collocazione temporale.
La Corte d’appello ha, quindi, fornito una interpretazione della clausola e, senza trascurare il senso letterale delle parole, ha ricostruito, attraverso un’analisi approfondita e compiutamente motivata, la comune intenzione delle parti, quale risultava dal complesso del verbale di conciliazione e dal comportamento successivo delle stesse. Tale processo ermeneutico è conforme ai canoni normativi. Ogni diversa opzione interpretativa attiene al merito della decisione ed è estranea alle valutazioni che possono essere operate in sede di giudizio di legittimità.
Infondata è, poi, la asserita violazione dell’art 2697 cod. civ. che si ha, tecnicamente, solo nell’ipotesi in cui il giudice abbia
attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, cpc (Cass. n. 17313/2020) nella fattispecie, però, non possibile vertendosi in ipotesi di cd. ‘doppia conforme’.
In tema di ricorso per cassazione, infine, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. n. 27000/2016; Cass. n. 13960/2014; Cass. n. 20867/2020; Cass. n. 6774/2022): ipotesi, queste, non ravvisabili nel caso in esame.
Va sottolineato, al riguardo, che la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. n. 16467/2017).
Sotto questo profilo, infine, appare infondata anche la doglianza circa la mancata ammissione della prova testimoniale articolata dalla società in quanto la Corte territoriale, in una situazione di cd. ‘doppia conforme’, ha ritenuto che il chiaro dato lett erale della conciliazione, da cui si desumeva anche la prospettiva a regolare il
rapporto sia in ordine al luogo di esecuzione che con riguardo alla sua collocazione temporale, rendeva inconferenti ed ultronee le ulteriori istanze istruttorie della società.
Il secondo motivo è invece inammissibile.
Invero, qualora una questione giuridica – implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa (Cass. n. 3473/2025).
Nel caso de quo , la questione sulla valutazione del comportamento della lavoratrice ex art. 1460 cc, richiedente uno specifico accertamento di fatto, non risulta esaminato nella impugnata pronuncia ed il ricorrente, nella articolazione della censura, non ha specificato i l ‘dove’, il ‘come’ ed il ‘quando’ la stessa sia stata sottoposta ai giudici del merito negli esatti termini con i quali è stata prospettata in questa sede: da qui la sua inammissibilità.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli
accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 4 marzo 2025