Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 2131 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2   Num. 2131  Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 29/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 36817/2019 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente  domiciliato    in  INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)  che  lo  rappresenta  e  difende  unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE);
-ricorrente-
contro
NOME,  elettivamente  domiciliato  in  ROMA,  INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato  COGNOME NOME  (CODICE_FISCALE)  che  lo  rappresenta  e  difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE);
-controricorrente-
avverso  SENTENZA  di  CORTE  D’APPELLO  TRIESTE  n.  672/2019 depositata il 15/11/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19/09/2024 dal Consigliere COGNOME NOME.
FATTI DI CAUSA
Il giudizio trae origine dal ricorso per decreto ingiuntivo con cui gli avvocati COGNOME NOME e COGNOME NOME chiesero al Presidente del Tribunale di RAGIONE_SOCIALE di ingiungere alla RAGIONE_SOCIALE (poi RAGIONE_SOCIALE) il pagamento della somma di Euro 150.900,08, oltre interessi e spese, quale compenso per l’attività professionale svolta a favore della società, consistita nello studio e nella predisposizione di un contratto “normativo”; detto contratto, sottoscritto il 28 maggio 2003, era diretto a disciplinare l’assetto degli interessi tra la stessa RAGIONE_SOCIALE ed altre società, in vista della futura costituzione, tra le stesse, di un’associazione temporanea d’imprese, finalizzata a rappresentarle unitariamente nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE comunale RAGIONE_SOCIALE e dei terzi, e nella successiva gara per l’aggiudicazione di un appalto per la costruzione di un parcheggio sotterraneo in RAGIONE_SOCIALE; il contratto prevedeva, inoltre, delle clausole statutarie della futura società di progetto, da costituire solo in caso di esito positivo della gara, ai fini della realizzazione dei lavori.
A seguito di opposizione dell’RAGIONE_SOCIALE, il Tribunale di RAGIONE_SOCIALE, con sentenza del 27 novembre 2007, ritenne il difetto di legittimazione attiva  dell’avvocato  COGNOME  e  condannò l’opponente  al  pagamento  della  somma  di  Euro  4.417,87,  oltre accessori  di  legge  ed  interessi  legali,  in  favore  del  solo  avvocato COGNOME.
La  Corte  d’Appello  di  RAGIONE_SOCIALE  accolse  il  gravame  dell’AVV_NOTAIO solo  in  relazione  al  mancato  riconoscimento  degli  interessi di  cui all’art. 5  del  D.Lgs  n.231  del  2002,  confermando  per  il  resto  la pronuncia di primo grado.
In particolare, per quel che ancora rileva in questa sede, la Corte d’appello ritenne che, ai fini della determinazione del compenso per l’attività extragiudiziaria svolta dall’AVV_NOTAIO, il valore della pratica fosse indeterminabile perché l’incarico conferito al professionista consisteva nel predisporre un contratto contenente le clausole di futuri ed eventuali accordi negoziali, sicchè non doveva farsi riferimento all’ammontare dell’investimento per la costituzione di un raggruppamento d’imprese ed eventualmente di una società.
AVV_NOTAIO propose ricorso per cassazione, contestando che il valore della prestazione fosse indeterminabile.
La Corte di cassazione, con sentenza n. 11056 del 27.5.2016, accolse il ricorso e, nel rimettere la causa alla Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE, stabilì che, nel determinare il compenso del legale, il valore indeterminabile trovava applicazione unicamente qualora la controversia non fosse suscettibile di valutazione economica o fosse particolarmente complesso individuare il quantum, da intendersi in senso obiettivo, quale conseguenza di una intrinseca inidoneità della pretesa a essere tradotta in termini pecuniari al momento della proposizione della domanda o di espletamento della prestazione.
La Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE, in sede di rinvio, con sentenza n. 672 del 15.10.2019, ha accolto l’appello dell’AVV_NOTAIO e per l’effetto, ha condannato l’RAGIONE_SOCIALE in liquidazione  a  pagare  al  predetto  la  somma  di  €  123.795,00  oltre interessi ed accessori.
La corte distrettuale ha determinato il valore della pratica sulla base delle  quote  di  partecipazione  al  capitale  sociale  dell’associazione temporanea di impresa, delle spese relative alle prestazioni effettuate dalla società RAGIONE_SOCIALE, dal costo dei lavori di progettazione, dalla possibile aggiudicazione  dell’appalto per  la  realizzazione  dell’opera pubblica  e dall’ammontare degli investimenti per essa necessari.
RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello sulla base di due motivi.
AVV_NOTAIO ha resistito con controricorso.
Il  ricorso  è  stato  avviato  alla  trattazione  in  camera  di  consiglio  ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 384 c.p.c. e 2909 c.c, in relazione all’art.360, comma 1, n. 3 c.p.c., per violazione del giudicato interno sulla determinazione degli onorari secondo i minimi tariffari. Sostiene la società ricorrente che RAGIONE_SOCIALE, già con la richiesta di decreto ingiuntivo, aveva chiesto la liquidazione degli onorari sulla base dei minimi tariffari e la prima sentenza d’appello, annullata con rinvio dalla Corte di cassazione, aveva liquidato l’onorario nella misura minima; tale statuizione non era stata impugnata in sede di legittimità sicchè sulla determinazione degli onorari secondo i minimi tariffari si sarebbe formato il giudicato interno. Secondo il ricorrente, la sentenza della Corte d’appello aveva violato il giudicato, liquidando gli onorari secondo il valore medio.
Il motivo è infondato.
In disparte la genericità della censura, priva dell’allegazione degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda, con particolare riferimento
agli  atti  del  processo  ed  alle  decisioni  richiamate  in  ricorso,  va ricordato  che  la  determinazione  concreta  degli  onorari  secondo  i valori medi era consentita in virtù dell’effetto devolutivo dell’appello.
Secondo il granitico orientamento di questa Corte, l’effetto devolutivo dell’appello entro i limiti dei motivi d’impugnazione preclude al giudice del gravame esclusivamente di estendere le sue statuizioni a punti che non siano compresi, neanche implicitamente, nel tema del dibattito esposto nei motivi d’impugnazione, mentre non viola il principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di appello che fondi la decisione su ragioni che, pur non specificamente fatte valere dall’appellante, tuttavia appaiano, nell’ambito della censura proposta, in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, costituendone necessario antecedente logico e giuridico.
Nel giudizio di secondo grado, il giudice può, infatti, riesaminare l’intera vicenda nel complesso dei suoi aspetti, purché tale indagine non travalichi i margini della richiesta, coinvolgendo punti decisivi della statuizione impugnata suscettibili di acquisire forza di giudicato interno in assenza di contestazione, e decidere, con pronunzia che ha natura ed effetto sostitutivo di quella gravata, anche sulla base di ragioni giuridiche diverse da quelle svolte nei motivi d’impugnazione (Cass. n. 9202/2018; Cass. n. 8604/2017; Cass. n. 1377/2016).
E’  poi  noto  che  ai  fini  della  selezione  delle  questioni,  di  fatto  o  di diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di giudicato interno se non censurate  in  appello,  la  locuzione  giurisprudenziale  “minima  unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma  e dall’effetto giuridico,  ossia  la  statuizione  che  affermi  l’esistenza  di  un  fatto
sussumibile  sotto  una  norma  che  ad  esso  ricolleghi  un  dato  effetto giuridico.  Ne  consegue  che,  sebbene  ciascun  elemento  di  detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di appello, nondimeno l’impugnazione  motivata  anche  in  ordine  ad  uno  solo  di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione (Cass. n. 12202/2017; Cass. n. 24783/2018; Cass. n. 10760/2018).
Nel caso di specie, al giudice d’appello era devoluta la determinazione degli onorari nel loro complesso, con il solo limite della corrispondenza  tra  chiesto  e  pronunciato,  sicchè  era  consentita  la determinazione del compenso sulla base dei valori medi.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio con riferimento al mancato rispetto dei principi indicati dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 11056/2016, che aveva cassato con rinvio la prima sentenza della Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE ed aveva statuito il principio di diritto secondo cui, nel determinare il compenso del legale, l’indeterminabilità del valore della causa dovesse essere intesa in senso obiettivo, quale conseguenza di una intrinseca inidoneità della pretesa a essere tradotta in termini pecuniari al momento della proposizione della domanda o di espletamento della prestazione; la sentenza di cassazione avrebbe, inoltre, precisato che, i fini della determinazione del valore della domanda, non dovevano spiegare influenza le modificazioni e gli ampliamenti provocati dallo sviluppo della stessa. A tali principi di diritto non si sarebbe uniformato il giudice di rinvio, aderendo in modo acritico alla CTU, che avrebbe considerato, ai fini della determinazione del valore della causa, elementi futuri ed incerti non esistenti al momento della domanda. In particolare, il CTU avrebbe calcolato gli apporti previsti per la gestione dei lavori, i rapporti con i terzi, gli adempimenti e gli oneri
sociali ma soprattutto non avrebbe tenuto conto che l’aggiudicazione dell’appalto era solo eventuale. Infine, il CTU avrebbe errato nell’includere  anche  i  rapporti  non  disciplinati  dalla  Convenzione, considerando le modifiche e gli ampliamenti che non costituivano uno sviluppo della stessa.
Il motivo non è fondato.
In primo luogo, non è pertinente la censura relativa al vizio motivazionale sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n.5 c.p.c., è costituito da un fatto storico o di un documento che determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia in quanto offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento.
L’art. 360, comma 1 n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del decreto-legge n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive o di censure proposte (Cass., Sez. Un., 07/04/2014 n. 8053; Cass., Sez. Un., 26/07/2019 n. 20399).
Ne consegue che la denuncia in sede di legittimità deve contenere, a pena  di  inammissibilità,  l’indicazione  delle  ragioni  per  le  quali  il documento  trascurato  avrebbe  senza  dubbio  dato  luogo  a  una decisione diversa (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 19150 del 28/09/2016).
Nel caso di specie, il ricorrente non denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo ma sottopone alla Corte di legittimità generiche critiche alla  CTU,  lamentando l’inosservanza,  da parte della Corte  d’appello, del principio enunciato dal giudice di legittimità in sede rescindente, sempre  attraverso  il  riesame  degli  atti  di  causa  e  delle  valutazioni della CTU.
La  sentenza  di  cassazione  aveva  statuito  che  la  causa  non  aveva valore  indeterminabile,  ribadendo  il  principio  che  l’indeterminabilità vada intesa in senso obiettivo, quale conseguenza di una intrinseca inidoneità  della  pretesa  a  essere  tradotta  in  termini  pecuniari  al momento della proposizione della  domanda o di espletamento della prestazione (Cass. sez. 2, 27/05/2016, n. 11056).
Nel caso di specie, la prestazione stragiudiziale consisteva nello studio e nella predisposizione di un contratto “normativo”, sottoscritto il 28 maggio 2003, diretto a disciplinare l’assetto degli interessi tra la stessa RAGIONE_SOCIALE ed altre società, in vista della futura costituzione, tra le stesse, di un’associazione temporanea d’imprese, finalizzata a rappresentarle unitariamente nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE comunale RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e dei terzi, e nella successiva gara per l’aggiudicazione di un appalto per la costruzione di un parcheggio sotterraneo in RAGIONE_SOCIALE, con la previsione, inoltre, delle clausole statutarie della futura società di progetto, da costituire solo in caso di esito positivo della gara, ai fini della realizzazione dei lavori.
La corte distrettuale ha determinato il valore della pratica sulla base delle  quote  di  partecipazione  al  capitale  sociale  dell’associazione temporanea di impresa, delle spese relative alle prestazioni effettuate dalla società RAGIONE_SOCIALE, dal costo dei lavori di progettazione, dalla
possibile aggiudicazione  dell’appalto per  la  realizzazione  dell’opera pubblica  e dall’ammontare degli investimenti per essa necessari.
Per la determinazione del valore della pratica ha, quindi, considerato l’importo dell’investimento individuabile nel piano economico finanziario e nella bozza di convenzione con il Comune.
La Corte ha correttamente considerato anche la possibile aggiudicazione dell’appalto per la realizzazione dell’opera pubblica e l’ammontare degli investimenti necessari perché il contratto doveva tener conto sia della fase di promozione che di quella di realizzazione e gestione. La circostanza che l’aggiudicazione rappresentasse un’eventualità, se poteva avere rilevanza in relazione al rischio di impresa, non poteva condizionare il diritto al compenso, trattandosi di situazione prevista, accettata e contrattualmente regolamentata nel l’accordo .
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR 115/2002, va dato atto della  sussistenza  dei  presupposti  per  il  versamento,  da  parte  della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art.13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento,  in  favore  della  parte  controricorrente,  delle  spese  del giudizio di legittimità, che liquida in euro 7.000,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della  sussistenza  dei  presupposti  processuali  per  il  versamento,  da
parte  della  ricorrente,  di  un  ulteriore  importo  a  titolo  di  contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione