Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 8704 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 8704 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 02/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso 15949-2020 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE NOME, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, nello studio dell’AVV_NOTAIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’AVV_NOTAIO
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO , nello studio dell’AVV_NOTAIO, rappresentato e difeso dall ‘AVV_NOTAIO
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 467/2020 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 04/02/2020;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 27.9.2000 il RAGIONE_SOCIALE evocava in giudizio il RAGIONE_SOCIALE innanzi il Tribunale di RAGIONE_SOCIALE, invocando l’accertamento dell’occupazione senza titolo, da parte dell’ente di gestione convenuto, di un area in fregio al lungomare e la condanna al rilascio della stessa, nonché al pagamento di una indennità per la sua occupazione ed al risarcimento del danno.
Resisteva il RAGIONE_SOCIALE, eccependo l’usucapione dell’area in contestazione. L’ente di gestione proponeva inoltre separato giudizio, poi riunito al primo, introdotto dal RAGIONE_SOCIALE, per l’accertamento della prescrizione dei diritti dell’ente locale.
Con sentenza n. 1126/2006 il Tribunale accoglieva la domanda del RAGIONE_SOCIALE, rigettando l’eccezione di usucapione del RAGIONE_SOCIALE, limitando tuttavia la condanna di quest’ultimo al solo ultimo quinquennio, in accoglimento dell’eccezione di prescrizione sollevata dal predetto ente di gestione.
Con sentenza n. 142/2013 la Corte di Appello di Bologna riformava la decisione di prime cure, rigettando la domanda proposta dal RAGIONE_SOCIALE e condannandolo alle spese del doppio grado di giudizio.
Con sentenza n. 17128/2015 la Corte di Cassazione cassava la pronuncia di secondo grado, rinviando la causa alla Corte di Appello di Bologna, in diversa composizione.
Quest’ultima, con la sentenza oggi impugnata, n. 467/2020, rigettava il gravame originariamente proposto dal RAGIONE_SOCIALE avverso la decisione di prime cure, confermandola.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione il RAGIONE_SOCIALE, affidandosi a sette motivi.
Resiste con controricorso il RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE.
Con atto del 30.12.2021 l’AVV_NOTAIO rinunciava al mandato difensivo assunto nell’interesse del RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE.
In prossimità dell’adunanza camerale, ambo le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la nullità della sentenza e la violazione o falsa applicazione degli artt. 116, 383, 384 e 394 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe pronunciato, in sede di rinvio, senza attenersi al principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione. Quest’ultima avrebbe infatti cassato la decisione assunta dal giudice di appello in relazione ai soli motivi secondo e terzo proposti dal RAGIONE_SOCIALE, concernenti l’omessa valutazione della rinuncia implicita del RAGIONE_SOCIALE ad avvalersi dell’eccezione di usucapione, ritenendo assorbiti gli altri, concernenti la dimostrazione del possesso utile ai fini del riconoscimento dell’usucapione. Ad avviso del RAGIONE_SOCIALE odierno ricorrente, la Corte di Appello, in sede di rinvio, avrebbe deciso ritenendosi erroneamente vincolata ad interpretare la missiva inviata dal RAGIONE_SOCIALE al RAGIONE_SOCIALE in termini di rinuncia tacita ad avvalersi dell’usucapione, mentre la Suprema Corte aveva cassato la decisione di appello solo perché la stessa non conteneva una motivazione ritenuta sufficientemente appagante in relazione alla sussistenza, o meno, della predetta rinuncia tacita. Il giudice del rinvio, dunque, avrebbe dovuto verificare se si potesse configurare, o meno, rinuncia tacita ad avvalersi dell’usucapione, valutando liberamente il contenuto della missiva di cui anzidetto.
La censura è infondata.
Va premesso che ‘Il giudice di rinvio è vincolato al principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione in relazione ai punti decisivi non congruamente valutati dalla sentenza cassata e, se non può rimetterne in discussione il carattere di decisività, conserva il potere di procedere ad una nuova valutazione dei fatti già acquisiti e di quegli altri la cui acquisizione si renda necessaria in relazione alle direttive espresse dalla sentenza di annullamento’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 17779 del 22/07/2013, Rv. 627553; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3150 del 02/02/2024, Rv. 669995). Ne consegue che ‘I limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384, comma 1, c.p.c., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua potestas iudicandi, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 448 del 14/01/2020, Rv. 656830; conf. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 17240 del 15/06/2023, Rv. 667851 e altre).
Nel caso di specie la Corte di Appello, conformandosi ai principi dianzi richiamati, ha tenuto conto della portata del rinvio operato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 17128/2015, richiamandone i passaggi salienti in apertura di motivazione. In particolare, il giudice del rinvio ha evidenziato che questa Corte aveva cassato la prima decisione della Corte distrettuale affermando:
1) da un lato, che ‘… suscita perplessità la decisione del giudice di secondo grado che ha riformato la sentenza del Tribunale di RAGIONE_SOCIALE pur rilevando, quanto all’usucapione, che erano indiscutibili i fondamentali difetti delle due testimonianze stigmatizzati dal primo giudice’ ed affermando che ‘… appare dubbio possa configurarsi il mantenimento di una occupazione in base a possesso utile ai fini di usucapione risultando invece una contestata detenzione … non tanto di un’area ben determinata quanto di manufatti quali recinzioni, scivolo di accessi ai garages’ ;
2) dall’altro lato, che ‘… in ogni caso la riforma della prima sentenza necessitava di una più appagante motivazione in relazione alla rinunzia implicita ad avvalersi della usucapione in relazione alla proposta di acquisto formulata, dopo il periodo della asserita maturata usucapione’ (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata).
La Corte bolognese poi, dato atto che la Corte di Cassazione, nel rinviare la causa per un nuovo esame, aveva affermato il principio secondo cui ‘per la configurabilità del possesso ad usucapionem è necessaria la sussistenza di un comportamento continuo, e non interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo all’uopo previsto dalla legge, un potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di uno ius in re aliena (ex plurimis, Cass. 9 agosto 2001 n. 11000), un potere di fatto, corrispondente al diritto reale posseduto, manifestato con il compimento puntuale di atti di
possesso conformi alla qualità e alla destinazione della cosa e tali da rilevare, anche esternamente, una indiscussa e piena signoria sulla cosa stessa contrapposta all’inerzia del titolare del diritto (Cass. 11 maggio 1996 n. 4436, Cass. 13 dicembre 1994 n.10652)’ (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata).
Su tali premesse, la Corte felsinea ha nuovamente esaminato la fattispecie e valutato le risultanze istruttorie, ed ha ritenuto, in condivisione con l’accertamento a suo tempo condotto dal Tribunale, che mancasse non solo la prova dell’accessione del possesso ex art. 1146 c.c., ma anche quella della coincidenza dell’estensione dell’area e della sussistenza del requisito dell’animus possidendi, alla luce del contenuto della missiva del 5.6.1992, inviata da RAGIONE_SOCIALE, dante causa del RAGIONE_SOCIALE, al RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, con la quale la società aveva chiesto di poter acquistare la proprietà dell’area in contestazione (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata). Simile apprezzamento in fatto non eccede i limiti della statuizione della Corte di Cassazione, poiché la prima decisione della Corte di Appello era stata cassata proprio sui passaggi motivazionali evidenziati dal giudice del rinvio.
Non si configura, quindi, né una violazione del principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione, né una decisione assunta travalicando i confini del nuovo esame devoluto al giudice del rinvio dalla sentenza rescindente.
Con il secondo motivo, la parte ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c., 1141, 1146 e 2697 c.c., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto non provata l’eccezione di usucapione sollevata dal RAGIONE_SOCIALE, sia in relazione alla continuità della relazione con la
res , sia con riguardo alla precisa estensione dell’area posseduta, senza avvedersi che il RAGIONE_SOCIALE non aveva mai contestato né la prima, né la seconda, delle anzidette circostanze, e comunque senza valutare correttamente la risultanze documentali allegate agli atti del giudizio di merito, evidenzianti, per stessa ammissione dell’ente locale, l’accessione nel possesso e la precisa individuazione dell’area posseduta dal RAGIONE_SOCIALE.
La censura è inammissibile.
La Corte di Appello, come già detto rimanendo nell’ambito dell’oggetto devolutole dalla sentenza di cassazione, ha nuovamente esaminato la fattispecie concreta, ritenendo non conseguita la prova dell’accessione del possesso, e dunque della sussistenza del tempo utile ai fini dell’usucapione; ha poi ravvisato l’incertezza nella individuazione dell’esatta consistenza dell’area di cui è causa; ed infine, ha valorizzato il contenuto della missiva inviata nel 1992 da RAGIONE_SOCIALE, dante causa del RAGIONE_SOCIALE, al RAGIONE_SOCIALE, ravvisando in essa una condotta incompatibile con l’affermazione del conseguimento della proprietà dell’area per usucapione. Trattasi di valutazione di fatto, che la parte ricorrente attinge contrapponendo, alla ricostruzione del fatto e delle prove prescelta dal giudice di merito, una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui ‘L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il
giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).
Per quanto concerne la motivazione della sentenza impugnata, infine, essa non è viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica, ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830, nonché, sull’apparenza, in motivazione, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023,). La Corte di Appello, infatti, ha dato atto che la missiva del 1992 era successiva alla revoca della concessione con contestuale ordine di demolizione di quanto realizzato, avvenuta nel 1961; alla contestazione, da parte del RAGIONE_SOCIALE, dell’occupazione della proprietà comunale destinata ad uso pubblico, avvenuta nel 1965; alla comunicazione, da parte di RAGIONE_SOCIALE, della intervenuta demolizione delle opere realizzate sull’area in contestazione, avvenuta nel 1989; ed alla nuova intimazione, da parte del RAGIONE_SOCIALE, della demolizione delle opere già eliminate, con atto del
1990 oggetto di impugnazione al Tribunale Amministrativo Regionale territorialmente competente. Su tali premesse, il giudice del rinvio ha ravvisato la contestazione della detenzione dell’area di cui si discute da parte di RAGIONE_SOCIALE ed ha rilevato che, in ogni caso, quest’ultimo soggetto non aveva dimostrato né la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’ animus possidendi , né, comunque, di aver esercitato un potere di fatto esteso all’intera area oggetto della domanda (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata).
Con il terzo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2937 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
Con il quarto motivo, denunzia invece l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione agli artt. 2937 c.c. e 360, primo comma, n. 5, c.p.c. Con dette doglianze, trattate congiuntamente, il RAGIONE_SOCIALE ricorrente si duole che la Corte di Appello abbia erroneamente ritenuto che la missiva inviata dalla RAGIONE_SOCIALE al RAGIONE_SOCIALE contenesse il riconoscimento della pretesa dell’ente locale. Ad avviso del ricorrente, invece, in detta missiva si precisava espressamente che la proposta veniva formulata al solo scopo di dirimere il contenzioso esistente tra le parti, e dunque senza alcun intento di riconoscere la bontà delle pretese del RAGIONE_SOCIALE sull’area di cui è causa.
Le esposte censure, suscettibili di esame congiunto anche perché trattate congiuntamente dalla parte ricorrente, sono inammissibili per le stesse ragioni già esposte in relazione al secondo motivo. Anche in questo caso, infatti, la ricorrente sollecita una revisione del giudizio di fatto operato dalla Corte distrettuale, proponendo una interpretazione di un documento (la missiva del 1992 inviata da RAGIONE_SOCIALE al RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE) diverso, ed alternativo, a quello prescelto dal giudice di merito.
Peraltro, occorre evidenziare che la Corte di Appello, nel confermare l’interpretazione del documento in esame già fatta propria dal Tribunale di RAGIONE_SOCIALE, ne ha esaminato il contenuto, evidenziando che nella lettera era stata proposto l’acquisto dell’area occupata ed era stata allegata una planimetria, sottoscritta dal legale rappresentante della società RAGIONE_SOCIALE, nella quale lo spazio oggetto di causa era definito come ‘area demaniale occupata’ (cfr . pag. 7 della sentenza impugnata).
Con il quinto motivo, la parte ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 112, 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
Con il sesto motivo, lamenta invece l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione agli artt. 2697 c.c. e 360, primo comma, n. 5, c.p.c.
E con il settimo motivo, infine, si duole della nullità della sentenza e della violazione o falsa applicazione degli artt. 24, 111 Cost. e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. Con tali censure, trattate congiuntamente, il RAGIONE_SOCIALE ricorrente lamenta che la Corte di Appello abbia erroneamente ritenuto conseguita la prova del quantum del danno da occupazione sine titulo , basando la propria decisione sui valori indicati nella perizia di parte depositata dall’ente locale, costituente al massimo un semplice indizio, e non certo una prova, e dunque senza indicare in modo adeguato le ragioni poste a base del proprio convincimento.
Queste ultime censure, suscettibili di esame congiunto anche perché trattate congiuntamente dalla parte ricorrente, sono inammissibili.
Va considerato che la sentenza impugnata è stata pronunciata dalla Corte di Appello in sede di rinvio, a seguito di sentenza con la quale la
Corte di Cassazione aveva accolto due motivi del ricorso proposto dall’ente di gestione avverso la prima decisione della Corte distrettuale, dichiarando assorbiti i restanti.
Il RAGIONE_SOCIALE odierno ricorrente, nel riproporre in questa sede le contestazioni sulla determinazione del quantum dell’indennità di occupazione, non dimostra che esse fossero state coltivate in sede di legittimità. Anzi, nel riassumere i motivi di ricorso a suo tempo proposti in sede di legittimità, la parte ricorrente non dà atto che, tra di essi, fosse compresa anche la questione di cui si discute (cfr. pag. 6 del ricorso). Di essa, peraltro, non fa alcuna menzione la sentenza impugnata, onde la parte ricorrente, per poterla introdurre in questa sede, avrebbe dovuto dimostrare che essa fosse stata ritualmente coltivata, sia mediante proposizione di motivo di ricorso, in occasione della impugnazione della prima decisione assunta dalla Corte distrettuale, poi cassata da questa Corte con la sentenza n. 17128/2015, sia in sede di rinvio. Nella mancanza di tali precisazioni, la censura oggi introdotta difetta del richiesto grado di specificità e va ritenuta nuova, e inammissibile, poiché coperta dal giudicato interno derivante dalla mancata impugnazione, sul punto, della decisione a suo tempo assunta dal Tribunale.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P.R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 5.000,00 per compensi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, iva, cassa avvocati, ed agli esborsi, liquidati in € 200,00 con accessori tutti come per legge.
Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda