Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 10735 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 10735 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 23/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 19697-2021 proposto da:
COGNOME NOME, COGNOME, con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avvocato NOME COGNOME domiciliat i ‘ ex lege ‘ presso l’indirizzo di posta elettronica del proprio difensore come in atti, rappresentati e difesi dall’Avvocato NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
LA BATTAGLIA NOME, LA COGNOME COGNOME, LA COGNOME NOME, NOME COGNOME, CURATELA FALLIMENTARE COGNOME DI RAGIONE_SOCIALE E DEL SOCIO ROSARIA NISTICÒ;
-intimati –
Oggetto
OCCUPAZIONE SENZA TITOLO
Inammissibilità dei motivi di ricorso
R.G.N. 19697/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 26/11/2024
Adunanza camerale
Avverso la sentenza n. 671/2020 d ella Corte d’appello di Salerno, depositata in data 18/06/2020;
udita la relazione della causa svolta nell ‘adunanza camerale del 26/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME e NOME COGNOME ricorrono, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 671/20, del 18 giugno 2020, della Corte d’appello di Salerno, che respingendone il gravame avverso la sentenza n. 2310/14, dell’8 maggio 2014, del Tribunale della stessa città -ha confermato sia il rigetto della domanda, da essi proposta nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, di condanna al rilascio di un appartamento sito al civico nINDIRIZZO INDIRIZZO di INDIRIZZO, in Salerno, nonché di risarcimento del danno da occupazione ‘ sine titulo ‘ , sia l’accoglimento, ma in favore del solo NOME COGNOME, della domanda riconvenzionale di usucapione.
Riferiscono, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti di essere, rispettivamente, l’uno NOME COGNOME -nudo proprietario, l’altro (NOME COGNOME) usufruttuario, dell’appartamento suddetto, per averlo acquistato, in data 28 novembre 2002, da NOME COGNOME.
Sul presupposto che l’immobile fosse detenuto ‘ sine titulo ‘ da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME i COGNOME ebbero a convenirli in giudizio, per conseguire il rilascio del bene e il risarcimento del danno da illecita occupazione.
Costituitisi in giudizio, i convenuti -salvo il solo NOME COGNOME -proponevano domanda riconvenzionale,
sostenendo di aver acquisito per usucapione la proprietà dell’ immobile, avendolo posseduto in maniera pubblica, pacifica e ininterrotta da oltre vent’anni, avendolo adibito per unanime decisione della famiglia COGNOME -a residenza familiare di NOME COGNOME, marito di NOME COGNOME e padre di NOME COGNOME. A loro d ire, infatti, l’immobile ancorché formalmente intestato a NOME COGNOME (sorella di NOME), per averlo ricevuto in donazione, in virtù di atto del 16 dicembre 1991, dalla madre NOME COGNOMEera stato destinato di comune accordo, come detto, a residenza del nucleo familiare di NOME COGNOME.
A fronte di tale prospettazione, gli allora attori COGNOME deducevano che l’immobile in questione aveva costituito, sino al 15 novembre 1985 (epoca del suo frazionamento in due appartamenti, il più grande dei quali -quello contrassegnato come numero 18 -costituisce oggetto del presente giudizio, mentre l’altro, numero 17, veniva alienato a terzi il 1° dicembre 1993), un’unica unità abitativa di nove vani, della quale era stata, in origine, solo nuda proprietaria la già citata NOME COGNOME in capo alla quale, poi, si era consolidato il diritto dominicale, a far data dal 1° dicembre 1993.
Deducevano, altresì, i COGNOME che la convenuta NOME COGNOME COGNOME aveva abitato nella suddetta unità immobiliare -in base a quanto risultante dal certificato storico di residenza, da essi prodotto in giudizio -dal 7 luglio 1987 al 12 maggio 1999, per poi traferirsi a Fisciano, dal 2 luglio 2001, salvo poi essere reiscritta alla residenza di INDIRIZZO dal 3 luglio 2011. Tuttavia, mentre l’appartamento oggetto di causa il numero 18 -sarebbe stato occupato da NOME COGNOME e dalla figlia NOME sino al 4 ottobre 1993 (data del trasferimento di entrambe a Roma), sarebbe stato, viceversa, l’appartamento contrassegnato come n. 17 quello occupato -dopo il
frazionamento dell’immobile, avvenuto nel 1985 da NOME COGNOME COGNOME e dal suo nucleo familiare. Situazione, peraltro, protrattasi fino al 28 ottobre 1993, vale a dire allorché l’appartamento n. 17 venne, come detto, trasferito a terzi, con atto risalente al dicembre 1993. Solo, dunque, a partire dal 1994 i convenuti avrebbero occupato l’appartamento contrassegnato come n. 18 (cioè a dire la ‘ res litigiosa ‘), ciò che secondo quanto si legge in ricorso -avrebbe impedito agli stessi d’invocare, anch e in ragione dell’avvenuto trasferimento a Fisciano, l’intervenuto acquisto per usucapione ventennale, essendo stato il giudizio di primo grado incardinato con citazione notificata il 5 febbraio 2003. D’altra parte, ulteriore riprova del fatto che i conven uti nulla potessero pretendere in relazione all’immobile per cui è causa sarebbe costituita dalla circostanza che, fino al 1991, fu unicamente NOME COGNOME a occuparsi del bene, come comprovato dal suo interessamento, in via esclusiva, alle vicende d el crollo parziale dell’edificio a seguito dei danni provocati dal sisma del 1980, partecipando alle assemblee condominiali e facendosi carico delle quote condominiali di propria pertinenza e di quelle per la ristrutturazione dell’immobile.
Interrotto il giudizio per ben due volte, dapprima in ragione della dichiarazione di fallimento di NOME COGNOME (per estensione al socio illimitatamente responsabile della società RAGIONE_SOCIALE), e poi per la morte di NOME COGNOME COGNOME, il giudizio veniva riassunto, rispettivamente, nei confronti della curatela e delle figlie della deceduta, NOME e NOME COGNOME, rimaste entrambe contumaci.
Istruita la causa, oltre che documentalmente, anche attraverso l’assunzione di prova testimoniale, l’esito del giudizio di primo grado consisteva nel rigetto delle domande e nell’accoglimento, al contrario, della riconvenzionale in favore del solo NOME COGNOME. Esito al quale l’adito Tribunale perveniva
sul rilievo della raggiunta prova del compossesso dell’appartamento, ad immagine del diritto di proprietà, da parte dei familiari di NOME COGNOME, sin dal 1982 (ravvisandosi, invece, in capo a NOME COGNOME e a NOME COGNOME COGNOME Testa la semplice condizione di ospiti nell’immobi le), qualificandosi, pertanto, come ‘ a non domino ‘ l’acquisto effettuato dai COGNOME nei confronti di NOME COGNOME, da ritenersi solo fittiziamente intestataria dell’immobile.
Esperito gravame dai già attori, il giudice d’appello nella costituzione del solo NOME COGNOME -lo rigettava.
Avverso la sentenza della Corte salernitana hanno proposto ricorso per cassazione i COGNOME sulla base -come detto -di due motivi.
3.1. Il primo motivo denuncia -ex art. 360, comma 1, nn. 3) e 5), cod. proc. civ. -sia ‘motivazione apparente e apodittica’, censurando la sentenza impugnata là dove ‘ha erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi del negozio fiduciario’, sia ‘violazio ne di legge in relazione alla ripartizione dell’onere probatorio ex art. 2697 cod. civ in combinato disposto con l’art. 115 cod. proc. civ.’, in particolare per aver ‘ritenuto raggiunta la prova in ordine all’intestazione fittizia del bene quale fondamento del possesso animo domini dell’usucapente ai fini dell’accoglimento della domanda di acquisto per usucapione’.
Si contesta l’affermazione della Corte territoriale secondo cui la donazione intercorsa tra NOME COGNOME e la figlia NOME COGNOME integra ‘un contratto simulato per interposizione fittizia della persona donataria’, ovvero ‘più probabilmente un negozio fiduciario’ relativo all’immobile di INDIRIZZO ‘con obbligo della donataria di ritrasferirlo in seguito al reale
destinatario della donazione materna’, vale a dire l’altro figlio della NOME, NOME COGNOME, all’epoca gravato da numerosi debiti. Si censura, inoltre, la sentenza impugnata là dove ha ritenuto che ‘entrambe le ipotesi’, vale a dire simulazione e negozio fiduciario, risultino ‘inopponibili al terzo acquirente di buona fede’ (nel caso di specie, i COGNOME), essendo, tuttavia, invocate dai familiari di NOME COGNOME ‘per affermare il fondamento del possesso da loro esercitato, ai fini della domanda riconvenzionale di usucapione’.
Orbene, osservano al riguardo i ricorrenti che l’assunto relativo alla sussistenza di un negozio simulato per interposizione fittizia o di un negozio fiduciario, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, ‘non risulta supportato da alcun riscontro probatorio, avendo la Corte territoriale fatto malgoverno delle regole giuridiche in tema di riparto dell’onere probatorio in ordine all’intestazione fittizia del bene’.
Nell’illustrare tale censura, i ricorrenti muovono dalla premessa che la circostanza dedotta in giudizio dai familiari di NOME COGNOME, vale a dire che era volontà della di lui madre, NOME COGNOME, intestare l’immobile alla figlia, NOME COGNOME con l’obbligo per la stessa di trasferirlo successivamente al fratello, varrebbe ‘di per sé ad escludere la configurabilità, nel caso di specie, di una simulazione contrattuale’. E ciò perché la differenza tra negozio simulato e fiduciario co nsiste nel fatto che, nel primo, ‘la dichiarazione non corrisponde affatto alla volontà effettiva di chi la compie, mentre il secondo è negozio realmente voluto dalle parti, ma per raggiungere fini pratici corrispondenti alla funzione tipica o alla causa d i altra figura negoziale’.
Orbene, poiché il negozio fiduciario si connota per il fatto che il trasferimento dal fiduciante al fiduciario ha carattere effettivo, salvo l’obbligo del secondo di trasferire, a propria volta, il bene, o
nuovamente al fiduciante, o -come nella specie -a un terzo, allorché il trasferimento abbia ad oggetto un immobile (tale essendo il caso che occupa), il c.d. ‘ pactum fiduciae ‘ deve risultare da un atto avente forma scritta ‘ ad substantiam ‘.
Di qui, pertanto, la necessità per i convenuti nel presente giudizio -assumono i ricorrenti -di provare tale patto con atto scritto, ‘non essendo la prova testimoniale in alcun modo ammissibile oltre i limiti di valore fissati dall’art. 2721 cod. civ. ed essendo espressamente esclusa ex art. 2722 cod. civ. al fine di dimostrare patti aggiunti o contrari al contenuto dell’atto di donazione, siano essi anteriori o coevi alla formazione dello stesso’. Non essendo ciò avvenuto, sussisterebbe violazione degli artt. 2697 cod. civ. e 115 cod. proc. civ.
Assumono, poi, i ricorrenti che la conclusione, raggiunta dalla Corte territoriale, circa la sussistenza della ‘piena prova dell’intestazione fittizia del bene’, oltre a violare le norme suddette, disattende il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, chi agisce per farsi dichiarare proprietario di un bene per averlo usucapito, deve provare tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, quindi, non del solo ‘ corpus possessionis ‘, ma anche del c.d. ‘ animus possidendi ‘. Nella specie, invece, i familiari di NOME COGNOMEnulla hanno dimostrato al riguardo, avendo semplicemente opposto, ma in alcun modo provato, la intestazione fittizia del bene per affermare il loro possesso asseritamente esercitato ad immagine della proprietà’.
D’altra parte, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe pure ‘da ritenere apparente’, e ciò ‘in quanto muove da un dato di fatto (l’intestazione fittizia del bene che ha avuto una incidenza causale sulla decisione impugnata) del tutto erroneo ed ind imostrato, giacché non suffragato da idoneo atto scritto’.
3.2. Il secondo motivo denuncia ‘motivazione apparente ed apodittica’ ex art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ., in relazione all’art. 111, comma 6, Cost. e all’art. 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ. -là dove la Corte d’appello di Salerno ha ritenuto r aggiunta la prova sull’elemento psicologico richiesto ai fini dell’usucapione, nonché, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 1158 cod. civ.
Si censura la sentenza impugnata là dove afferma che la ‘conservazione del possesso acquisito animo et corpore non richiede l’esplicazione di continui e concreti atti di godimento essendo sufficiente che il bene posseduto, in relazione alla sua natura e destinazione economico sociale, possa ritenersi nella virtuale disponibilità del possessore’. La decisione della Corte territoriale, sul punto, è -secondo i ricorrenti -‘solo apparentemente motivata ed è certamente apodittica, giacché non fornisce alcuna spiegazione, sotto il profilo probatorio, a sostegno del riconoscimento del possesso idoneo ai fini dell’usucapione’. Se è vero, infatti, che la prova del possesso ‘ ad usucapionem ‘ può anche essere fornita per testi, essa deve essere, però, ‘rigorosa’, e ciò ‘con particolare riferimento all’elemento psicologico’.
D’altra parte, osservano i ricorrenti, se è vero che il possesso può essere conservato ‘ solo animo ‘, occorre pur sempre che il possessore sia in grado di ripristinare ‘ ad libitum ‘ il contatto materiale con la cosa, ciò che deve escludersi in presenza di ‘una obiettiva mutata situazione dei luoghi’. Tale sarebbe il caso di specie, avuto riguardo all’avvenuto frazionamento dell’appartamento di INDIRIZZO, nonché alla circ ostanza che, all’esito di tale operazione, la famiglia di NOME COGNOME Battaglia, dal 7 luglio 1987 fino al 28 ottobre 1993, ebbe ad abitare nell’immobile sub 17 (poi alienato a terzi), e non
in quello -oggetto di causa -sub 18, nel quale si spostò solo dal mese di ottobre 1993 fino al 12 maggio 1999, per poi trasferirsi a Fisciano fino al luglio 2001, allorché fece rientro nello stesso.
Né, d’altra parte, varrebbe richiamarsi come ha fatto la sentenza impugnata -alla presunzione di possesso intermedio ex art. 1142 cod. civ., essendo ‘incontestato e ampiamente dimostrato dalla documentazione in atti’ che l’appartamento al secondo piano di INDIRIZZO danneggiato dal sisma del 23 novembre 1980, fu dichiarato inagibile con ordinanza n. 59 del 1° marzo 1986, risultando ancora tale alla data del 18 aprile 1991.
In conclusione, la sentenza impugnata, sul punto della prova dell’elemento psicologico del possesso utile per l’usucapione si limiterebbe a recepire ‘ per relationem ‘ quanto statuito dal primo giudice, per giunta omettendo di esaminare tutti i certificati di residenza e gli stati di famiglia prodotti dai ricorrenti in primo grado, oltre ai verbali delle assemblee condominiali, questi ultimi attestanti come sia stata sempre NOME COGNOME ad occuparsi dell’immobile.
Sono rimasti solo intimati NOME, NOME e NOME COGNOME, nonché NOME COGNOME e la suddetta curatela fallimentare.
La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380bis .1 cod. proc. civ.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
Non consta, invece, la presentazione di requisitoria scritta da parte del Procuratore Generale presso questa Corte.
RAGIONI DELLA DECISIONE
In via preliminare, deve rilevarsi che appare superfluo esaminare la questione -come pure sollecitato dai ricorrenti, con la loro memoria -relativa alla ritualità della notificazione nei confronti di NOME COGNOME e di NOME COGNOME.
Palesandosi, infatti, il ricorso inammissibile, l’eventuale rinnovazione della notifica costituisce incombente superfluo (Cass. Sez. Un., ord. 22 marzo 2010, n. 6826, Rv. 612077-01).
Il ricorso è inammissibile, in ciascuno dei motivi in cui si articola.
9.1. Inammissibile è, infatti, il primo motivo.
9.1.1. Nello scrutinarlo, occorre muovere dalla constatazione che, effettivamente, nella giurisprudenza di questa Corte si trova affermato il principio secondo cui, posto che ‘l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, ove tale patto abbia ad oggetto beni immobili, esso deve risultare da un atto avente forma scritta « ad substantiam », atteso che esso è sostanzialmente equiparabile ad un contratto preliminare’ (Cass. Sez. 2, sent. 9 maggio 2011, n. 10163, Rv. 617627-01; in senso conforme anche Cass. Sez. 1, sent. 26 maggio 2014, n. 11757, Rv. 631477-01).
Da ciò, pertanto, deriverebbe -secondo i ricorrenti -che la carenza di un atto scritto attestante , nella specie, l'(ipotetico) impegno di NOME COGNOME a trasferire al fratello NOME l’immobile, oggetto della donazione materna posta in essere il 16 novembre 1991, renderebbe impossibile ricostruire l’operazione suddetta come, appunto, un negozio fiduciario.
Tale constatazione si traduce, però, in due censure -e cioè, quelle di violazione de ll’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 115 cod. proc. civ. -che risultano , per così dire, ‘fuori fuoco’, addebitando , infatti, i ricorrenti alla Corte territoriale di aver ‘fatto malgoverno delle regole giuridiche in tema di riparto dell’onere probatorio in ordine all’intestazione fittizia del bene’.
Difatti, la ‘violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una par te diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni’ (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 31 agosto 2020, n. 18092, Rv. 658840-01, nello stesso senso, in motivazione, sebbene non massimata, Cass. Sez. Un., sent. 5 agosto 2016, n. 16598, richiamata da Cass. Sez. 6-3, ord. 23 ottobre 2018, n. 26769, Rv. 650892-01). Nella specie, però, i ricorrenti, lungi dal prospettare tale evenienza, si dolgono della carenza della sola prova -l’atto avente forma scritta -che sarebbe stata idonea a provare la sussistenza del ‘ pactum fiduciae ‘.
Parimenti non conferente è il riferimento all’art. 115 cod. proc. civ., norma che sancisce il principio secondo cui il giudice decide ‘ iuxta alligata et probata partium ‘, giacché la sua violazione ‘può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli’ (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640192-01; in senso conforme Cass. Sez. Un., sent. 30 settembre 2020, n. 20867, Rv. 659037-02).
9.1.2. Ciò detto, deve sottolinearsi che neppure sussiste la possibilità di accogliere il motivo, ritenendo che esso -nella sostanza -prospetti un vizio di sussunzione, censurando, in particolare, la sentenza impugnata per aver ricondotto al modello astratto del negozio fiduciario una fattispecie concreta priva di un suo connotato caratteristico, ovvero la necessità della forma scritta del ‘ pactum fiduciae ‘.
Difatti, anche riguardato sotto questo specifico profilo, il motivo si palesa inammissibile.
Innanzitutto, perché non coglie, né qui si confronta con la ‘ ratio decidendi ‘ ( donde già sotto questo profilo la sua inammissibilità; cfr. Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01; in senso conforme Cass. Sez. 6-3, ord. 3 luglio 2020, n. 13735, Rv. 658411-01; Cass. Sez. 2, ord. 9 aprile 2024, n. 9450, Rv. 670733-01), trascurando di considerare che la sentenza impugnata, in definitiva, si disinteressa del ‘perfezionamento’ del negozio fiduciario, muovendo, anzi, dall’assunto che esso no n sarebbe stato opponibile ai COGNOME, in quanto terzi acquirenti di buona fede. Il riferimento all’intestazione fiduciaria del bene, in capo a NOME COGNOME, è, viceversa, valorizzato unicamente allo scopo di dimostrare l’avvenuto acquisto ‘ ad usucapionem ‘ da parte dei familiari di NOME COGNOME (e, in particolare, il loro ‘ animus possidendi uti domini ‘), ma ciò, non di certo, in virtù dell’adempimento di un’obbligazione nascente dal ‘ pactum fiduciae ‘.
Stando così le cose, dunque, e cioè non essendo la ‘ ratio decidendi ‘ della sentenza impugnata l’affermazione di un acquisto a titolo derivativo compiutosi per il tramite di un negozio fiduciario, del tutto inutile risulta interrogarsi sui ‘requisiti’ che esso avrebbe dovuto possedere.
9.1.3. Ma vi è più.
La sentenza impugnata afferma che era stata la decisione del primo giudice, all’esito dell’escussione dei testi, a qualificare la donazione intercorsa tra NOME COGNOME e la figlia NOME COGNOME quale contratto ‘ simulato per interposizione fittizia della persona donataria’, ovvero ‘più probabilmente’, come ‘ un negozio fiduciario’ (mentre nel ricorso si addebita tale duplice qualificazione alla Corte territoriale). Orbene, di fronte a tale alternativa, gli odierni ricorrenti avrebbero dovuto dedurre che quanto oggi lamentano fosse già stato prospettato con l’ atto d’ appello, mentre -come emerge dallo stesso contenuto dell’esposizione del fatto con il loro gravame essi non sollevarono affatto la questione della mancanza di forma scritta del ‘ pactum fiduciae ‘ , ma insistettero (come emerge, in particolare, dall’ultima proposizione della pag. 11 del ricorso ) sulla qualificazione in termini di tolleranza e di cortesia ‘ iure commodati ‘ dell ‘altrui detenzione.
Il tutto, infine, non senza evidenziare -a conferma ulteriore dell’inammissibilità del presente motivo che i ricorrenti non si dolgono né del carattere apparente della motivazione della sentenza d’appello ( per avere essa condiviso la prospettazione, già operata dal primo giudice, delle due alternative: quella della simulazione e quella del negozio fiduciario). Così come nemmeno rivolgono censure contro la qualificazione della donazione in termini di contratto simulato, che avrebbero invece dovuto criticare, integrando essa -a torto o a ragione -una ‘ ratio decidendi ‘ alternativa, già in base all’impostazione del primo giudice.
9.2. Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
9.2.1. Esso, infatti, sebbene prospetti la violazione dell’art. 1158 cod. civ., contesta, in realtà, l’apprezzamento che il giudice di merito ha fatto della prova dell’usucapione. Donde, allora, la necessità qui di ribadire che la violazione di legge ‘consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità’ ( cfr. ‘ ex multis ‘, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03; Cass. Sez. 1, ord. 14 gennaio 2019, n. 640, Rv. 652398-01; Cass. Sez. 1, ord. 5 febbraio 2019, n. 3340, Rv. 652549-02), e ciò in quanto il vizio di sussunzione ‘postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso ‘ , sicché è estranea alla sua denuncia ‘ ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito’ (Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414 -01; in senso analogo, più di recente, Cass. Sez. 3, ord. 16 luglio 2024, n. 19651, Rv. 671812-01). Ne consegue, quindi, che il ‘discrimine tra l’ipotesi di violazione di legge in senso proprio a causa dell ‘ erronea ricognizione della fattispecie astratta normativa e l ‘ ipotesi della erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest ‘ ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa’ (così, in motivazione, Cass. Sez., Un., sent. 26 febbraio 2021, n. 5442).
Inammissibile, infine, è pure il dedotto vizio di motivazione, ormai ravvisabile -dopo la modifica apportata all’art. 360 cod.
proc. civ. dall’art. 54, comma 1, lett. b), del decreto -legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile ‘ ratione temporis ‘ al presente giudizio) -solo quando la parte motiva della sentenza si collochi sotto la soglia del ‘minimo costituzionale’ (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonché, ‘ ex multis ‘, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 1, ord. 30 giugno 2020, n. 13248, Rv. 658088-01). Tale vizio, dunque, ricorre esclusivamente nella ‘quadruplice’ ipotesi individuata dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un., sent. n. 8053 del 2014, cit .), ovvero: ‘la «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico» e la «motivazione apparente»; il «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e la «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile»’ (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 5 marzo 2024, n. 5792, al § 10.9, pag. 24), nessuna delle quali, è sussistente nel caso che occupa, ma, a ben vedere, neppure è idoneamente prospettata. Difatti, nel caso in esame, il (preteso) vizio motivazionale è denunciato richiamando le risultanze dei documenti in atti, ovvero i certificati di residenza di NOME COGNOME COGNOME e i verbali dell’assemblea condominiale del condominio di INDIRIZZO. Ma una simile censura è formulata in spregio al principio secondo cui la rituale prospettazione del vizio di motivazione presuppone che esso ‘emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata’ (Cass. Sez. Un., sent. n. 8053 del 2014, cit .), vale a dire ‘prescindendo dal confronto con le risultanze processuali’ (così, tra le molte, Cass. Sez. 1, ord. 20 giugno 2018, n. 20955, non massimata, nonché Cass. Sez. 1, ord. 3 marzo 2022, n. 7090, Rv. 664120-01), essendo il vizio di motivazione, ormai, solo
‘testuale’ (come rammenta, da ultimo, in Cass. Sez. Un., sent. n. 5792 del 2024, cit ., nuovamente al § 10.9.).
In conclusione, il ricorso è inammissibile.
Nulla va disposto in relazione alle spese del presente giudizio di legittimità, essendo rimasti solo intimati i COGNOME, il COGNOME COGNOME e la curatela fallimentare.
A carico dei ricorrenti, stante la declaratoria di inammissibilità del ricorso, sussiste l’obbligo di versare, al competente ufficio di merito, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo un accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cas s. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 65719801), ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della