Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 6843 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 6843 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 19983-2020 proposto da:
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO nello studio degli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME che lo rappresentano e difendono
– ricorrente –
contro
NOME, rappresentato e difeso in proprio e domiciliato nel suo studio in ROMA, LUNGOTEVERE NOME BRESCIA INDIRIZZO
– controricorrente –
nonchè contro
NOMECOGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME SOCIETA’ RAGIONE_SOCIALE E SVILUPPO, COGNOME NOME COGNOME DI NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME eredi di NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME, NOME
– intimati – avverso la sentenza n. 2134/2020 della CORTE DI APPELLO di ROMA, depositata il 28/04/2020;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 24.2.2010 COGNOME NOME evocava in giudizio COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Roma, invocando l’accertamento dell’illegittima occupazione, da parte del convenuto, del pianerottolo al settimo piano e del locale posto sul terrazzo di copertura dello stabile in condominio sito in Roma, INDIRIZZO INDIRIZZO e la sua condanna alla rimessione in pristino di detti beni.
Si costituiva il convenuto, resistendo alla domanda, eccependo che i beni si trovavano nella stessa condizione risalente al suo acquisto, avvenuto il 18.9.1989, e non opponendosi comunque all’utilizzazione,
da parte dell’attore, dell’ascensore per accedere al pianerottolo del settimo piano ed al terrazzo.
Veniva disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini dell’edificio, dei quali si costituivano COGNOME NOMECOGNOME che deduceva di non essere condomina e chiedeva dunque che fosse dichiarata la sua carenza di legittimazione passiva, nonché RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME e COGNOME NOME, i quali si rimettevano alla giustizia.
Con sentenza n. 9403/2014 il Tribunale accoglieva la domanda e condannava il convenuto al rilascio dei beni comuni occupati.
Con la sentenza impugnata, n. 2134/2020, la Corte di Appello di Roma accoglieva in parte il gravame interposto avverso la decisione di prime cure da NOME NOMECOGNOME affermando che questi aveva sollevato eccezione di usucapione, e ritenendo detta eccezione fondata, alla luce del fatto che i luoghi non erano stati modificati dal 1989.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione NOMECOGNOME affidandosi a sei motivi.
Resiste con controricorso COGNOME NOME.
Le altre parti intimate non hanno svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
In prossimità dell’adunanza camerale, ambo le parti costituite hanno depositato memoria
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 342, 163, 164 e 153 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello non avrebbe rilevato la nullità dell’atto di impugnazione, il quale non conteneva la citazione a comparire, prescritta dalla legge processuale come elemento essenziale dell’atto. Il vizio, del quale l’appellante si era
avveduto, era stato segnalato al Presidente della IV sezione della Corte distrettuale, investita dell’esame del gravame, il quale aveva ordinato la rinnovazione della notificazione dell’atto introduttivo del secondo grado del giudizio di merito entro la data del 27.2.2015, che non veniva rispettato dal COGNOME, che aveva notificato al COGNOME l’istanza ed il decreto soltanto il 20.2.2016. Trattandosi di termine perentorio, il suo mancato rispetto da parte dell’appellante avrebbe dovuto comportare l’inammissibilità dell’impugnazione.
La censura è infondata.
L’odierno ricorrente dà atto di essersi costituito in giudizio, in sede di gravame, in data 17.9.2015 (cfr. pag. 8 del ricorso) e di aver ricevuto la notificazione dell’istanza di rinnovazione della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di appello, e del pedissequo decreto di fissazione della nuova udienza emesso dal Presidente della sezione della Corte distrettuale, soltanto successivamente alla propria costituzione.
Va ribadito, sul punto, il principio secondo cui ‘La mancanza nella citazione di tutti i requisiti indicati dall’art. 164, comma 1, c.p.c. e, quindi, di tutti gli elementi integranti la vocatio in jus, non vale a sottrarla (anche se trattasi di citazione in appello) all’operatività dei meccanismi di sanatoria ex tunc previsti dal secondo e terzo comma della medesima disposizione. Ne consegue che, quando la causa, una volta iscritta al ruolo, venga chiamata all’udienza di comparizione (che, per la mancata indicazione dell’udienza, dev’essere individuata ai sensi dell’art. 168-bis, comma 4, c.p.c.), il giudice, anche in appello, ove il convenuto non si costituisca, deve ordinare la rinnovazione della citazione, ai sensi e con gli effetti dell’art. 164, comma 1, c.p.c., mentre se si sia costituito deve applicare l’art. 164, comma 3, c.p.c., salva la richiesta di concessione di termine per l’inosservanza del termine di
comparizione’ (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 23979 del 26/09/2019, Rv. 655105; conf. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 13079 del 25/05/2018, Rv. 648711).
Ne deriva che l’atto di impugnazione, carente del requisito della vocatio in ius , non è radicalmente nullo, dovendosi disporre, ai sensi dell’art. 164 c.p.c., la sua rinnovazione entro un termine perentorio (in questo senso, cfr. anche Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 10926 del 26/04/2023, Rv. 667673). Ove però il convenuto si costituisca, va applicato il terzo comma dell’art. 164 c.p.c., con conseguente sanatoria, per effetto della ridetta costituzione, dei vizi formali dell’atto di evocazione in giudizio, che comunque ha prodotto il suo effetto tipico, salvo il diritto del convenuto, in caso di inosservanza dei termini minimi di comparizione o di mancanza dell’avviso previsto dall’art. 163, terzo comma, n. 7, c.p.c., di chiedere la fissazione di una nuova udienza nel rispetto dei detti termini.
Poiché nel caso di specie il COGNOME come da lui stesso dichiarato in ricorso, si era già costituito, ancor prima della notificazione dell’istanza di rinnovazione della citazione introduttiva del gravame, la sanatoria del vizio formale dell’atto introduttivo del giudizio d’appello si era prodotta, onde rimane irrilevante il successivo mancato rispetto del termine perentorio fissato dal giudice per la rinnovazione di un atto che, di fatto, aveva già prodotto il proprio effetto tipico. Né il ricorrente dà atto, nella censura in esame, di aver formulato la richiesta di cui all’art. 164, terzo comma, c.p.c., con conseguente irrilevanza anche dell’eventuale mancato rispetto dei termini minimi di comparizione e/o dell’eventuale carenza dell’avviso di cui all’art. 163, terzo comma, n. 7, c.p.c.
Con il secondo motivo, il ricorrente si duole della violazione degli artt. 113, 279, 340, 327, 324 c.p.c. e 2909 c.c., in relazione all’art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto che il COGNOME avesse sollevato eccezione di usucapione degli spazi comuni da lui occupati, senza considerare che la mancata proposizione di detta eccezione era stata rilevata dal Tribunale con provvedimento del 4.2.2015, con il quale la causa era stata rinviata per la precisazione delle conclusioni, e che detto provvedimento, avente contenuto sostanziale di sentenza non definitiva, non era stato fatto oggetto di riserva di impugnazione da parte del Martone.
La censura è infondata.
Il provvedimento con il quale il giudice rinvia la causa per la precisazione delle conclusioni non ha contenuto decisorio, anche quando risolve una questione processuale o sostanziale, ma meramente ordinatorio (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 17549 del 10/12/2002, Rv. 559104; conf. Cass. Sez. U, Sentenza n. 14693 del 13/07/2005, Rv. 582838; cfr. anche Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1186 del 19/01/2007, Rv. 594495). Come tale, avverso di esso non deve essere proposta riserva di impugnazione, poiché le statuizioni in esso contenute non incidono sui diritti soggettivi delle parti e ben possono essere nuovamente rivalutate in sentenza.
Con il terzo motivo, il ricorrente denunzia la falsa applicazione degli artt. 101, 102, 354, 292, 324 c.p.c. e 1909 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe dovuto rilevare la natura non integra del contraddittorio e rimettere, di conseguenza, la causa al giudice di primo grado.
La censura è inammissibile.
Il ricorrente non indica quali sarebbero i litisconsorti necessari pretermessi, onde la censura non è assistita dal richiesto grado di specificità. Va ribadito, sul punto, il principio secondo cui ‘In tema
di litisconsorzio necessario, la parte che … deduca la non integrità del contraddittorio … non può genericamente assumere l’esistenza di litisconsorti pretermessi, ma ha l’onere di indicare le persone … e di specificare le ragioni di fatto e di diritto della necessità di integrazione, le quali non debbono apparire prima facie pretestuose’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12346 del 27/05/2009, Rv. 608556; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12504 del 29/05/2007, Rv. 597382; che hanno entrambe affermato la validità del richiamato principio in relazione alle cause ereditarie; nonché, in termini generali, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25810 del 18/11/2013, Rv. 628300; Cass. Sez. L, Ordinanza n. 5679 del 02/03/2020, Rv. 657513; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 17589 del 21/08/2020, Rv. 658899).
Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe pronunciato oltre la domanda formulata dal COGNOME il quale in prime cure aveva concluso per il rigetto della pretesa dell’odierno ricorrente, senza alcuna specificazione, e solo in appello aveva sollevato eccezione di usucapione in relazione alle modalità d’uso degli spazi comuni oggetto di causa, e non invece con riguardo alla loro proprietà. Il giudice di seconde cure, dunque, nel riconoscere al COGNOME la proprietà, appunto per usucapione, dei detti spazi, sarebbe incorso in ultrapetizione.
La censura è infondata.
La Corte di Appello dà atto che fin dalla comparsa di costituzione il convenuto aveva dedotto l’esistenza di un rapporto pertinenziale tra il proprio appartamento e gli spazi oggetto di causa ed aveva dedotto l’esistenza di una ‘situazione di possesso rilevante anche ai fini dell’usucapione’ (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata). L’eccezione di usucapione, dunque, era stata sollevata dal COGNOME già in prime cure,
posto che, come rilevato correttamente dalla Corte del gravame, a tal scopo non occorre che la parte ricorra all’uso di formule sacramentali, dovendo il giudice valutare il contenuto effettivo delle difese proposte e degli argomenti in esse sollevati. Va, sul punto, data continuità al principio, richiamato anche dalla sentenza impugnata, secondo cui ‘Nell’ esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda il giudice di merito, non condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte, ha il potere-dovere di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non solo dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte e dalle precisazioni dalla medesima fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto dalla stessa richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di non sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella esercitata. Tale ampio potere, attribuito al giudice per valutare la reale volontà della parte quale desumibile dal complessivo comportamento processuale della stessa, estrinsecandosi in valutazioni discrezionali sul merito della controversia, è sindacabile in sede di legittimità soltanto se il suo esercizio ha travalicato i predetti limiti, ovvero è insufficientemente o illogicamente motivato’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8225 del 29/04/2004, Rv. 572456; conf. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 13602 del 21/05/2019, Rv. 653921). Di conseguenza, ‘Per la proposizione di un’eccezione sostanziale non si richiede che la parte impieghi formule sacramentali, ma è sufficiente qualsiasi deduzione, anche implicita, che la riveli, come ad esempio l’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio che sia volto a contrastare la domanda avversaria’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8225 del 29/04/2004, Rv. 572457). In materia di diritti reali, poi, va ribadito il principio secondo cui ‘La parte convenuta in un giudizio di carattere reale può utilmente contrastare l’azione così
esercitata nei suoi confronti anche sollevando un’eccezione riconvenzionale di usucapione, senza necessità di formulare la relativa domanda’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20330 del 27/09/2007, Rv. 599365; conf. Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 26884 del 29/11/2013, Rv. 628956).
Ne deriva che, a fronte della prospettazione difensiva proposta dal COGNOME sin dal suo primo atto difensivo, nella fattispecie non si configura alcuna pronuncia ultra petita , avendo piuttosto la Corte di Appello condotto una valutazione, peraltro pienamente condivisibile, in relazione al contenuto effettivo delle predette difese.
Con il quinto motivo, il ricorrente si duole della violazione degli artt. 1164 c.c. e 113 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ravvisato una interversione nel possesso della cosa comune a tutti i condomini.
La censura è infondata.
La Corte di Appello ha evidenziato che, come prospettato dal COGNOME e non contestato dal COGNOME, i luoghi erano rimasti immutati dal 1989, quando il COGNOME aveva acquistato il suo appartamento, e che gli elementi di prova acquisiti agli atti del giudizio dimostravano che ‘… l’ascensore dello stabile è utilizzato dai condomini per accedere fino al sesto piano, mentre per la fermata al settimo piano (ove si trovano, appunto, il vano in contestazione e l’appartamento del COGNOME) occorre un’apposita chiave in dotazione al solo appellante, con evidente esclusione degli altri condomini dall’uso del bene in origine comune’ (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata). Il giudice di merito ha, dunque, ravvisato la prova dell’esclusione degli altri comproprietari dal godimento della cosa comune, applicando i principi affermati da questa Corte, secondo cui ‘Il partecipante alla comunione che intenda dimostrare l’intenzione di possedere non a titolo di
compossesso, ma di possesso esclusivo (uti dominus), non ha la necessità di compiere atti di interversio possessionis alla stregua dell’art. 1164 c.c., dovendo, peraltro, il mutamento del titolo consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini della cosa, incompatibile con il permanere del compossesso altrui, non essendo al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione, consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9100 del 12/04/2018 Rv. 648079; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16841 del 11/08/2005, Rv. 584306; principio valido anche ai rapporti tra coeredi, prima della divisione, in forza di Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 9359 del 08/04/2021, Rv. 660860, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10734 del 04/05/2018, Rv. 648439 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1370 del 18/02/1999, Rv. 523346).
Il ricorrente deduce che l’uso esclusivo dell’ascensore e del pianerottolo al settimo piano, da parte del COGNOME, sarebbe derivato dalla tolleranza degli altri condomini, ma omette di confrontarsi con i decisivi riscontri evidenziati, in punto di fatto, dal giudice di merito, che ha evidentemente ravvisato una ipotesi di interclusione dello spazio in origine comune, ritenendo che lo stesso fosse stato utilizzato dal solo COGNOME, per oltre venti anni, senza alcuna interferenza, né possibilità di concorrente utilizzazione, da parte degli altri comproprietari. Trattasi di accertamento di fatto, al quale il ricorrente contrappone una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle
valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui ‘L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330; cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016, Rv. 641328 e Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 16467 del 04/07/2017, Rv. 644812).
Con il sesto motivo, il ricorrente denunzia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello sarebbe incorsa in vizio di ultrapetizione, affermando che il COGNOME non aveva chiesto l’accertamento della proprietà del locale sito sul lastrico condominiale, ma soltanto il diritto di accedervi dal vano antistante il suo appartamento. In tal modo, il giudice di merito
avrebbe riconosciuto al COGNOME un diritto di uso esclusivo di detto locale, senza avvedersi che, nella sua prospettazione difensiva, l’odierno controricorrente non ne aveva mai contestato la natura condominiale.
La censura è infondata.
La Corte di Appello ha dato atto che il COGNOME ‘… non ha invocato il riconoscimento della proprietà esclusiva, ma si è limitato a vantare il diritto, da un lato, di accedervi dal vano antistante il suo appartamento e, dall’altro lato, a mantenervi i cassoni dell’acqua. In ordine al primo profilo, spiega effetti l’eccezione di usucapione del vano, come detto meritevole di accoglimento, con la conseguenza che il COGNOME può accedere al lastrico passando attraverso il vano antistante il proprio appartamento (fermo restando che il pari uso del lastrico comune da parte degli altri condomini è assicurato tramite un ulteriore passaggio dalle scale). Con riferimento al secondo profilo, i cassoni dell’acqua sono destinati a servizio dell’appartamento interno 13 e tale configurazione risale pacificamente (anche questo aspetto non è stato oggetto di contestazione alcuna) ben oltre il ventennio invocato dal COGNOME, cosicché il predetto ha diritto a mantenere i cassoni nell’attuale ubicazione, senza che il pari uso del lastrico da parte degli altri comproprietari subisca ulteriori limitazioni’ (cfr. pagg. 7 ed 8 della sentenza impugnata). Con tale motivazione, la Corte distrettuale ha ritenuto che il COGNOME abbia usucapito non già la proprietà esclusiva del locale sito sul lastrico comune, che non aveva mai richiesto, bensì soltanto il duplice diritto di accedere al lastrico dal vano antistante la propria abitazione e di mantenere, nel locale anzidetto, i cassoni a servizio del proprio appartamento. Trattasi, con tutta evidenza, di servitù a carico del bene comune, che ben possono essere oggetto di usucapione, onde nessun vizio di ultrapetizione si configura nella
fattispecie. Va peraltro ribadito che i beni condominiali si prestano, in casi specifici, ad un uso più intenso, o anche esclusivo, da parte di alcuni comproprietari, senza che tale circostanza sia idonea ad inficiarne la natura comune, né a costituire, in capo al comproprietario che eserciti detto uso più intenso o esclusivo, un diritto dominicale di estensione ed intensità tali da azzerare il concorrente diritto degli altri comproprietari.
Alla luce delle esposte argomentazioni, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P.R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 2.000 per compensi, oltre al rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200 ed agli accessori di legge, inclusi iva e cassa avvocati.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, addì 31 gennaio 2025.
IL PRESIDENTE NOME COGNOME