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Uso aziendale: accordi scaduti ma pagati valgono

Una società metalmeccanica, dopo la scadenza di alcuni accordi aziendali, ha continuato a erogare i relativi benefici economici ai dipendenti, per poi decidere di interromperli. La Corte di Cassazione ha confermato le decisioni dei giudici di merito, stabilendo che tale comportamento reiterato costituisce un “uso aziendale”. Questo uso si integra nei contratti di lavoro individuali, trasformando la prassi in un obbligo vincolante per l’azienda. L’ordinanza chiarisce che il datore di lavoro non può unilateralmente revocare benefici consolidati attraverso una pratica costante e generalizzata.

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Pubblicato il 3 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Uso Aziendale: Quando la Prassi Diventa Legge per il Datore di Lavoro

Nel diritto del lavoro, non sempre ciò che è scritto in un contratto è l’unica fonte di obblighi. Esistono infatti comportamenti e prassi che, se reiterati nel tempo, possono acquisire forza di legge. È il caso dell’uso aziendale, un concetto fondamentale che la Corte di Cassazione ha recentemente ribadito con l’ordinanza n. 18741/2024. Questa decisione chiarisce che quando un’azienda continua a erogare benefici economici ai propri dipendenti anche dopo la scadenza formale degli accordi che li prevedevano, tale comportamento diventa un diritto acquisito per i lavoratori.

I Fatti del Caso: Dagli Accordi Scaduti alla Causa in Tribunale

Una società metalmeccanica si trovava vincolata da alcuni accordi collettivi aziendali a tempo determinato che prevedevano specifici emolumenti per i lavoratori. Anche dopo la naturale scadenza di questi accordi, l’azienda aveva continuato a corrispondere tali somme in busta paga. Successivamente, la società comunicava la volontà di recedere da quelli che considerava contratti tacitamente prorogati, interrompendo l’erogazione dei benefici.

Un lavoratore, ritenendo leso un suo diritto, si è opposto a questa decisione. Sia il Tribunale di primo grado sia la Corte d’Appello hanno dato ragione al dipendente, qualificando la condotta della società come un uso aziendale. Secondo i giudici, il comportamento costante, generalizzato e spontaneo del datore di lavoro aveva di fatto integrato i contratti individuali di lavoro con un trattamento di maggior favore, che non poteva più essere unilateralmente revocato.

L’Analisi della Cassazione e la Definizione di Uso Aziendale

L’azienda ha impugnato la decisione davanti alla Corte di Cassazione, sollevando diverse obiezioni, principalmente di natura procedurale. Sosteneva, tra le altre cose, che la motivazione della Corte d’Appello fosse carente e che i giudici avessero valutato erroneamente le prove, invertendo l’onere probatorio.

La Suprema Corte ha respinto tutti i motivi del ricorso, confermando in toto la validità del ragionamento dei giudici di merito. Gli Ermellini hanno colto l’occasione per ribadire i principi cardine in materia di uso aziendale:

1. Irrilevanza della volontà originaria: Non è necessario dimostrare che l’azienda intendesse trasformare la prassi in un obbligo perpetuo. Ciò che conta è il comportamento oggettivo, ovvero l’erogazione costante e generalizzata di un trattamento a tutti i dipendenti (o a una categoria di essi).
2. Integrazione nel contratto: L’uso aziendale si inserisce automaticamente nei contratti di lavoro individuali come una clausola contrattuale, diventando un diritto acquisito per il lavoratore.
3. Limiti del giudizio di Cassazione: La Corte ha ricordato che il suo ruolo non è quello di riesaminare i fatti o le prove, ma solo di verificare la corretta applicazione delle norme di diritto. Le critiche dell’azienda sulla valutazione delle prove sono state quindi giudicate inammissibili, in quanto miravano a ottenere un nuovo giudizio di merito.

Le Motivazioni della Decisione

Le motivazioni della Corte si fondano su un principio consolidato: la condotta del datore di lavoro, quando si traduce in una prassi consolidata, genera un legittimo affidamento nei lavoratori. Questo affidamento merita tutela giuridica. La Corte ha stabilito che la decisione dei giudici d’appello non presentava alcuna “motivazione apparente” o contraddittoria. Al contrario, era ben argomentata nel qualificare la continuazione dei pagamenti come una prassi che trascendeva la durata formale degli accordi collettivi. La società non è riuscita a provare che la prosecuzione dei pagamenti fosse legata a una volontà comune delle parti di prorogare gli accordi originari; al contrario, i fatti dimostravano un comportamento unilaterale e generalizzato del datore di lavoro, che è proprio la fattispecie che dà vita all’uso aziendale. Pertanto, una volta che la prassi si è consolidata, essa diventa parte integrante della retribuzione e non può essere eliminata se non con un nuovo accordo (individuale o collettivo) che la modifichi o la sostituisca.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche per Aziende e Lavoratori

L’ordinanza ha importanti conseguenze pratiche. Per le aziende, rappresenta un monito a gestire con attenzione le prassi interne, specialmente quelle relative a benefici economici. Un comportamento generoso ma non formalizzato può trasformarsi in un obbligo giuridico difficile da revocare. È essenziale che ogni concessione sia chiaramente definita nei suoi termini e nella sua durata, per evitare che si consolidi come uso aziendale. Per i lavoratori, questa sentenza è una conferma che i diritti possono nascere non solo da contratti scritti, ma anche da comportamenti concreti e reiterati. Una prassi favorevole, applicata a tutti per un tempo significativo, diventa un diritto acquisito che può essere difeso in sede legale.

Se un’azienda continua a pagare un bonus previsto da un accordo collettivo scaduto, questo crea un obbligo per il futuro?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, il comportamento costante e generalizzato del datore di lavoro nel continuare a erogare un beneficio economico, anche dopo la scadenza dell’accordo che lo prevedeva, costituisce un “uso aziendale”. Tale uso si integra nei contratti di lavoro individuali e diventa un obbligo vincolante per l’azienda.

È possibile impugnare in Cassazione una sentenza per una presunta errata valutazione delle prove da parte del giudice?
No. La Corte di Cassazione ha ribadito che il suo compito non è quello di riesaminare i fatti o di valutare nuovamente le prove, attività che spettano ai giudici di primo e secondo grado. Il ricorso in Cassazione è ammissibile solo per contestare la violazione o la falsa applicazione di norme di diritto, non per criticare l’apprezzamento dei fatti operato dal giudice di merito.

Cosa si intende per “motivazione apparente” di una sentenza?
Si ha una “motivazione apparente” quando il ragionamento del giudice, sebbene formalmente presente, è talmente generico, contraddittorio o illogico da non permettere di comprendere l’iter giuridico che ha portato alla decisione. È un vizio che rende la sentenza nulla. Nel caso specifico, la Corte ha escluso che la sentenza impugnata presentasse tale difetto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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