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Uso della cosa comune: limiti e servitù di veduta

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 21117/2024, ha chiarito i limiti dell’uso della cosa comune. Nel caso di una lite tra fratelli comproprietari di un terreno, è stato stabilito che l’apertura di finestre e terrazzi da una proprietà esclusiva su un’area comune non rientra nell’uso consentito dall’art. 1102 c.c., ma costituisce l’imposizione di una servitù di veduta. Tale servitù è illegittima se non costituita con il consenso di tutti i comproprietari e in forma scritta, pertanto la Corte ha confermato l’ordine di rimozione delle opere.

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Pubblicato il 8 dicembre 2025 in Diritto Civile, Diritto Immobiliare, Giurisprudenza Civile

Uso della Cosa Comune: Quando la Ristrutturazione Viola i Diritti degli Altri Proprietari

L’uso della cosa comune è un tema centrale nel diritto immobiliare, spesso fonte di complesse controversie. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 21117/2024) offre spunti cruciali per comprendere i confini tra l’utilizzo legittimo di un bene condiviso e l’imposizione di un peso illecito a danno degli altri comproprietari. Il caso analizzato riguarda la ristrutturazione di un edificio privato con affaccio su un terreno in comproprietà, che ha portato alla realizzazione di opere lesive dei diritti del contitolare.

I Fatti del Caso: Una Ristrutturazione Contesa

La vicenda nasce dalla lite tra due fratelli, comproprietari di un’area risultante dalla demolizione di un vecchio fabbricato. Uno dei due, proprietario esclusivo di un edificio adiacente, durante i lavori di ristrutturazione, realizzava sull’area comune un marciapiede e delle fosse biologiche a servizio della sua abitazione. Inoltre, apriva nuove finestre e un terrazzo aggettante che si affacciavano direttamente sul terreno condiviso.

Il fratello comproprietario si opponeva a tali interventi, dando inizio a un lungo contenzioso. Mentre il Tribunale di primo grado ordinava la rimozione del marciapiede e delle fosse biologiche ma rigettava altre domande, la Corte d’Appello riformava parzialmente la decisione. I giudici di secondo grado, in particolare, dichiaravano l’illegittimità anche delle finestre e del terrazzo, qualificandoli come una servitù di veduta non autorizzata sul fondo comune e condannando i proprietari alla loro chiusura o regolarizzazione.

L’Uso della cosa comune e i Motivi del Ricorso in Cassazione

I proprietari dell’edificio ristrutturato hanno impugnato la sentenza d’appello dinanzi alla Corte di Cassazione, basando il loro ricorso su diversi motivi. Sostenevano, in sintesi, che la realizzazione delle opere sul terreno comune (marciapiede e fosse biologiche) costituisse un legittimo uso della cosa comune, più intenso ma consentito dall’articolo 1102 del Codice Civile. Per quanto riguarda le vedute, affermavano che la normativa sulla comunione dovesse prevalere su quella relativa alle distanze legali. Infine, lamentavano la condanna al pagamento di gran parte delle spese legali e invocavano il principio del concorso di colpa del fratello, che a loro dire avrebbe prestato un ‘consenso tacito’ alle opere, salvo poi cambiare idea a seguito di dissapori personali.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, fornendo chiarimenti fondamentali sulla distinzione tra uso della cosa comune e costituzione di servitù.

La Corte ha stabilito un principio cardine: l’apertura di vedute da una proprietà esclusiva verso uno spazio comune (come un cortile) non può essere considerata una semplice modalità di uso della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c. Questo articolo consente a ciascun partecipante di servirsi del bene condiviso, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne parimenti uso. Tuttavia, creare una veduta impone un peso permanente sul fondo comune, limitandone la privacy e le possibilità di utilizzo (ad esempio, non si potrebbe più costruire in aderenza). Questa imposizione costituisce una vera e propria servitù di veduta.

Di conseguenza, non si applica la disciplina più permissiva della comunione, ma le norme specifiche sulle distanze e sulle servitù (in particolare l’art. 905 c.c.). Per costituire legittimamente una tale servitù, è necessario il consenso unanime di tutti i comproprietari, manifestato attraverso un atto scritto, come previsto dall’art. 1350 c.c. per la costituzione di diritti reali. Il semplice ‘consenso tacito’ o i facta concludentia sono del tutto irrilevanti.

Anche per quanto riguarda il marciapiede e le fosse biologiche, la Corte ha confermato che la loro realizzazione per il vantaggio esclusivo di un’altra proprietà eccede i limiti dell’uso lecito della cosa comune. Allo stesso modo, è stata respinta la tesi del concorso di colpa del creditore (art. 1227 c.c.), poiché l’azione per la tutela della proprietà (come l’actio negatoria servitutis) ha natura reale e non risarcitoria, rendendo inapplicabile tale disciplina.

Le Conclusioni: Principi Chiave per i Comproprietari

Questa ordinanza riafferma con forza alcuni principi essenziali per chiunque si trovi in una situazione di comproprietà:

1. Distinzione tra Uso e Servitù: L’uso della cosa comune, anche se più intenso, è consentito. La creazione di un peso permanente a favore della propria unità immobiliare esclusiva (come una veduta) è invece una servitù e richiede il consenso scritto di tutti.
2. Forma Scritta Obbligatoria: I diritti reali, incluse le servitù, non possono essere costituiti tramite comportamenti concludenti o accordi verbali. È indispensabile un contratto scritto.
3. Prevalenza delle Norme sulle Servitù: I rapporti tra proprietà individuali e beni comuni adiacenti sono regolati dalle norme sulle proprietà contigue o asservite, non solo da quelle sulla comunione.

In definitiva, la sentenza ribadisce che il diritto di ogni comproprietario incontra un limite invalicabile nel rispetto del pari diritto degli altri, impedendo che l’uso della cosa comune si trasformi in un abuso a danno della collettività.

Un comproprietario può aprire finestre o realizzare un terrazzo che si affaccia sul cortile comune?
No. Secondo la Corte di Cassazione, tale azione non costituisce un uso più intenso della cosa comune (art. 1102 c.c.), ma l’imposizione di una servitù di veduta. Questa è illegittima se non viene costituita con il consenso unanime e in forma scritta di tutti gli altri comproprietari, nel rispetto delle norme sulle distanze (art. 905 c.c.).

Il consenso tacito o la tolleranza di un comproprietario può legittimare la creazione di una servitù sul bene comune?
No. La costituzione di un diritto reale come la servitù richiede obbligatoriamente la forma scritta ‘ad substantiam’ (art. 1350 n. 4 c.c.). Pertanto, un consenso manifestato tramite comportamenti concludenti (facta concludentia) o una semplice tolleranza sono giuridicamente irrilevanti per creare una servitù.

La realizzazione di un marciapiede o di fosse biologiche sul terreno comune a esclusivo vantaggio della propria abitazione è un uso legittimo?
No. La Corte ha ritenuto che opere realizzate sull’area comune, ma a vantaggio di una proprietà esclusiva confinante, eccedono i limiti posti dall’art. 1102 c.c., in quanto alterano la destinazione del bene comune e ne compromettono il pari uso da parte degli altri comproprietari.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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