Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 31314 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 31314 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 06/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26282/2020 R.G. proposto da: COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di VENEZIA n. 2651/2019 depositata il 24/06/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME conveniva in giudizio COGNOME NOME e premesso che, con atto del 14/5/1997, la convenuta gli aveva venduto un rustico con annesso terreno, una porzione del quale (per l’estensione di mq. 130) era poi risultato essere intestato al proprietario del fondo confinante – chiedeva la condanna della medesima alla restituzione di parte del prezzo della compravendita, nella misura corrispondente all’estensione del terreno trasferito sine titulo , nonché al risarcimento del danno per le spese che aveva dovuto sostenere onde ottenere sentenza dichiarativa dell’avvenuto acquisto per usucapione dell’area de qua.
A conclusione dei giudizi di merito, la Corte di Appello di Venezia, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva condannato la Cibin al pagamento, in favore dell’attore, della somma di euro 7.910,36 (da maggiorarsi con gli interessi legali), a titolo di risarcimento del danno per le spese che l’Alba aveva dovuto sostenere per l’ottenimento dell’accertamento giudiziale dell’usucapione.
Avverso la sentenza di appello proponeva ricorso per cassazione COGNOME NOME
Questa Corte accoglieva il primo motivo di ricorso e dichiarava assorbito il secondo. In particolare, era fondato il motivo con il quale la ricorrente aveva lamentato che i giudici di appello avevano erroneamente ritenuto che, per poter disporre del diritto
di proprietà di un immobile acquistato per usucapione, fosse necessario il previo accertamento di tale acquisto a mezzo di apposita pronunzia giudiziale.
Infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il contratto di compravendita con cui viene trasferito il diritto di proprietà di un immobile sul quale il venditore abbia esercitato il possesso per un tempo sufficiente al compimento dell’usucapione non è nullo ancorché l’acquisto della proprietà da parte sua non sia stato giudizialmente accertato in contraddittorio con il precedente proprietario (Cass., Sez. 2, n. 2485 del 05/02/2007), ciò in quanto l’acquisto per usucapione avviene ipso iure per il semplice fatto del possesso protratto per venti anni e la sentenza con cui viene pronunciato l’acquisto per usucapione del diritto di servitù ha natura meramente dichiarativa e non costitutiva del diritto stesso (Cass., Sez. 2, n. 2717 del 29/04/1982; Sez. 3, n. 8650 del 21/10/1994);
La Corte d’appello di Venezia, in sede di rinvio, in applicazione del principio di diritto di cui sopra, accoglieva comunque la domanda risarcitoria svolta da NOME COGNOME
L ‘istruttoria, in primo grado, aveva accertato come, avanti il Notaio, la COGNOME non avesse fatto menzione alcuna né della circostanza che una parte del terreno che andava a vendere era da lei -di fatto – usucapito, né che questo non era a lei catastalmente intestato.
Soltanto successivamente alla stipula del rogito, NOME COGNOME -affidata al proprio tecnico, geom. COGNOME la pratica per l’ottenimento della concessione per il restauro dell’immobile al momento dell’accatastamento veniva a conoscenza del fatto che
una parte del terreno a lui compravenduto non era intestata a NOME, bensì a tali COGNOME.
La circostanza non era stata adeguatamente valutata dal giudice di primae curae , il quale aveva unicamente valorizzato il fatto che una cosa è l’esercizio, protratto nel tempo, del possesso che può dare corso al diritto di proprietà per usucapione, mentre altra cosa è il concreto acquisto del diritto di proprietà, che non può avvenire se non accertato e dichiarato nei modi di legge dal dante causa, così respingendo la domanda risarcitoria di NOME COGNOME.
Tale circostanza faceva riferimento a un filone giurisprudenziale più risalente (Cass.n.945/1994 e n.9884/1996), superato, però, dalla giurisprudenza più recente (Cass. 2485/2007), indicata anche nella sentenza di rinvio secondo cui: ‘Non è nullo il contratto di compravendita con cui viene trasferito il diritto di proprietà di un immobile sul quale il venditore abbia esercitato il possesso per un tempo sufficiente al compimento dell’usucapione, ancorché l’acquisto della proprietà da parte sua non sia stato giudizialmente accertato in contraddittorio con il precedente proprietario.’
La Corte cui era rimessa la valutazione complessiva della vicenda dedotta in giudizio, doveva calibrare tale principio alla luce del comportamento concretamente tenuto dalle parti, e, in particolare, indagare la diligenza e buona fede contrattuale del venditore.
5.1 Nella fattispecie, elemento indiscutibilmente peculiare e incontroverso era il fatto che la venditrice RAGIONE_SOCIALE non aveva dichiarato all’acquirente NOME di avere maturato i presupposti
del l’usucapione di parte dei beni oggetto del negozio di compravendita, senza che, però, questi le appartenessero di diritto.
La decisione della Cassazione si limitava a sancire la validità del trasferimento di immobile sul quale era stato esercitato il possesso idoneo all’accertamento dell’usucapione, senza circostanziare le modalità con le quali tale trasferimento si realizza.
Conseguentemente, andava esaminata la dichiarazione che accompagnava il contratto e la sua capacità di incidere concretamente sul contenuto del negozio medesimo; detto contratto, infatti, era certo astrattamente lecito e valido (potendosi, dunque, in ossequio al principio di diritto della Cassazione, validamente disporre anche di bene sul quale si abbia il possesso ultraventennale) ma la dichiarazione del venditore doveva essere conforme a realtà mentre la Cibin non aveva esternato il fatto che il bene oggetto di alienazione era a lei intestato solo parzialmente, mentre la rimanente parte costituiva una situazione di fatto, giuridicamente consolidata, ma bisognosa di accertamento giudiziale. Pertanto, il suo comportamento rendeva oltremodo legittima la domanda risarcitoria per violazione degli obblighi di buona fede contrattuale di cui agli artt.1218 e 1223 c.c.
Se, allora, NOME avesse informato e/o dichiarato di aver maturato i presupposti per l’acquisto a titolo originario, in virtù del possesso ultraventennale di una parte del bene compravenduto ad Alba Maurizio, quest’ultimo avrebbe senz’altro compiut o gli opportuni accertamenti in catasto -cui, altrimenti, non era tenuto.
Conclusivamente, NOMECOGNOME pur a fronte di un valido contratto, aveva nondimeno diritto al risarcimento del danno per
inadempimento all’obbligo di comportarsi secondo buona fede ad opera della venditrice, danno rappresentato dalle spese affrontate per l’accertamento dell’avvenuta usucapione, cui era stato costretto per colpa della COGNOME, la quale -come accertato in sede istruttoria di primo grado -era pienamente cosciente della situazione di fatto, dal momento che anni prima della cessione, aveva affidato ad un geometra l’incarico di predisporre un progetto per la ristrutturazione del fabbricato, oggetto di causa in occasione del quale il tecnico certamente aveva eseguito gli opportuni accertamenti catastali, dai quali era emerso l’altrui intestazione di una porzione del bene in seguito compravenduto.
Pertanto, calati i principi nel caso concreto, NOMECOGNOME per vedere appieno realizzato l’oggetto del negozio, si era trovato nelle condizioni di dover intraprendere un giudizio di usucapione per la parte solo posseduta dalla Cibin e a lei non intestata, laddove se di ciò fosse stato informato avrebbe verosimilmente chiesto alla propria dante causa di dare corso al giudizio di accertamento dell’usucapione prima di concludere la vendita o di ridurre proporzionalmente il prezzo a fronte degli oneri su di lui gravanti.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso
Entrambe le parti con memoria depositata in prossimità dell’udienza ha nno insistito nelle rispettive richieste.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso è così rubricato: Violazione e falsa applicazione dell’art. 384 , secondo comma, c.p.c. Mancata adesione da parte della sentenza della Corte d’appello di Venezia al
principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 7853 del 2018.
Secondo parte ricorrente il giudizio volto all’accertamento dell’usucapione intrapreso dall’Alba non solo non era necessario, ma certamente non rientrava tra le obbligazioni che la controparte si era assunta con la sottoscrizione del contratto di compravendita del 14 maggio 1997 con il quale la stessa aveva trasferito alla prima dietro la corresponsione del relativo prezzo la piena proprietà degli immobili che si trovavano nella sua disponibilità, meglio identificati nel contratto medesimo. In altri termini non vi sarebbe stato alcun inadempimento contrattuale.
Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’articolo 115 c.p.c. carenza di prova posta a fondamento della decisione impugnata in relazione alla sussistenza del danno e dell’assunta malafede della ricorrente.
A parere della ricorrente non vi era alcuna prova né della malafede della venditrice né del danno cagionato, entrambi ritenuti sussistenti in mancanza di alcun valido argomento di prova.
La differenza tra i dati catastali e quelli indicati nel contratto come venduti riguardava solo i confini e peraltro non vi erano mai state rivendicazioni da parte di terzi o rischi di evizione né tantomeno risultavano trascritte domande giudiziali volte alla rivendica da parte di terzi della porzione di terreno in oggetto. La domanda di usucapione è stata una libera iniziativa della controparte che non ne aveva alcuna necessità. In altri termini nessuna colpa può attribuirsi alla ricorrente ne può dirsi che vi sia stato un danno giuridicamente rilevante
Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: omesso esame dell’eccezione di tardività ex articolo 345 c.p.c. svolta in sede di rinvio circa la causa petendi posta a fondamento della domanda risarcitoria.
La ricorrente lamenta che la domanda tesa a far accertare la supposta violazione del principio di buona fede sia stata sollevata per la prima volta solo nel l’ originario primo giudizio di gravame e dunque si trattava di una domanda nuova inammissibile e come tale rilevabile anche di ufficio.
1.1 I tre motivi di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono infondati.
La Corte d’Appello ha correttamente ritenuto che la cassazione con rinvio implicasse solo la validità del contratto di compravendita potendosi disporre del diritto di proprietà di un immobile acquistato per usucapione senza il previo accertamento di tale acquisto a mezzo di apposita pronunzia giudiziale. Infatti, la pronuncia di cassazione con rin vio di questa Corte si chiude con l’esortazione a valutare comunque sotto altro profilo la fondatezza della domanda attorea al risarcimento del danno relativamente alle spese sostenute dall’Alba onde ottenere la declaratoria dell’avvenuta usucapione.
Deve ribadirsi, infatti, che il giudizio di rinvio è “aperto” quanto all’attività del giudice di merito e “chiuso” quanto all’attività delle parti. Infatti, nel giudizio di rinvio, configurato dall’art. 394 c.p.c. quale giudizio ad istruzione sostanzialmente “chiusa”, è preclusa l’acquisizione di nuove prove e segnatamente la produzione di nuovi documenti, salvo che la stessa sia giustificata da fatti
sopravvenuti riguardanti la controversia in decisione, da esigenze istruttorie derivanti dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione o dall’impossibilità di produrli in precedenza per causa di forza maggiore.
Infatti, qualora la sentenza sia stata annullata per difetto di attività del giudice di merito, questi è pienamente libero nell’esame della controversia, mentre è in ogni caso inibito alle parti prendere conclusioni diverse dalle precedenti o che non siano conseguenti alla cassazione; né sono modificabili i termini oggettivi della controversia, espressi o impliciti nella sentenza di annullamento, investendo tale preclusione non solo le questioni espressamente dedotte o che avrebbero potuto essere dedotte dalle parti, ma anche le questioni di diritto rilevabili d’ufficio ove tendano a porre nel nulla od a limitare gli effetti intangibili della sentenza di cassazione e l’operatività del principio di diritto, che in essa viene enunciato non in via astratta ma agli effetti della decisione finale della causa (Sez. 3, Sentenza n. 22885 del 10/11/2015, Rv. 637823 – 01).
La Corte d’Appello ha accertato che la venditrice fosse a conoscenza della non corrispondenza tra il bene compravenduto e quello risultante catastalmente e, dunque, era onere della Cibin dichiarare al momento della stipula di avere usucapito la restante parte. La prova di tale consapevolezza emergeva da quanto accertato nell’istruttoria svolta in primo grado dalla quale era emerso che la Cibin era pienamente cosciente della situazione di fatto, dal momento che anni prima della cessione, aveva affidato ad un geometra l’incarico di predisporre un progetto per la ristrutturazione del fabbricato, oggetto di causa in occasione del
quale il tecnico aveva certamente eseguito gli opportuni accertamenti catastali.
La sentenza, quanto all’accertamento del fatto e alla valutazione delle prove, non è sindacabile da questa Corte e quanto alle conclusioni in diritto che ne trae è immune dalle censure di violazione di legge lamentate dalla ricorrente. Infatti, accertata la conoscenza della situazione giuridica e di fatto del bene oggetto della compravendita in capo alla Cibin, ella aveva il dovere di informare l’acquirente anche al fine di dichiarare nel contratto di avere maturato i presupposti dell’usucapione di parte dei beni oggetto del negozio di compravendita senza che le appartenessero di diritto.
Quanto alla censura di violazione dell’art. 115 c.p.c. la stessa è inammissibile in quanto per dedurre tale violazione occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Sez. U – , Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 01).
La censura svolta con il terzo motivo è infondata non potendosi riscontrare alcun mutamento del petitum o della causa petendi . In tal senso basti evidenziare che la medesima domanda della Cibin di risarcimento del danno derivante dal comportamento della
contro
parte era stata accolta in primo e secondo grado e il presupposto giuridico e fattuale della stessa è rimasto immutato anche nel giudizio di rinvio. D’altra parte, come si è già evidenziato, era stata la stessa sentenza di cassazione a demandare al giudice del merito di valutare la domanda risarcitoria sotto il profilo del corretto adempimento in relazione al dovere di diligenza e buona fede non potendosi fondare il suo accoglimento solo sulla non validità del contratto in mancanza di un accertamento giudiziale dell’usucapione.
Il ricorso è rigettato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater D.P.R. n. 115/02, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nei confronti della parte controricorrente che liquida in euro 3000, più 200 per esborsi, oltre al rimborso forfettario al 15% IVA e CPA come per legge;
ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto;
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione