Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 32525 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 32525 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/12/2024
il secondo motivo è rubricato come violazione a falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 c.p.c.) in riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c. per travisamento dei fatti ed errata valutazione delle prove documentali riguardanti le delibere aziendali e conseguente violazione e falsa applicazione delle norme di legge di cui al D.M. 1.9.1995, all’art. 11 della Delibera di Giunta Regionale n. 376/2001 ed all’art. 15 della Delibera di Giunta Regionale n. 342/08;
il motivo spiega come le delibere ASL valorizzate dalla Corte di merito non avessero avuto concreta applicazione all’interno dell’Azienda, in quanto il personale aveva continuato a svolgere le prestazioni trasfusionali durante l’ordinario orario di lavoro, mentre non erano state mai fissate le modalità di esecuzione delle prestazioni al di fuori dell’orario di lavoro in quelle sedi stabilite, sicché il diniego del compenso rivendicato in causa si poneva in contrasto con le norme di cui al D.M. ed alle Delibere di Giunta citate nella rubrica del motivo;
il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 c.p.c.), in riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c., per travisamento dei fatti ed errata valutazione della nota
del Direttore dell’UOC contenente la suddivisione dei proventi e con esso si sostiene che tale atto sarebbe giuridicamente valido quale manifestazione di volontà unilaterale con cui il massimo organo della P.A. competente riconosceva un diritto e ne definiva l’ambito e l’entità;
2.
i motivi possono esser esaminati congiuntamente, stante la loro connessione logica e non possono trovare accoglimento;
in punto di fatto -e semplificando per limitare a quanto necessario -è pacifico che il ricorrente abbia operato fino al 31.12.2014 per il S. NOME COGNOME e che per tale periodo, anche per effetto della pronuncia di secondo grado, non impugnata rispetto alla condanna per l’anno 2014, abbia diritto ai compensi da lui rivendicati per l’attività trasfusionale;
dal 1.1.2015 in poi, invece l’A.O. S. NOME COGNOME è stata incorporata nelle ASL, confluite da ultimo nella ASL Roma 1 ed è di questo periodo che ancora si discute;
3.
il primo motivo contiene come detto -nel contesto di una denuncia incentrata sull’art. 2112 c.c. e sulla Direttiva 2001/23/Cee un paragrafo in cui si argomenta sul giudicato derivante dalle sentenze già menzionate nello storico di lite;
tuttavia, come si è parimenti riepilogato, la Corte territoriale non solo ha negato che vi potesse essere quell’effetto di giudicato, ma ha premesso che si trattava di sentenze « del cui passaggio in giudicato in verità non vi è prova nelle forme e nei modi dell’art. 124 att. c.p.c. »;
quest’ultimo passaggio , non potendo essere ritenuto inutilmente formulato, va inteso come un’autonoma ratio decidendi , cui la Corte di merito ha associato le proprie valutazioni in merito agli effetti di quel dedotto giudicato, con altra ratio decidendi , rafforzativa del rigetto della pretesa sul piano del giudicato;
d’altra parte, l’autonomia della prima ratio e l’idoneità di essa a sorreggere la decisione è evidente, perché il fatto che manchi prova del giudicato è assorbente rispetto al fatto che esso possa avere certi effetti o meno;
rispetto a tali aspetti probatori il motivo di ricorso per cassazione nulla dice, insistendo tout court sugli effetti del giudicato e non soffermandosi in alcun m odo su quell’ulteriore fondamento motivazionale;
ne deriva che quel passaggio -in sé non incoerente con un ben noto indirizzo di legittimità (Cass. 2 marzo 2022, n. 6868; Cass. 14 aprile 2017, n. 9746; Cass. 2 dicembre 2004, n. 22644) -sancisce in via definitiva nel processo la necessità di prova in quei termini e la mancanza di essa;
nulla essendo stato detto sul punto e nulla essendo stato aggiunto alle produzioni, che restano limitate alla copie di quelle sentenza come depositate nei gradi di merito e così valutate in quella sede, non si può qui che richiamare in via assorbente il consolidato principio per cui « la sentenza del giudice di merito, la quale, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esamini ed accolga anche una seconda ragione (….) configura una pronuncia basata su due distinte rationes decidendi , ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere del ricorrente di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione» (Cass. 14 agosto 2020, n. 17182; Cass. 18 aprile 2019, n. 10815);
in altre parole, l’assenza di impugnazione o di qualsivoglia nuovo elemento rispetto a quel passaggio in ordine alla carenza della prova sul piano giuridico-formale lo rende definitivo e comporta che deve ritenersi consolidata in causa l’affermazione per cui manca la piena dimostrazione dell’esistenza di quel giudicato , il che è
assorbente e rende superfluo discutere ancora qui sugli effetti che quel giudicato avrebbe potuto avere o non avere;
4.
l’impugnazione dell’ulteriore ratio decidendi sviluppata dalla Corte territoriale con riferimento ai profili più spiccatamente sostanziali della vicenda potrebbe essere invece potenzialmente capace, ove fondata, di sovvertire la pronuncia, ma i motivi sviluppati rispetto ad essa non sono accoglibili;
4.1.
la Corte d’Appello di Roma, per decidere su tale piano la causa, ha innanzitutto preso atto che le delibere adottate dalla ASL non prevedevano la distribuzione del 20% aggiuntivo fatturato sull’attività trasfusionale resa alle aziende private tra tutti i dipendenti coinvolti, stabilendo la remunerazione dei dipendenti per tale attività solo se essa fosse stata resa in regime libero professionale con orario aggiuntivo;
la Corte ha quindi ritenuto che il nuovo datore di lavoro non fosse tenuto ad applicare ai lavoratori trasferiti per effetto dell’incorporazione dell’Azienda Ospedaliera San Filippo Neri il medesimo trattamento economico già da loro goduto presso il precedente datore di lavoro, potendo estendere anche nei loro confronti il regime di trattamento economico applicato ai propri dipendenti;
la critica nei confronti di tale impostazione si incentra sul rilievo che il nuovo datore di lavoro non può disconoscere al lavoratore trasferito il trattamento economico cui egli aveva diritto presso il precedente datore di lavoro, determinandosi altrimenti, in tal modo, un’indebita situazione peggiorativa sul piano retributivo;
4.2
il ragionamento del ricorrente è astrattamente corretto, ma in concreto difetta di un elemento necessario per attribuire ad esso fondamento;
la Corte d’Appello ha basato la sua decisione su un confronto tra le delibere adottate dalle diverse aziende -e, quindi, svolto sul piano omogeneo dei diversi regolamenti interni -ritenendo sostanzialmente che l’ASL Roma 1 non poteva essere vincolata al rispetto delle delibere a suo tempo adottate dalla cessata Azienda Ospedaliera San Filippo Neri;
il confronto va effettivamente spostato -ed in parte il secondo motivo di ricorso è indirizzato in tal senso – sul più appropriato livello della normativa abilitata a definire il trattamento economico nel pubblico impiego, che non può che essere quella collettiva (artt. 24 e 45 d.lgs. n. 165 del 2001) o, eventualmente, primaria di legge, ma questo deve valere anche e innanzitutto per il trattamento economico goduto presso l’Azienda Ospedaliera San Filippo Neri, trattandosi di individuare una fonte legale o contrattuale del credito azionato dalla ricorrente con il ricorso per decreto ingiuntivo ed essendo evidente che la ASL, nel recepire presso di sé i lavoratori del San Filippo Neri, non potrebbe essere tenuta a conservare un trattamento privo di tali fondamenti giuridici;
il ricorrente non indica un contratto collettivo aziendale di lavoro stipulato dall’Azienda Ospedaliera San Filippo Neri che prevedesse la ripartizione automatica del 20% fatturato alle aziende private tra tutti i lavoratori impegnati nell’attività di trasfusione, ciò fermo restando che un contratto collettivo aziendale potrebbe disporre retribuzioni aggiuntive soltanto nei limiti in cui ciò sia previsto e consentito dalla contrattazione collettiva nazionale (Cass. 18 agosto 2023, n. 24807; Cass. 6 luglio 2022, n. 21316), le fonti legislative, ovverosia la legge n. 107 del 1990 (peraltro pressoché integralmente abrogata dalla legge n. 219 del 2005) e la legge della Regione Lazio n. 48 del 1995 contengono norme volte a disciplinare l’organizzazione del servizio trasfusionale, non il
rapporto di lavoro con i dipendenti delle aziende sanitarie che svolgono quel servizio;
quanto all’art. 2112 c.c., esso delinea i presupposti per il mantenimento dei diritti già acquisiti presso il precedente datore di lavoro, sicché non può costituire esso stesso la fonte di quei diritti; nel secondo motivo, viene invocato il decreto del Ministero della Sanità 1°.9.1995 (contenente la «disciplina dei rapporti tra le strutture pubbliche provviste di servizi trasfusionali e quelle pubbliche e private, accreditate e non accreditate, dotate di frigoemoteche»), al quale è allegato uno «Schema-tipo di convenzione per il servizio di medicina trasfusionale», il cui art. 12, rubricato «rapporti economici», dispone: «L’azienda sanitaria fatturerà mensilmente alla casa di cura: … f) contributo alle spese di funzionamento generale della struttura trasfusionale produttiva della prestazione e della consulenza tecnico-scientifica fornita, pari al 20% del fatturato complessivo»;
è questa la disposizione -peraltro di rango sublegislativo e non contrattuale -che prevede la fatturazione di un contributo, pari al 20% dell’importo complessivo delle altre voci esposte in fattura, destinato però a remunerare non direttamente i lavoratori coinvolti nel servizio, bensì le «spese di funzionamento generale della struttura trasfusionale produttiva della prestazione e della consulenza tecnico-scientifica fornita»;
tale destinazione del 20% a copertura delle spese di «funzionamento generale della struttura» richiederebbe una successiva contrattazione collettiva che stabilisse la misura e le modalità dell’attribuzione di quanto incassato ai dipendenti interessati, i quali di quella struttura sono parte essenziale, ma non esclusiva;
già si è tuttavia detto che non vi è menzione di contrattazioni collettive in tal senso rilevanti;
d’altra parte, se l’attività è svolta in regime di orario ordinario o c.d. istituzionale, essa costituisce costo per la ASL in misura corrispondente all’impegno del proprio personale nel lavoro per conto terzi, cui questi ultimi devono sopperire senza che ciò comporti in sé incrementi retributivi, se non in quanto previsti da fonti collettive, mentre, qualora l’attività sia svolta in regime c.d. intramoenia, quell’aumento serve parimenti per rimborsare della remunerazione da questo punto di vista da erogare ai lavoratori per l’attività extra, che non è però quanto rivendicato in causa, essendo pacifico che l’attività sia stata svolta in forme ed orari c.d. istituzionali;
il ricorrente fa infine riferimento, sempre nel secondo motivo, alle delibere della Giunta regionale del Lazio n. 376 del 2001 e n. 342 del 2008, ma di esse non riporta il contenuto, né si tratta di norme di legge, il motivo è pertanto formulato con modalità inammissibili sia perché in quanto inosservanti del disposto dell’art. 366 c.p.c., sia perché l’ipotetica violazione di una Delibera di Giunta nulla ha a che vedere con la violazione rilevante ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. cui fa riferimento la censura;
5.
analogamente infondati sono i passaggi sviluppati sostenendo (primo motivo) che vi sarebbe una sorta di uso aziendale maturato presso il San Filippo Neri la cui inosservanza avrebbe comportato un inammissibile peggioramento delle condizioni del lavoratore ed adducendo (terzo motivo) che infondatamente la sentenza impugnata avrebbe disconosciuto rilevanza all’atto dirigenziale di redazione dei conteggi in forza delle regole applicate dall’incorporata;
5.1
si ribadisce infatti anche a questo proposito che il trattamento economico dei pubblici impiegati non può che essere quello previsto dai contratti collettivi e non può essere incrementato in
forza di un atto amministrativo o di una mera scelta del datore di lavoro pubblico (artt. 24 e 45 d.lgs. n. 165 del 2001; Cass. 4 maggio 2021, n. 11645; Cass. 9 maggio 2022, n. 14672), né di un asserito uso aziendale;
il rigoroso regime di inquadramento giuridico e finanziario del regime retributivo nell’ambito dell’impiego pubblico esclude pertanto che possano operare, nel delineare il regime del corrispettivo, fonti, c ome l’uso negoziale di cui all’art. 1340 c.c., che sono da riportare a comportamenti di fatto, seppure reiterati nel tempo;
è del resto principio già affermato in ambito lavoristico quello per cui allorquando la disciplina sia tale per cui siano solo la legge o fonti esplicitamente da essa indicate (v. contratti collettivi, da stipulare nelle rigorose forme sancite dalla legge) e non la mera autonomia negoziale a regolare il rapporto di lavoro, non sono configurabili gli usi previsti dall’art. 1340 c.c. (per tutte, v. Cass., S.U., 7 marzo 2005, n. 4813; Cass. 3 marzo 1994, n. 2101, Cass. 8 maggio 1992, n. 5463);
non vi è poi neanche da discutere sull’esistenza di un uso ‘normativo’, sia perché esso non è stato evocato come tale dalla ricorrente, sia perché a fronte di una rigorosa disciplina di legge sulle fonti del diritto alla retribuzione si tratterebbe di un inammissibile uso contra legem , sia perché manca qualsiasi deduzione e prova dei rigorosi requisiti (generalità non limitata ad una o più aziende e c.d. opinio iuris ac necessitatis ) per esso richiesti;
5.2
analoghe considerazioni escludono i diritti retributivi possano esser riconosciuti sulla base di atti ricognitivi di dirigenti, se non basati sulle pertinenti fonti, che già si è detto non risultano;
il ragionamento giuridico della Corte territoriale su questo punto è dunque del tutto fondato;
6. il ricorso va dunque complessivamente disatteso; 7. gli esiti giurisprudenziali alterni giustificano la compensazione per questo grado di giudizio;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro