Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 500 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 500 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 08/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso 2336/2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
nonché
RAGIONE_SOCIALE, COGNOME, socio accomandatario della RAGIONE_SOCIALE e titolare della impresa individuale RAGIONE_SOCIALE di Stortini Bruno;
COGNOME NOMECOGNOME
-intimati –
avverso la sentenza n. 6786/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 24/10/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio 19/12/2023 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. La RAGIONE_SOCIALE evocava in giudizio innanzi il Tribunale di Roma la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE e, premesso di aver appaltato alle convenute opere di ristrutturazione del proprio locale commerciale, di cui lamentava l’esecuzione non a regola d’arte, domandava la riduzione del corrispettivo pattuito in forza del contratto di appalto, nonché il risarcimento dei danni patiti in conseguenza dei vizi denunciati. Resistevano sia la RAGIONE_SOCIALE sia la RAGIONE_SOCIALE, quest’ultima domandando in via riconvenzionale la condanna dell’attrice al versamento del residuo corrispettivo dovutole. Esaur ita l’istruzione probatoria ed espletata consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale di Roma dichiarava il difetto di legittimazione passiva della RAGIONE_SOCIALE, compensandone con l’attrice le spese di lite; accoglieva invece le domande proposte nei confronti della RAGIONE_SOCIALE ed accertava in euro 372.274,00 il valore complessivo dell’opera prestata dalla suddetta convenuta; riconosceva alla RAGIONE_SOCIALE il diritto al risarcimento del danno per i vizi riscontrati, pari ad euro 17.953,20 , nonché per la sospensione forzata dell’attività
Ric. 2018 n. 2336 sez. S2 – ud. 19/12/2023
per l’esecuzione dei lavori necessari a porvi rimedio, della durata stimata di nove giorni, per ulteriori 34.000,00 euro; per l’effetto, operando le dovute compensazioni, e tenuto conto dell’acconto già corrisposto dalla committente, condannava l’attrice a versare alla RAGIONE_SOCIALE l’importo residuo di euro 18.310,80.
Sul gravame principale della RAGIONE_SOCIALE, cui seguiva quello incidentale della RAGIONE_SOCIALE, la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 6786/2018, in parziale riforma della pronuncia impugnata, che confermava nel resto, revocava la con danna dell’appellante al risarcimento del danno per la chiusura forzata dell’attività della RAGIONE_SOCIALE, rideterminando in euro 50.310,80 l’importo residuo dovuto all’appaltatrice, sul presupposto che la committente non aveva provato né la necessità di chiudere il proprio locale durante i lavori di eliminazione dei vizi, né di aver subito in tale periodo una contrazione dei ricavi.
Per la cassazione di detta decisione la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso, sulla base di due motivi, notificato a RAGIONE_SOCIALE, a RAGIONE_SOCIALE, a COGNOME Bruno, socio accomandatario della RAGIONE_SOCIALE e titolare dell’omonima ditta individuale, nonché a COGNOME NOME e COGNOME NOME, questi ultimi quali eredi di COGNOME Bruno.
Ha resistito con controricorso il solo COGNOME NOME, deducendo di aver rinunciato all’eredità paterna.
Gli altri intimati non hanno svolto difese nel presente giudizio di legittimità.
All’udienza camerale del 30 maggio 2023 il Collegio ha disposto l’acquisizione del fasci colo di ufficio dei gradi di merito,
trattandosi di questione processuale, rispetto alla quale il giudizio si estende ai relativi accertamenti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso è così rubricato: Nullità della sentenza per la violazione degli artt. 110 c.p.c. 2495 c.c. in relazione al l’ art.360, n. 3, c.p.c. – Carenza di legitimatio ad causam.
Con il primo motivo di ricorso si evidenzia come la sentenza della Corte di Appello muova implicitamente da una ritenuta legittimazione della impresa individuale RAGIONE_SOCIALE di COGNOME Bruno, ad impugnare la sentenza di primo grado resa nei confronti, tra gli altri, della RAGIONE_SOCIALE – società in accomandita semplice – CODICE_FISCALE numero REA PG-,CODICE_FISCALE con sede in Bastia Umbra (PG) INDIRIZZO cap 06083 Stradario 80063 cancellata dal registro delle imprese il 10 marzo 2010 senza che vi sia stata dichiarazione dell’avvenuto evento interruttivo ex art. 299 e ss. c.p.c. nel corso del giudizio di primo grado.
Secondo parte ricorrente la cancellazione dal registro delle imprese nel corso del giudizio di primo grado determina la estinzione della società cancellata che perde la legitimatio a proporre il giudizio di appello.
La ricorrente deduce, e documenta in questa sede di legittimità tramite visura della Camera di Commercio, che effettivamente la RAGIONE_SOCIALE era stata cancellata dal registro delle imprese alla data sopra indicata e lamenta, pertanto, che l’appello principale, proposto da un soggetto oramai inesistente e privo di legitimatio ad causam , avrebbe dovuto essere dichiarato
inammissibile dalla Corte d’Appello di Roma. A seguito della cancellazione, infatti, non vi è più alcun patrimonio sociale e diviene impossibile anche per gli ex soci agire a tutela degli interessi societari. La ricorrente richiama anche la sentenza delle Sezioni Unite n. 6070 del 2013 dalla quale emergerebbe il principio per cui, in caso di estinzione di società di capitali, un fenomeno successorio sui generis in favore del socio potrebbe verificarsi solamente per quanto concerne i crediti e i debiti della società certi e liquidi al momento della sua cancellazione. Per contro sarebbe da escludersi alcuna vicenda successoria per le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, o i diritti di credito incerti e illiquidi.
1.1 Il primo motivo di ricorso è infondato.
A seguito dell’acquisizione del fascicolo dei gradi di merito la Corte ha potuto esaminare l’originaria procura alle liti rilasciata in data 28 giugno 2007 da NOME COGNOME in qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE all’avv.to NOME COGNOME e all’avv.to NOME COGNOME a rappresentarl a e difenderla in ogni stato e grado del giudizio.
Ne consegue che deve farsi applicazione del seguente principio di diritto: La morte o la perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, dallo stesso non dichiarate in udienza o notificate alle altre parti, comportano, giusta la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, che: a) la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, ex art. 285 cod. proc. civ., è idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della parte deceduta o del rappresentante legale di quella divenuta incapace; b) il medesimo procuratore, qualora originariamente munito di procura alla lite valida per gli ulteriori gradi del processo,
è legittimato a proporre impugnazione – ad eccezione del ricorso per cassazione, per cui è richiesta la procura speciale -in rappresentanza della parte che, deceduta o divenuta incapace, va considerata, nell’ambito del processo, tuttora in vita e capace; c) è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso di lui, ai sensi dell’art. 330, primo comma, cod. proc. civ., senza che rilevi la conoscenza “aliunde” di uno degli eventi previsti dall’art. 299 cod. proc. civ. da parte del notificante (Sez. U, Sentenza n. 15295 del 04/07/2014, Rv. 631467 – 01).
Nel caso di specie, il difensore della RAGIONE_SOCIALE aveva ricevuto mandato a rappresentare la società in tutti i gradi di giudizio, sicché al momento della proposizione dell’appello, in forza del principio di ultrattività del mandato come sopra riportato, era ancora legittimato a proporre appello . D’altra parte , l’evento interruttivo non è stato comunicato neanche nel corso del giudizio di appello. Anche in questo caso deve farsi applicazione dei principi espressi dalle Sezioni Unite nella pronuncia sopra citata, oramai del tutto consolidati, secondo cui: in caso di morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, l’omessa dichiarazione o notificazione del relativo evento ad opera di quest’ultimo comporta, giusta la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, che il difensore continui a rappresentare la parte come se l’evento stesso non si fosse verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale, nonché in quelle successive di sua quiescenza od eventuale riattivazione dovuta alla proposizione dell’impugnazione. Tale posizione è suscettibile di modificazione qualora, nella fase di
impugnazione, si costituiscano gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale di quella divenuta incapace, ovvero se il suo procuratore, già munito di procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiari in udienza, o notifichi alle altre parti, l’evento, o se, rimasta la medesima parte contumace, esso sia documentato dall’altra parte o notificato o certificato dall’ufficiale giudiziario ex art. 300, quarto comma, cod. proc. civ. ( ex plurimis Sez. U, Sent. n. 15295 del 2014; Sez. 3, Ord. n. 20840 del 2018; Sez. 5, Ord. n. 8037 del 23/03/2021).
2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: « Violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116 2 132 comma 2 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n° 3, c.p.c. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360, comma 1, n° 5, c.p.c. ». La RAGIONE_SOCIALE lamenta che la Corte distrettuale, nel sostenere che i vizi riscontrati dal CTU erano stati già integralmente eliminati prima del giudizio, sarebbe incorsa in violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ritenuto che la RAGIONE_SOCIALE non aveva contestato che i vizi in questione erano in realtà tutti ancora sussistenti alla data del sopralluogo peritale (anche perché, diversamente, il consulente non avrebbe potuto accertarne l’esistenza), e si era limitata ad impugnare la sentenza di primo grado in relazione al solo criterio di quantificazione del risarcimento del danno riconosciuto all’appellata per la sospensione della propria attività, necessaria all’eliminazione dei suddetti vizi. La ricorrente osserva, ancora, che l’affermazione della Corte distrettuale, secondo cui i vizi erano stati già tutti completamente emendati, oltre a non trovare riscontro nella CTU e nelle deduzioni stesse delle parti, si risolverebbe in un
vizio di motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha gravato l’attrice della prova di aver dovuto chiudere i propri locali, e di aver subito una contrazione dei ricavi, durante l’esecuzione di lavori che, in realtà, non sono stati mai eseguiti.
2.1. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
La ricorrente sostiene che la decisione della Corte d’Appello si fondi su un’erronea interpretazione della consulenza e afferma che il calcolo dei nove giorni di chiusura è stato un criterio presuntivo per la determinazione del lucro cessante. In realtà tale censura non si confronta con l’effettiva ratio decidendi della sentenza che ha ritenuto non provato il danno da lucro cessante. Infatti, la Corte d’Appello da un lato ha riconosciuto il costo per l’eliminazione dei vizi detraendolo dall’ammontare comple ssivo dovuto dalla committente all’appaltatrice mentre ha ritenuto non provata la necessità di chiudere il locale durante l’esecuzione delle opere di ripristino così come la contrazione dei ricavi e il loro eventuale ammontare. Tale prova avrebbe dovuto essere fornita anche in relazione all’ipotesi adombrata dalla ricorrente di non eliminazione dei vizi al momento della consulenza ma solo successivamente.
Peraltro, la medesima ricorrente afferma che la perdurante sussistenza dei vizi, come riscontrati al momento del sopralluogo peritale, non aveva costituito oggetto di discussione tra le parti, cosicché l’errore che si imputa alla Corte d’Appello con il mot ivo in esame (e cioè l’aver affermato l’avvenuta riparazione dei vizi prima ancora dell’introduzione del giudizio) oltre a non costituire l’effettiva ragione della decisione a ben vedere trascende sia il vizio di omesso esame di fatto decisivo ai sensi del l’art. 360 n. 5 c.p.c., sia il travisamento della prova, inteso come errore di percezione
sulla ricognizione del contenuto oggettivo dell’informazione probatoria che investa una circostanza controversa tra le parti, ed assume piuttosto in astratto i contorni dell’errore revocatorio , peraltro non decisivo per quanto si è detto.
Il ricorso è rigettato.
Non deve procedersi alla liquidazione delle spese del presente giudizio essendosi costituito solo NOME COGNOME al fine di affermare la sua estraneità al giudizio per aver rinunciato all’eredità di NOME COGNOME.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater D.P.R. n. 115/02, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto;
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione