Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 31966 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 31966 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24879/2020 R.G. proposto da :
COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME ed elettivamente domiciliati in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME
-ricorrenti- contro
COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME
-intimati- per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Ancona n. 728/2019, pubblicata il 16 maggio 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 ottobre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
letta la memoria depositata dai ricorrenti.
FATTI DI CAUSA
1. -Con atto di citazione notificato il 10 marzo 2004, NOME COGNOME proponeva domanda di usucapione con riferimento alla porzione di terreno in Comune di Montecosaro individuata al Catasto terreni fg. 24 particelle n. 769 e 770 della superficie di mq. 1.440. L’attore esponeva di gestire come mezzadro, già dai primi anni ‘ 70, tutta la particella n. 30, da cui provennero per frazionamento successivo le particelle suddette n. 769 e 770, di proprietà di NOME COGNOME (dante causa per successione ereditaria dei convenuti NOME COGNOME e NOME COGNOME), e vantava di averne acquisito la proprietà a titolo originario, in quanto, per i tempi lunghi di realizzazione di un piano di lottizzazione edilizia approvato nel 1982, che prevedeva insediamenti residenziali, strade, parcheggio e attrezzature sportive di interesse pubblico, sia il COGNOME (concedente la mezzadria – titolare della lottizzazione della particella n. 30), sia il Comune di Montecosaro si erano disinteressati del frustolo (destinato a verde pubblico), sicché egli ne aveva goduto i frutti in via esclusiva, per oltre 20 anni, sostenendone le spese. Ciò si era verificato a decorrere dalla cessazione, nel 1981, del rapporto di mezzadria, in esito ad un accordo stipulato tra le parti, assistite dalle rispettive rappresentanze sindacali, su una parte dell’area in cui erano comprese le due particelle, dal quale accordo , era posto a carico dello COGNOME l’obbligo di restituzione al COGNOME di terreni, e casa colonica, obbligo al quale nel tempo NOME non aveva del tutto adempiuto.
L’adito Tribunale di Macerata respingeva la domanda con sentenza n. 935/2015.
Avverso detta sentenza lo COGNOME proponeva appello.
-Le parti appellate rimanevano contumaci.
La Corte di appello di Ancona, con sentenza n. 728/2019, ha rigettato il gravame.
–NOME, NOME, NOME e NOME COGNOME nella qualità di eredi di NOME COGNOME, hanno proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.
Le parti intimate non hanno svolto attività difensiva.
-A seguito della proposta di definizione ex art. 380 bis cod. proc. civ. del Consigliere delegato, i ricorrenti hanno chiesto la decisione.
I ricorrenti hanno depositato una memoria ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione ed errata applicazione di norme di legge in relazione al disposto dell’art. 1458 cod. civ. (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.), nonché la violazione ed errata applicazione degli artt. 1804 e 1809 cod. civ.
Nella vicenda in esame, si discute di usucapione di porzioni di terreno, incluse in un piano di lottizzazione, quali aree verdi, che l’originaria parte attrice avrebbe occupato senza titolo alla data prevista per il rilascio e coltivato con integrale ritenzione dei prodotti raccolti, interamente a proprio favore, per oltre venti anni, in un rapporto costituitosi ex novo con il fondo, a far data dalla risoluzione consensuale di un rapporto di mezzadria. La sentenza di primo grado aveva rigettato la domanda ritenendo essersi protratto, di fatto, il rapporto di mezzadria sulle porzioni di terreno non riconsegnate, con la conseguenza che il possesso dell’attore con l’ animus rem sibi habendae , derivato dall ‘ occupazione senza titolo era iniziato solo al momento della definitiva risoluzione del rapporto mezzadrile, per cui, al momento della proposizione della domanda, non risultava trascorso il prescritto ventennio. Il giudice di secondo grado, pur riconoscendo che sulle particelle in contestazione si era definitivamente risolto il rapporto mezzadrile, aveva interpretato la
fattispecie come graduale riconsegna, differita nel tempo, delle porzioni di terreno, secondo le esigenze del lottizzante, il quale avrebbe consentito il godimento del terreno in favore dell’attore, per tolleranza, quale comodato.
Nell’ambito della riferita vicenda , con il primo motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per erronea applicazione del principio di diritto di cui all’art. 1458 cod. civ., secondo il quale, verificatasi la risoluzione del contratto, si determina l’automatica estinzione dei diritti e degli effetti prodotti dal contratto risolto e l’impossibilità della ricostituzione, neppure in via di fatto; per connessione logica il motivo risulta esteso, come violazione ed errata applicazione dei principi di diritto dettati dagli artt. 1804 e 1809 cod. civ. in quanto anche la scadenza del termine, sopravvenuta in un contratto di comodato, comporta effetti estintivi del negozio concluso tra le parti, obbliga il comodatario alla restituzione del bene e gli inibisce qualsiasi prosecuzione d’uso della cosa, rendendone inefficace qualsiasi prosecuzione anche in via di fatto.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione ed errata applicazione dell’art. 1158 cod. civ . in forza del quale ‘la proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni”, in connessione logica con la violazione ed errata applicazione dell’art. 1141 cod. civ., secondo cui si presume il possesso in colui che coltiva il fondo (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).
Nel contesto interpretativo premesso alla sintesi del motivo che precede, i ricorrenti, con il motivo in discorso, censurano l ‘ erronea applicazione delle norme richiamate in quanto la Corte di appello non avrebbe considerato la presunzione di possesso in colui che coltiva anche di fatto il fondo senza trarre le debite conseguenze dal fatto che il possesso continuato per venti anni comporta l’acquisto della proprietà dei beni immobili e degli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi.
1.1. -I primi due motivi, da trattarsi congiuntamente, sono infondati.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il comodatario, quale detentore della cosa comodata, non può acquistare il possesso ad usucapionem senza prima avere mutato, mediante una interversio possessionis , la sua detenzione in possesso, per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore (Cass., Sez. VI-2, 17 maggio 2018, n. 12080; Cass., Sez. III, 11 maggio 2010, n. 11374; Cass., Sez. III, 17 novembre 2009, n. 24222; Cass., Sez. II, 30 marzo 1995, n. 3811).
La mera mancata riconsegna del bene al comodante, nonostante le reiterate richieste di questi, a seguito di estinzione del comodato è inidonea a determinare l’interversione della detenzione in possesso, traducendosi nell’inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, suscettibile, in sé, di integrare un’ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale all’obbligo restitutorio gravante per legge sul comodatario (v. Cass., Sez. II, 22 aprile 2016, n. 8213).
Orbene, fermi gli appena richiamati principi di diritto, i ricorrenti prospettano, in effetti, una loro personale ricostruzione delle risultanze istruttorie mentre la Corte d’appello, confermando la decisione di prime cure, alla luce della documentazione acquisita e delle prove testimoniali, ha chiaramente affermato che a seguito della risoluzione del contratto di mezzadria in relazione alle porzioni destinate a insediamenti di residenziali, comprendenti le particelle per cui è causa, ne veniva disposta la riconsegna entro il 30 aprile 1981 e che nel periodo intermedio (fino a tale data) tali porzioni rimanevano in comodato al dante causa degli attuali ricorrenti. Inoltre, è stato accertato che non vi è stata una restituzione contestuale dell’intera estensione ma soltanto parziale e graduale nel
tempo, con l’assenso dei proprietari, via via che venivano frazionati e venduti i singoli lotti.
In più, la Corte marchigiana ha valorizzato la rilevante circostanza che nell’accordo di risoluzione del rapporto agrario (il cui contenuto viene appropriatamente riportato nella sentenza impugnata) era stato dato espressamente atto che le colture successivamente effettuate dai ricorrenti sui terreni a suo tempo concessi a titolo di mezzadria, e sino alla loro riconsegna, sarebbero state considerate in termini di prestazioni afferenti ad un rapporto equivalente a quello di mezzadria e che, pertanto, il titolo legittimante la protrazione della relazione con la porzione di fondo interessata si sarebbe dovuto intendere pur sempre riconducibile ad un comodato.
-Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art 1141 cod. civ. sull’onere della prova, richiesto per superare la presunzione di possesso in capo al coltivatore, e concretantesi nella esigenza di dimostrazione specifica del diverso titolo di detenzione (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).
I ricorrenti lamentano che la Corte territoriale non abbia tenuto conto della presunzione di possesso che, ai sensi dell’art. 1141 cod. civ., sussiste a favore di chi, anche senza titolo, coltiva di fatto il terreno e del connesso principio di diritto secondo il quale, per superare tale presunzione occorre la dimostrazione, da parte di chi contesta il possesso del coltivatore, di un titolo diverso in forza del quale quest’ultimo abbia acquisito la disponibilità del bene.
2.1. -Il motivo è infondato.
In relazione alla domanda di accertamento dell’intervenuta usucapione della proprietà di un fondo destinato ad uso agricolo non è sufficiente, ai fini della prova del possesso “uti dominus” del bene, la sua mera coltivazione, poiché tale attività è pienamente compatibile con una relazione materiale fondata su un titolo convenzionale o sulla mera tolleranza del proprietario e non esprime, comunque, un’attività idonea a realizzare esclusione dei terzi dal
godimento del bene che costituisce l’espressione tipica del diritto di proprietà. A tal fine, pur essendo possibile in astratto per colui che invochi l’accertamento dell’intervenuta usucapione del fondo agricolo conseguire senza limiti la prova dell’esercizio del possesso “uti dominus” del bene, la prova dell’intervenuta recinzione del fondo costituisce, in concreto, la più rilevante dimostrazione dell’intenzione del possessore di esercitare sul bene immobile una relazione materiale configurabile in termini di ius excludendi alios e, dunque, di possederlo come proprietario escludendo i terzi da qualsiasi relazione di godimento con il cespite predetto (Cass., Sez. II, 20 gennaio 2022, n. 1796).
Non sussiste, pertanto, alcuna presunzione di possesso da parte del coltivatore di un fondo.
-Con il quarto motivo i ricorrenti censurano un vizio di ultrapetizione – violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. – sul rilievo che la Corte distrettuale avrebbe ravvisato, in assenza di domanda, di prospettazione assertiva e soprattutto di prova, l’ esistenza di un rapporto di fatto tra le parti, sussumibile secondo il giudice di appello nel comodato, idoneo a legittimare in capo allo COGNOME un a detenzione qualificata del bene che lo stesso aveva ricusato di riconsegnare a scadenza dei rapporti pregressi, per la finalità di escludere in capo ad esso appellante il requisito del possesso utile ad usucapionem (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).
3.1. -Il motivo non è fondato.
Non sussiste alcuna ultrapetizione, avendo la Corte d’appello escluso l’intervenuta usucapione a fronte della prospettazione dei ricorrenti già respinta in primo grado, tenuto conto delle risultanze istruttorie dalle quali è emersa la risoluzione parziale del contratto di mezzadria e la prosecuzione del godimento di una parte dei beni sotto le forme del comodato d’uso.
-Con il quinto motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1144 cod. civ. secondo il quale gli atti compiuti
con l’altrui tolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).
I ricorrenti, con questo motivo, hanno inteso far valere detta violazione di legge per aver la Corte di appello ritenuto esistente in specie una pretesa tolleranza della proprietà da questa mai recriminata né provata ed in contrasto con atti scritti riconosciuti dalle parti.
Con il sesto motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1144 cod. civ., secondo il quale gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).
I ricorrenti hanno dedotto la medesima violazione e falsa applicazione dell’art. 1144 cod. civ. sotto diverso profilo, ovvero per aver ritenuto la sentenza impugnata comprovata in specie la suddetta tolleranza da parte della proprietà sulla base della erronea interpretazione delle risultanze della prova orale dal teste COGNOME
Con il settimo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2722 cod. civ. e dell’art. 2702 cod. civ. per avere la Corte territoriale fondato il proprio convincimento sulle risultanze della prova testimoniale in contrasto con i contenuti di documentazione scritta recante la sottoscrizione delle parti, mai dalle medesime contestata o disconosciuta nel corso del giudizio (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).
4.1. -I motivi, tra loro connessi e da trattarsi quindi congiuntamente, sono inammissibili.
Il ricorrente per cassazione non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il
merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione del giudice di merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (v., per tutte, Cass., Sez. V, 22 novembre 2023, n. 32505).
Deve, pertanto, ritenersi inammissibile il motivo di impugnazione con cui la parte ricorrente sostenga un’alternativa ricostruzione della vicenda fattuale, pur ove risultino allegati al ricorso gli atti processuali sui quali fonda la propria diversa interpretazione, essendo precluso nel giudizio di legittimità un vaglio che riporti a un nuovo apprezzamento del complesso istruttorio nel suo insieme (Cass., Sez. II, 23 aprile 2024, n. 10927).
Alla luce delle risultanze istruttorie, tenuto conto della transazione intervenuta tra le parti e delle testimonianze acquisite agli atti del giudizio, la Corte d’appello ha -in base ad un giudizio di fatto adeguatamente motivato -espressamente escluso la sussistenza degli estremi dell’ animus domini in capo allo COGNOME Difettano, inoltre, di specificità le doglianze concernenti l’esame della documentazione cui si fa un generico riferimento, così come le prove testimoniali acquisite al processo, di cui si domanda una diversa interpretazione.
Pur prospettando le richiamate violazioni di legge, i ricorrenti intendono conseguire una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, inammissibile in sede di legittimità a fronte della valutazione compiuta in sede di merito e in presenza della conformità delle due sentenze di merito, senza evidenziare alcun contrasto tra l’accertamento compiuto in primo e in secondo grado (Cass., Sez. III, 20 settembre 2023, n. 26934).
5. -Il ricorso deve, in definitiva, essere rigettato.
Non si deve provvedere sulle spese stante la mancata costituzione delle parti intimate.
Essendo la decisione resa all’esito di un procedimento per la definizione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, di cui all’art. 380-bis cod. proc. civ. (novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022), con formulazione di istanza di decisione ai sensi del secondo comma della norma citata, e il giudizio definito in conformità alla proposta, i ricorrenti devono essere condannati al pagamento della sola somma ex art. 96 comma 4 cod. proc. civ., liquidata in dispositivo, in favore della cassa delle ammende.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti, ai sensi dell’art. 96, comma 4, cod. proc. civ., al pagamento della somma di euro 1.500,00 in favore della cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione