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Trattamento perequativo: sì se l’attività è svolta

La Cassazione conferma il diritto al trattamento perequativo per due dipendenti universitarie che svolgevano attività assistenziale in un’azienda ospedaliera. La Corte ha stabilito che la prova dell’effettivo svolgimento delle mansioni prevale sulla formalizzazione di accordi, respingendo i ricorsi dell’Università e dell’Azienda Ospedaliera.

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Pubblicato il 12 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Trattamento Perequativo: la Sostanza Prevale sulla Forma

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio fondamentale nel diritto del lavoro, in particolare per il personale universitario che presta servizio presso strutture sanitarie: ai fini del riconoscimento del trattamento perequativo, ciò che conta è l’effettivo svolgimento di attività assistenziale, non la mera formalizzazione in un accordo. Questa decisione chiarisce che la sostanza delle mansioni prevale sulla forma, garantendo tutele economiche a chi opera in un contesto ibrido tra università e sanità.

I fatti del caso

La vicenda riguarda due dipendenti di un’importante Università italiana, assegnate a svolgere le proprie mansioni presso una collegata Azienda Ospedaliera Universitaria. Le lavoratrici avevano richiesto il riconoscimento del cosiddetto trattamento perequativo previsto dall’art. 31 del D.P.R. n. 761/1979, un’indennità volta a equiparare la loro retribuzione a quella del personale sanitario con pari funzioni.

La Corte d’Appello aveva dato loro ragione, condannando l’Università e l’Azienda Ospedaliera al pagamento delle differenze retributive. Contro questa decisione, sia l’Ateneo che l’Azienda Ospedaliera hanno proposto ricorso per cassazione, sostenendo principalmente due punti:
1. La mancata prova, da parte delle lavoratrici, dello svolgimento di attività assistenziale nei periodi contestati (in particolare, per una lavoratrice, prima di un accordo del 2006, e per l’altra, dopo il 2012).
2. Un presunto valore novativo di un accordo siglato nel 2006, che a loro dire avrebbe implicato una rinuncia a qualsiasi pretesa economica pregressa.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato inammissibili entrambi i ricorsi, quello principale dell’Università e quello incidentale dell’Azienda Ospedaliera, confermando di fatto la decisione della Corte d’Appello. La Cassazione ha ribadito che la valutazione sull’effettivo svolgimento delle mansioni assistenziali è un accertamento di fatto che spetta al giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità, a meno di vizi logici o giuridici che in questo caso non sono stati riscontrati.

Il trattamento perequativo e l’onere della prova

Uno dei punti centrali della controversia era l’onere della prova. L’Università e l’Azienda Ospedaliera lamentavano che le lavoratrici non avessero sufficientemente provato le loro mansioni. La Cassazione ha smontato questa argomentazione, chiarendo che nel rito del lavoro il convenuto (il datore di lavoro) ha l’onere di contestare specificamente i fatti allegati dal lavoratore.

Nel caso di specie, le amministrazioni si erano limitate a negare il diritto sulla base della mancanza di un accordo formale per il periodo controverso, senza contestare nel dettaglio le specifiche attività descritte dalle ricorrenti. Questo approccio, secondo la Corte, non è sufficiente. L’effettiva prestazione, ricavabile anche da norme come l’art. 31 del D.P.R. 761/1979, è il vero discrimine per il riconoscimento del diritto, indipendentemente dall’inserimento “nominativo nelle convenzioni”.

L’accordo del 2006: nessuna rinuncia implicita

La Corte ha anche respinto la tesi secondo cui l’accordo del 2006 avesse un “valore novativo” o implicasse una rinuncia ai diritti maturati. L’interpretazione del contratto è un compito del giudice di merito. La Corte d’Appello aveva correttamente concluso che dall’accordo non emergeva alcun elemento testuale che potesse far desumere una volontà di rinunciare all’indennità perequativa nella sua misura più favorevole, come peraltro garantito da clausole di salvaguardia previste dalla contrattazione collettiva.

Le motivazioni

Le motivazioni della Suprema Corte si fondano su principi consolidati. In primo luogo, viene ribadita la netta distinzione tra giudizio di fatto e giudizio di legittimità: la Cassazione non può riesaminare le prove e sostituire la propria valutazione a quella del giudice di merito. Quest’ultimo aveva adeguatamente motivato la propria decisione basandosi su documentazione, testimonianze e persino un precedente verbale di conciliazione, ritenendo provato lo svolgimento dell’attività assistenziale.

In secondo luogo, la Corte sottolinea l’importanza del principio di non contestazione specifica nel rito del lavoro. Il datore di lavoro non può limitarsi a una negazione generica, ma deve prendere posizione precisa sui fatti allegati dal lavoratore, contribuendo così a definire il thema decidendum (l’oggetto della decisione). La difesa delle amministrazioni, incentrata sulla formalità dell’accordo piuttosto che sulla sostanza del lavoro svolto, è stata giudicata inefficace.

Infine, l’ordinanza chiarisce che una rinuncia a un diritto retributivo non può mai essere presunta ma deve essere esplicita e inequivocabile. L’accordo del 2006, finalizzato a regolarizzare l’inquadramento del personale, non conteneva alcuna clausola di rinuncia, rendendo infondata la pretesa delle ricorrenti.

Le conclusioni

L’ordinanza 9525/2024 rafforza la tutela dei lavoratori universitari impiegati in attività di assistenza sanitaria. Le conclusioni che possiamo trarre sono chiare:
1. La sostanza prevale sulla forma: Per il diritto al trattamento perequativo, è decisivo l’effettivo svolgimento di mansioni assistenziali, non la loro formalizzazione in una convenzione.
2. Onere di contestazione specifica: Il datore di lavoro deve contestare in modo puntuale e dettagliato le affermazioni del lavoratore, altrimenti i fatti si considerano provati.
3. La rinuncia ai diritti non si presume: Qualsiasi accordo che modifichi o estingua diritti del lavoratore deve essere interpretato restrittivamente. Una rinuncia deve essere chiara, espressa e inequivocabile.

Questa pronuncia rappresenta un importante punto di riferimento per tutti i professionisti che operano in contesti lavorativi complessi, ribadendo che i diritti basati sulla natura della prestazione lavorativa non possono essere vanificati da cavilli formali o da accordi dal contenuto non esplicito.

Per ottenere il trattamento perequativo è sufficiente dimostrare di aver svolto attività assistenziale o è necessario un accordo formale?
È sufficiente dimostrare l’effettivo svolgimento di attività di assistenza. La Corte ha stabilito che la prestazione di fatto prevale sulla necessità di un accordo formale o sull’inserimento nominativo in apposite convenzioni.

Un accordo successivo che regola l’inquadramento del personale universitario in sanità può essere considerato una rinuncia ai diritti economici maturati in precedenza?
No. Secondo la Corte, un accordo di questo tipo non implica automaticamente una rinuncia ai diritti pregressi. Una rinuncia deve essere esplicita e inequivocabile e non può essere desunta da un accordo che regola aspetti diversi del rapporto di lavoro, come l’inquadramento.

Nel rito del lavoro, come deve comportarsi il datore di lavoro di fronte alle affermazioni del lavoratore?
Il datore di lavoro (convenuto) ha l’onere di contestare in modo specifico e non generico le circostanze di fatto dedotte dal lavoratore. Una negazione generica non è sufficiente e i fatti non specificamente contestati possono essere ritenuti provati dal giudice.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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