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Trattamento economico dipendenti pubblici: i limiti

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 32525/2024, ha chiarito i limiti al mantenimento del trattamento economico dei dipendenti pubblici in caso di trasferimento d’azienda. Un lavoratore del settore sanitario, trasferito da un’azienda ospedaliera a una ASL, si è visto negare la prosecuzione di un compenso legato all’attività trasfusionale. La Corte ha rigettato il ricorso, stabilendo che nel pubblico impiego la retribuzione è determinata esclusivamente dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Prassi aziendali o atti amministrativi del precedente datore non sono sufficienti a fondare un diritto quesito, neanche in applicazione dell’art. 2112 c.c., che non può creare diritti ex novo ma solo garantire quelli già validamente costituiti.

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Pubblicato il 10 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Trattamento Economico Dipendenti Pubblici: Diritto Acquisito o Prassi Superabile?

Il passaggio di un lavoratore da un’amministrazione pubblica a un’altra a seguito di una fusione o incorporazione solleva spesso interrogativi complessi, specialmente riguardo al mantenimento di specifiche voci retributive. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali sul trattamento economico dipendenti pubblici, stabilendo che non tutte le componenti dello stipendio sono destinate a sopravvivere al trasferimento. Il caso analizzato riguarda un professionista del settore sanitario che, dopo l’incorporazione della sua Azienda Ospedaliera in una ASL, si è visto interrompere l’erogazione di un compenso legato all’attività trasfusionale. Vediamo come la Suprema Corte ha risolto la questione.

I Fatti di Causa

Un lavoratore del comparto sanità, per anni, aveva percepito una remunerazione aggiuntiva basata su una percentuale dei proventi derivanti da prestazioni trasfusionali fornite a strutture private. Questo compenso era erogato dalla sua originaria Azienda Ospedaliera. A seguito di un processo di riorganizzazione sanitaria, tale Azienda è stata assorbita da una più grande Azienda Sanitaria Locale (ASL).

Il nuovo datore di lavoro, la ASL, ha interrotto l’erogazione di quel compenso, ritenendo che non vi fosse un fondamento giuridico per la sua prosecuzione. Il lavoratore ha quindi agito in giudizio, sostenendo di avere un diritto quesito al mantenimento del trattamento economico goduto in precedenza, anche in virtù del principio di tutela sancito dall’art. 2112 c.c. in caso di trasferimento d’azienda.

Analisi della Corte e il trattamento economico dipendenti pubblici

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore, basando la sua decisione su principi cardine del diritto del lavoro pubblico. L’analisi dei giudici ha toccato diversi punti nevralgici, dalla prova del giudicato alle fonti legittime della retribuzione nel pubblico impiego.

L’ostacolo del Giudicato non Provato

In primo luogo, il ricorrente invocava l’effetto di precedenti sentenze a lui favorevoli. Tuttavia, la Corte ha sottolineato come la parte che intende avvalersi di un giudicato esterno abbia l’onere di fornirne la prova formale, attraverso la produzione della sentenza munita di attestazione di passaggio in giudicato, secondo le rigide forme previste dal codice di procedura civile. In assenza di tale prova, la Corte non ha potuto considerare vincolanti le decisioni precedenti.

Le Fonti della Retribuzione nel Pubblico Impiego: un Sistema Rigido

Il cuore della decisione risiede nella rigida disciplina delle fonti che regolano il trattamento economico dipendenti pubblici. La Corte ha ribadito che, ai sensi del D.Lgs. 165/2001, la retribuzione dei dipendenti pubblici è determinata esclusivamente dalla legge e dai contratti collettivi. Non c’è spazio per fonti alternative come:

* L’uso aziendale: una prassi consolidata, anche se favorevole, non può creare diritti retributivi stabili nel settore pubblico, specialmente se in contrasto con la contrattazione collettiva.
* Atti amministrativi unilaterali: la decisione di un dirigente o una delibera aziendale non possono costituire fonte autonoma di un diritto alla retribuzione.

L’articolo 2112 c.c., che tutela i diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda, serve a mantenere i diritti già validamente acquisiti, ma non può ‘sanare’ un trattamento economico che non aveva un solido fondamento giuridico sin dall’origine.

La Natura del Compenso Rivendicato

Infine, la Corte ha analizzato la normativa specifica (un Decreto Ministeriale del 1995) che istituiva il contributo del 20% da parte delle case di cura private. I giudici hanno chiarito che tale importo era destinato a coprire le ‘spese di funzionamento generale della struttura trasfusionale’ e non a remunerare direttamente il personale. Una sua eventuale distribuzione ai dipendenti avrebbe richiesto una specifica previsione in un contratto collettivo, che nel caso di specie mancava.

Le Motivazioni della Decisione

Le motivazioni della Corte si fondano sul principio di legalità e sulla gerarchia delle fonti nel pubblico impiego. Il rigoroso inquadramento giuridico e finanziario del regime retributivo pubblico esclude che possano operare fonti atipiche come l’uso negoziale o atti amministrativi per definire il corrispettivo. La tutela dell’art. 2112 c.c. presuppone l’esistenza di un diritto validamente costituito presso il precedente datore di lavoro. Se tale diritto era fondato su una prassi non supportata da una fonte legale o contrattuale valida, il nuovo datore di lavoro non solo non è tenuto a mantenerlo, ma è obbligato a disapplicarlo per ripristinare la legalità. Il fatto che il lavoro fosse svolto in orario istituzionale, e non in regime di attività extra (intramoenia), ha ulteriormente rafforzato la posizione della Corte, poiché il costo del personale era già coperto dalla normale retribuzione.

Le Conclusioni

In conclusione, l’ordinanza stabilisce un principio chiaro: nel settore pubblico, un diritto economico può considerarsi ‘acquisito’ e quindi trasferibile solo se deriva da una fonte normativa primaria (legge) o dalla contrattazione collettiva. Le prassi aziendali, le delibere interne o gli usi, per quanto consolidati, non sono sufficienti a creare un diritto soggettivo alla retribuzione che possa resistere alla verifica di legittimità da parte di una nuova amministrazione. Per i dipendenti pubblici, questo significa che la stabilità del proprio trattamento economico dipende interamente dalla sua conformità alle fonti legali e contrattuali previste dall’ordinamento.

Un trattamento economico basato su una prassi del precedente datore di lavoro pubblico deve essere mantenuto dal nuovo datore dopo un trasferimento d’azienda?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che nel pubblico impiego un trattamento economico è legittimo solo se previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva. L’art. 2112 c.c. tutela i diritti già validamente costituiti, ma non può rendere legittimo un compenso che non aveva un corretto fondamento giuridico sin dall’origine.

Un atto amministrativo o la decisione di un dirigente possono creare un diritto retributivo permanente per un dipendente pubblico?
No. Le fonti della retribuzione nel pubblico impiego sono tassativamente indicate dalla legge (principalmente D.Lgs. 165/2001). Atti amministrativi, delibere aziendali o usi negoziali non possono creare, modificare o integrare il trattamento economico in modo permanente, essendo questo riservato alla legge e ai contratti collettivi.

Cosa serve per far valere una precedente sentenza favorevole in un nuovo giudizio?
Per avvalersi dell’efficacia di una precedente sentenza (il cosiddetto ‘giudicato’), non è sufficiente menzionarla o produrne una copia semplice. La parte interessata ha l’onere di depositare in giudizio la sentenza completa, munita della specifica attestazione di ‘passaggio in giudicato’ rilasciata dalla cancelleria del giudice che l’ha emessa, come previsto dall’art. 124 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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