Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 442 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 442 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/01/2024
O R D I N A N Z A
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME COGNOME e COGNOME NOME , rappresentate e difese per procura alle liti in calce al ricorso da ll’ Avvocato NOME COGNOME, elettivamente domiciliate presso il suo studio in Roma, INDIRIZZO pal. D.
Ricorrenti
contro
Comune di Ancona , in persona del sindaco, rappresentato e difeso per procura alle liti in calce al controricorso dagli Avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, INDIRIZZO
Controricorrente
avverso la sentenza n. 1373/2018 della Corte di appello di Ancona, depositata l’11. 7. 2018 .
Udita la relazione della causa svolta dal consigliere NOME COGNOME nella camera di consiglio del 26. 10. 2023.
Fatti di causa e ragioni della decisione
Con sentenza n. 1373 dell’11. 7. 2018 la Corte di appello di Ancona confermò la decisione di primo grado che aveva respinto la domanda di usucapione proposta da COGNOME COGNOME con atto di citazione del 2005, avente ad oggetto l’area di sedime di un capannone artigianale ed il frustolo di terreno adiacente sito nel comune di Ancona in INDIRIZZO ed accolto la domanda riconvenzionale del comune di Ancona di acquisto del capannone per accessione.
La Corte di appello motivò la sua decisione affermando che il terreno preteso dal COGNOME non era suscettibile di acquisto per usucapione in quanto bene pubblico, essendo compreso in zona dichiarata di interesse pubblico con d.m.
2. 1952 ed oggetto, con successivo d.m. 20. 12. 1954, di piano paesistico, nonché destinato dal piano regolatore generale del comune, approvato nel 1965, e da quelli successivi del 1976 e 1993 , a parco pubblico, cioè a vantaggio della intera collettività.
Per la cassazione di questa sentenza, con atto notificato il 23. 4. 2019, hanno proposto ricorso COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, quali eredi di COGNOME NOMECOGNOME sulla base di tre motivi.
Il comune di Ancona ha notificato controricorso.
La causa è stata avviata in decisione in camera di consiglio.
Parte ricorrente ha depositato memoria.
Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 822-831, 1158 e 934 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per avere dichiarato il terreno oggetto della domanda non suscettibile di acquisto per usucapione, qualificandolo come bene pubblico, senza ulteriore specificazione, sulla base del solo presupposto del fatto che il d.m. 1. 2. 1952 aveva dichiarato la zona del INDIRIZZO, in cui esso è ubicato, di interesse pubblico e della circostanza che il piano regolatore generale prevedeva la sua destinazione a verde pubblico. Si assume che tale conclusione è errata, in quanto, ai fini dell’inquadramento di un bene nell’ambito del patrimonio indisponibile di un ente territoriale, non è sufficiente la mera previsione della sua destinazione al
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soddisfacimento di un interesse pubblico, ma è invece necessario, in primo luogo, che esso appartenga all’ente pubblico e, in secondo luogo, che alla destinazione formale segua l’effettiva e concreta utilizzazione del bene a tale scopo, profili entrambi ignorati dalla Corte di appello e comunque smentito, il secondo, dalla attuale occupazione del terreno da parte dei ricorrenti.
Il motivo è infondato.
La Corte di appello di Ancona ha dichiarato che il terreno oggetto di causa non era suscettibile di acquisto per usucapione in quanto bene pubblico, non solo perché destinato dai piani regolatori generali che si sono succeduti nel tempo, dal 1965 al 1993, a verde pubblico, ma in ragione del fatto che, a prescindere da ogni questione relativa ai titoli di proprietà, due decreti ministeriali, dell’ 1. 2. 1952 e del 20. 12. 1954, avevano dichiarato la zona denominata Passetto di interesse pubblico, per le sue intrinseche connotazione di tipo ambientale e paesaggistico, sicché essa doveva ritenersi appartenere al patrimonio ambientale e naturale della collettività.
Questa conclusione è corretta, dovendosi ritenere il richiamo fatto dalla sentenza alla dichiarazione di interesse pubblico della zona in cui è compreso il terreno per cui è causa ed ai relativi decreti del Ministero dei beni culturali citati riferito al vincolo paesaggistico ed ambientale di cui alla legge 29. 6. 1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze naturali, come risulta dalla precisazione fatta dalla Corte di appello in merito alla natura paesaggistica o ambientale dell’ interesse pubblico in questione, nonché come anche dedotto dal comune controricorrente.
Ora, la presenza di un atto formale da parte della pubblica amministrazione che conferisce ad un determinato bene la qualità di bene paesaggistico comporta senz’altro il riconoscimento della natura demaniale del bene stesso ( Cass. n. 4188 del 2021 ).
L’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004 ( codice dei beni culturali e del paesaggio ) stabilisce che il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e paesaggistici; a sua volta il successivo art. 53 dichiara che tali beni formano il demanio culturale, estendendo a detti beni la disciplina già posta dall’art. 823 e 824 cod. civ., secondo cui essi, anche qualora appartengano ad enti pubblici
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territoriali, non possono essere alienati né formare oggetto di diritti di terzi. Ne consegue che, essendo sottoposti ad un regime giuridico vincolato, i beni appartenenti al demanio culturale non sono suscettibili di essere acquisti per usucapione ( Cass. n. 12668 del 2023 ).
Sul tema merita poi precisare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, al fine di qualificare, in base alle sue intrinseche caratteristiche di interesse artistico, storico ed archeologico, ovvero, può aggiungersi paesaggistico, un determinato bene come appartenente al demanio culturale il provvedimento amministrativo che attesti l’interesse dello stesso è necessario solo nel caso in cui il bene sia di proprietà privata, mentre per l’assoggettamento del bene alla proprietà pubblica è sufficiente la pr esenza dell’interesse storico, artistico e archeologico, indipendentemente dal fatto che abbia costituito o meno oggetto di accertamento, atteso che i beni aventi tali caratteristiche sono considerati di per sé culturali e l’atto impositivo ha natura meram ente dichiarativa ( Cass. n. 25690 del 2018; Cass. S.U. n. 401 del 1977; Cass. S.U. n. 6898 del 2003 ).
Risulta pertanto irrilevante, ai fini della qualificazione del bene in questione come bene pubblico, la circostanza addotta dal ricorrente della assenza di una destinazione effettiva e concreta del bene all’interesse pubblico o alla collettività, essendo tale requisito richiesto dalla legge soltanto per il patrimonio indisponibile per destinazione ( art. 826, comma 3, cod. civ. ), non anche per i beni demaniali.
Il secondo motivo di ricorso denuncia vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dal fatto che il terreno oggetto di causa non era compreso tra quelli acquistati dal comune di Ancona in data 10. 9. 1965, come erroneamente ritenuto dal giudice di primo grado.
Il terzo motivo di ricorso denuncia vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dalla questione circa l’acquisto per accessione da parte del comune del capannone esistente sul terreno, nonc hé violazione e falsa applicazione dell’art. 934 cod. civ.
Entrambi i motivi sono infondati in quanto le questioni da essi poste sono state implicitamente ritenute assorbite e quindi rigettate dalla Corte di appello, che,
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nel confermare il rigetto della domanda di usucapione, ha affermato la natura pubblica del terreno per cui è causa e ritenuto irrilevante la questione relativa ai titoli di proprietà.
Il ricorso va pertanto respinto.
Le spese del giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna in solido le ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in euro 3.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.
Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 26 ottobre 2023.