Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 16171 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 16171 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 18130-2024 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio degli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME tutti domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME
contro
ricorrenti –
Oggetto
Uso aziendale
– superminimo
– assorbibilità
R.G.N. 18130/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 18/03/2025
CC
avverso la sentenza n. 84/2024 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 07/02/2024 R.G.N. 1047/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/03/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
Fatti di causa
Il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda proposta dai lavoratori, tutti dipendenti a tempo indeterminato di Telecom Italia s.p.a., che lamentavano la illegittima riduzione da parte della datrice di lavoro dei rispettivi superminimi individuali assorbibili a decorrere dal gennaio 2018, accertava l’illegittimità degli assorbimenti della voce superminimo individuale operata dalla società datrice in compensazione con gli aumenti dei minimi tabellari e dell’Elemento Retributivo Separato ( da ora, ERS) di cui all’Accordo di programma del 23.11.2017 per il rinnovo del contratto collettivo Telecomunicazioni, ritenuto non comparabili e non equivalenti l’ERS e il superminimo individuale; per l’effetto condannava Telecom Italia s.p.a. alla ricostituzione della predetta voce goduta fino al gennaio 2018 ed alla restituzione delle somme indebitamente assorbite/trattenute dalla parte datoriale a partire dal febbraio 2018 nella misura per ciascuno in dispositivo quantificata.
La Corte d’appello di Milano ha confermato la decisione rigettando l’appello di RAGIONE_SOCIALE
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso Telecom RAGIONE_SOCIALE sulla base di tre motivi; la parte intimata ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo parte ricorrente deduce violazione o falsa applicazione dei principi giurisprudenziali in tema di assorbimento dei superminimi ed in tema di uso aziendale, nonché degli artt. 1362, comma 2, 2078 e 2697 c.c. con riferimento alla legit timità dell’assorbimento dei superminimi operato dalla società ed alla insussistenza di un uso aziendale e di un comportamento concludente della società nel senso di escludere l’assorbimento degli emolumenti in controversia.
Con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1373 e 2078 c.c. nonché dei principi giurisprudenziali in tema di disdettabilità dell’uso aziendale con riferimento alla legittimità del recesso intimato da Telecom Italia s.p.a. a fronte del quale la società aveva provveduto ad operare l’assorbimento per cui è causa. Sostiene che l’uso aziendale può essere superato da successiva pattuizione collettiva laddove lo stesso non è incorporato nel rapporto individuale e per l’effetto insuscettibile di essere modificato.
Con il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione del contratto collettivo Telecomunicazioni del 23.11.2017 che ha introdotto e disciplinato l’istituto dell’ERS, dell’art. 2120 c.c. e dell’art. 2697 c.c.; la sentenza impugnata è censurata nella parte in cui ha dichiarato la esistenza di un uso aziendale formatosi in conseguenza della condotta della società. Sostiene parte ricorrente che per escludere il meccanismo dell’assorbimento occorrerebbe un vero e proprio accordo novativo volto a derogare al principio della generale assorbibilità del superminimo.
Preliminarmente deve essere respinta la richiesta di trattazione in pubblica udienza formulata dalla società ed alla
quale hanno aderito i lavoratori, rientrando la valutazione degli estremi per la trattazione del ricorso in udienza pubblica ex art. 375, ultimo comma c.p.c., e, specificamente, della particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta, nella discrezionalità del collegio giudicante (Cass. n. 5533 del 2017; Cass. n. 26480 del 2020); il collegio ben può escludere, nell’esercizio di tale valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza proprio “in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare al caso di specie” (cfr. Cass. SS.UU. n. 14437 del 2018). Invero la presente fattispecie, secondo quanto si andrà ad evidenziare nell’esame dei motivi di ricorso, non richiede alcun intervento nomofilattico, proprio della pubblica udienza, potendo essere definita in applicazione di principi generali espressi da questa Corte di legittimità.
Tanto premesso, i motivi di ricorso per cassazione, esaminati congiuntamente per connessione, sono infondati.
5.1. Occorre innanzitutto rilevare che l’accertamento fattuale della reiterazione costante e generalizzata del comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, consistito nel mancato assorbimento del superminimo individuale in occasione di plurimi rinnovi contrattuali successivi, non costituisce oggetto di valida censura, del resto preclusa dal disposto dell’art. 360, comma 4, c.p.c. in tema di cd. doppia conforme.
5.2. Invero, secondo l’orientamento già espresso da questa Corte in relazione al disposto dell’art. 348 ter ultimo comma c.p.c., sostanzialmente trasfuso nella previsione di cui all’art. 360, comma 4, c.p.c., attualmente vigente, orientamento al quale si intende dare seguito, il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360
cod. proc. civ., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5947/2023; Cass. n. 26774/ 2019; Cass. n. 19001/2016; Cass. n. 5528/2014), come nello specifico non avvenuto.
5.3. Ciò posto, l’assunto dell’odierna ricorrente, secondo la quale ai fini dell’esclusione dell’assorbibilità del superminimo si richiedeva una comune volontà delle parti in tal senso, derogatoria della naturale assorbibilità dell’emolumento in oggetto, risulta privo di pregio alla luce della condivisibile giurisprudenza di legittimità che al fine della configurazione dell’uso aziendale esclude rilievo all’elemento volontaristico, ritenendo sufficiente il fatto oggettivo della reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti che si traduca in trattamento economico o normativo di maggior favore dovuto ai lavoratori. Per costante affermazione del giudice di legittimità, l’uso azienda le appartiene infatti al novero delle cosiddette fonti sociali – tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi, sia il regolamento d’azienda e che sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un’uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un’azienda – agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale. È stato in particolare precisato che ove la modifica “in melius” del trattamento dovuto ai lavoratori trovi origine nell’uso aziendale, ad essa non si applica né l’art. 1340 cod. civ.
che postula la volontà, tacita, delle parti di inserire l’uso o di
escluderlo – né, in generale, la disciplina civilistica sui contratti – con esclusione, quindi, di un’indagine sulla volontà del datore di lavoro e dei sindacati – né, comunque, l’art. 2077, comma secondo, cod. civ., con la conseguente legittimazione delle fonti collettive (nazionali e aziendali) di disporre una modifica “in peius” del trattamento in tal modo attribuito (Cass. n. 8342/2010, Cass. n. 5882/2010, Cass. n. 15489/2007); in conseguenza, salvaguardati i diritti quesiti, l’uso aziendale può essere modificato da un successivo accordo anche in senso peggiorativo per i lavoratori (Cass. n. 3296/2016).
5.4. Non vi è ragione di sottrarre a tali principi anche la regolazione del superminimo Se è vero infatti che costituisce ‘ius receptum’ l’affermazione per cui il cosiddetto superminimo, ossia l’eccedenza retributiva rispetto ai minimi tabellari, individualmente pattuito tra datore di lavoro e lavoratore, è normalmente soggetto al principio dell’assorbimento nei successivi miglioramenti contemplati dalla disciplina collettiva tranne che sia da questa diversamente disposto o che le parti abbiano attribuito all’eccedenza della retribuzione individuale la natura di compenso speciale strettamente collegato a particolari meriti o alla speciale qualità o maggiore onerosità delle mansioni svolte dal dipendente e sia quindi sorretto da un autonomo titolo, alla cui dimostrazione, alla stregua dei principi generali sull’onere della prova, è tenuto lo stesso lavoratore (Cass. n. 26017/2018; Cass. n. 14689/2012, Cass.19750/2008)- non si ravvisano ostacoli di ordine logico o giuridico al fatto che la naturale assorbibilità del superminimo possa venire meno per effetto di diversa pattuizione, individuale o collettiva, o anche in conseguenza di un uso aziendale, vale a dire della reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei
propri dipendenti che si traduca in trattamento economico o normativo di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti (individuali e collettivi). L’uso aziendale – che per costante affermazione del giudice di legittimità appartiene al novero delle cosiddette fonti sociali, tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi, sia il regolamento d’azienda e che sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un’uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un’azienda – agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale. Ne consegue che ove la modifica “in melius” del trattamento dovuto ai lavoratori trovi origine nell’uso aziendale, ad essa non si applica né l’art. 1340 cod. civ. – che postula la volontà, tacita, delle parti di inserire l’uso o di escluderlo – né, in generale, la disciplina civilistica sui contratti – con esclusione, quindi, di un’indagine sulla volontà del datore di lavoro e dei sindacati – né, comunque, l’art. 2077, comma secondo, cod. civ., con la conseguente legittimazione delle fonti collettive (nazionali e aziendali) di disporre una modifica “in peius” del trattamento in tal modo attribuito (Cass. n. 8342/2010, Cass. n. 5882/2010, Cass. n. 15489/2007); in conseguenza, salvaguardati i diritti quesiti, l’uso aziendale può essere modificato da un successivo accordo anche in senso peggiorativo per i lavoratori (Cass. n. 3296/2016).
5.5. Ciò posto ed in linea di principio, in ordine alla durata della vincolatività dell’uso aziendale deve convenirsi che esso non può vincolare ‘sine die’ la parte datoriale, impedendole, a fronte di tutti i successivi rinnovi contrattuali, l’esercizio di una facoltà comunque prevista nel contratto individuale. A riguardo può
farsi utile riferimento a quanto statuito da questa Corte in tema di contratto collettivo senza un termine predeterminato di efficacia. Il giudice di legittimità ha infatti affermato che esso non può vincolare per sempre le parti contraenti perché in tal caso finirebbe per essere vanificata la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione ve estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all’esigenza di evitare – nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto – la perpetuità del vincolo obbligatorio ( così Cass. n. 23105/2019).
5.6. Invero, anche nel caso dell’uso aziendale, la cristallizzazione del vincolo da esso scaturente finirebbe per non essere funzionale alle esigenze di una realtà socio-economica sulla quale l’uso aziendale è destinato ad incidere, per definizione mutevole nel tempo. Va quindi affermata, in linea di principio, la possibilità per la parte datoriale di ‘disdettare’ l’uso aziendale.
5.7. Tale possibilità, onde evitare che essa si traduca nella sottrazione al vincolo scaturente dall’uso, rimessa alla sostanziale discrezionalità del datore di lavoro, deve essere esercitata in conformità del principio di correttezza e buona fede ed in coerenza con le caratteristiche di fonte sociale pacificamente riconosciuta a tale strumento, destinato ad operare quale fonte eteronoma di regolazione del rapporto di lavoro. Ciò implica, innanzitutto, la necessità che la disdetta sia giustificata, vale a dire fondata su un sopravvenuto sostanziale
mutamento di circostanze rispetto all’epoca di formazione dell’uso aziendale quali, ad esempio, una rimodulazione del trattamento economico dei dipendenti scaturente dal rinnovo del contratto collettivo; implica, inoltre, la necessità di una sua formalizzazione, mediante dichiarazione della parte datoriale che espliciti le ragioni alla base della ‘disdetta’ medesima, diretta alla collettività dei lavoratori. Occorre, in altri termini che la volontà datoriale di disdettare l’uso aziendale sia resa in termini chiari ed univoci in modo da essere immediatamente percepibile dalla platea dei lavoratori. Viene qui in rilievo la considerazione della natura di fonte sociale dell’uso aziendale, destinata ad avere ricadute su interessi di carattere collettivo riferiti alla generalità dei lavoratori, i quali, per un’elementare esigenza di trasparenza e controllo, devono avere tempestiva ed adeguata conoscenza della volontà datoriale di ‘recedere’ dall’uso e delle ragioni che la sorreggono; ciò analogamente a quanto avviene di regola in ipotesi di disdetta del contratto collettivo mediante dichiarazione formale alla controparte sociale, contratto cui l’uso aziendale è assimilato quale fonte di regolazione della generalità dei rapporti di lavoro.
5.8. Con riferimento alla fattispecie in esame deve evidenziarsi che parte ricorrente non ha specificamente censurato l’affermazione della Corte di merito in ordine all’assenza nell’accordo di programma del 23.11.2017 di previsioni dalle quali potersi desumere, implicitamente o esplicitamente, il superamento dell’uso esistente o comunque la facoltà, per l’azienda, di provvedere all’assorbimento del superminimo in misura corrispondente ai nuovi elementi; neppure risulta validamente censurata l’altra affermaz ione, avente rilievo dirimente ai fini della decisione, circa la inconfigurabilità nella condotta aziendale di un comportamento qualificabile come
disdetta unilaterale. Tale accertamento di fatto, non oggetto di specifica censura, frutto di verifica istituzionalmente riservata al giudice di merito, accertamento ‘coperto’ dalla doppia conforme ex art. 360, comma 5 c.p.c., esclude in radice la legittimità della condotta datoriale di assorbimento in facto del superminimo ed esonera il Collegio dall’esame di ogni censura connessa alla comparabilità dell’ERS con l’emolumento (illegittimamente) assorbito dalla società.
5.9. Infine, inammissibili per genericità risultano le ulteriori censure articolate dalla società intese a contrastare la concreta liquidazione del quantum, in particolare sotto il profilo dell’indebito arricchimento che ne trarrebbero i lavoratori; parte ricorrente reitera infatti argomentazioni già formulate e disattese dal giudice di merito, non sorrette, in violazione dell’art. 366, comma 1 n. 6 c.p.c., dalla trascrizione o esposizione per riassunto del contenuto degli atti di riferimento nella parte di pertinenza; soprattutto la società ricorrente non mostra di confrontarsi specificamente con la valutazione di genericità di contestazione operata da Telecom in prime cure quale ritenuta dalla Corte di appello.
Al rigetto del ricorso segue il regolamento secondo soccombenza delle spese di lite e la condanna della ricorrente al raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma quater d.p.r. n. 115/2002, nella sussistenza dei relativi presupposti processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto Così deciso nell’adunanza camerale del 18 marzo 2025