Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 20083 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 20083 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2612/2023 r.g., proposto da
RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE , in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , elett. dom.ti in INDIRIZZO, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO.
ricorrenti
contro
COGNOME NOME , elett. dom.to in INDIRIZZO, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO;
RAGIONE_SOCIALENOME RAGIONE_SOCIALE” , in persona del legale rappresentante pro tempore , eletto dom.to in INDIRIZZO, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO.
contro
ricorrenti
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 2827/2022 pubblicata in data 20/07/2022, n.r.g. 3416/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 21/05/2024 dal AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO.
RILEVATO CHE
OGGETTO:
trasferimento di ramo d’azienda – caratteri del ramo – valutazione in concreto – sindacato in sede di legittimità – limiti
1.- NOME COGNOME era stato assunto da RAGIONE_SOCIALE con qualifica di operaio, da ultimo inquadrato nell’8^ livello ccnl poligrafici.
Deduceva che dal 2006 era stato assegnato all’archivio redazionale, inserito nell’area denominata ‘prestampa’. Aggiungeva che in data 08/06/2015 la società aveva comunicato l’accorpamento del predetto archivio alla segreteria di redazione, operazione finalizzata alla costituzione del nuovo ufficio di staff redazionale, ma nulla era mutato circa le sue mansioni e le modalità del relativo svolgimento.
Assumeva che in data 23/12/2015 il RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE avevano redatto un progetto di scissione parziale, con previsto trasferimento del comparto aziendale relativo alla gestione dei servizi ivi indicati e che tale progetto era stato approvato con effetti dall’01/04/2016. A seguito di tale operazione erano transitati trentatré dipendenti a RAGIONE_SOCIALE fra cui lui. Deduceva che tale operazione era stata illegittima.
Pertanto adìva il Tribunale di Roma per ottenere la declaratoria di nullità della cessione del ramo aziendale, di nullità e/o d ‘illegittimità del trasferimento del suo contratto di lavoro, di persistenza del suo rapporto di lavoro alle dipendenze de RAGIONE_SOCIALE, nonché l’ordine a quest’ultima società di reintegrarlo in servizio; in subordine l’accertamento del suo diritto all’applicazione del CCNL poligrafici, nonché al versamento dei contributi al c.d. RAGIONE_SOCIALE, nonché la condanna della datrice di lavoro al pagamento delle differenze retributive e contributive conseguenti.
2.- Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale, in accoglimento della domanda, dichiarava nullo il trasferimento del contratto di lavoro e persistente il rapporto di lavoro alle dipendenze de RAGIONE_SOCIALE, condannava quest’ultima società a riammettere in servizio il ricorrente e a versare i contributi previdenziali al RAGIONE_SOCIALE dal momento dell’illegittima interruzione del rapporto di lavoro.
3.Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello rigettava il gravame interposto dalle due società.
Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:
in via preliminare è irrilevante la consistenza effettiva della società cessionaria, dal momento che l’illegittimità del trasferimento di ramo
d’azienda non necessariamente richiede il carattere fittizio del soggetto cessionario; è altresì indifferente il fatto che altri lavoratori coinvolti nella medesima vicenda non abbiano inteso opporvisi giudizialmente; in ogni caso è stata allegata e provata la netta opposizione sindacale espressa nell’ambito della procedura di consultazione ex art. 47 L. n. 428/1990;
è onere del datore di lavoro provare i presupposti di fatto per il legittimo trasferimento d’azienda o di un suo ramo;
nella fattispecie si applica ratione temporis l’art. 32 d.lgs. n. 276/2003 e quindi la relativa formulazione dell’art. 2112, co. 5, c.c.;
permane l’unicità della disposizione, neppure articolata in due commi, sicché la seconda parte va interpretata alla luce della prima, sicché nessun significato ha l’eliminazione del requisito della preesistenza riferito al ramo d’azienda, poiché per effetto della lettura combinata ed unitaria del 5^ comma, anche per il ramo d’azienda continua a valere il requisito della ‘conservazione nel trasferimento della propria identità’ e di conseguenza la conservazione dell’identità del ramo d’azienda ne presuppone logicamente la preesistenza;
in tal senso è anche la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 22249/2021);
inoltre, poiché nella norma si fa riferimento a ‘parte dell’azienda’, nel contratto di cessione di ramo d’azienda l’oggetto deve essere un quid strutturato e dotato di specifica organizzazione (mutuando dalla nozione di azienda ex art. 2555 c.c.) e non può essere un mero servizio, una mera attività o un gruppo di dipendenti;
dunque è necessaria un’oggettiva organizzazione, dotata di autonomia funzionale, che sia cioè in grado di fornire un bene o un servizio;
quindi la cessione di ramo d’azienda deve avere ad oggetto settori o strutture organizzative che nel passaggio mantengano la propria identità funzionale e, quindi, al momento del trasferimento siano in grado di funzionare autonomamente, sicché la cessionaria sia in grado, attraverso la parte di azienda ceduta, esercitare un’attività economica organizzata;
il ramo d’azienda può anche essere estrapolato da un’unità produttiva più ampia, purché in concomitanza con la separazione il ramo mantenga la sua capacità di produrre attività valutabile economicamente;
restano irrilevanti le eventuali integrazioni poi apportate dalla cessionaria;
nel senso della valorizzazione dell’organizzazione e dell’autonomia funzionale dell’entità ceduta si colloca la più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 11247/2016);
nel caso in esame già le deduzioni in fatto contenute nella memoria difensiva di primo grado rendono palese l’illegittimità della cessione di ramo d’azienda, dal momento che vi è il riferimento ad alcuni servizi di supporto perfettamente fungibili non connessi al ciclo di produzione riferito all’attività imprenditoriale;
dunque il ramo d’azienda è individuato in negativo per il fatto di essere i lavoratori addetti non operanti nell’ambito dell’attività imprenditoriale;
manca qualunque accenno all’aspetto organizzativo unificante il gruppo dei trentadue dipendenti, tale da renderli un’articolazione funzionalmente autonoma, così come manca il riferimento a dirigenti o quadri intermedi che guidino e coordinino l’attività lavorativa dei trentadue, anzi è specificamente allegato che profili dirigenziali sono stati inseriti solo successivamente al passaggio alla cessionaria (v. appello, p. 7);
non vi è neppure un accenno ad un comune e specifico know how tale da rendere i 32 dipendenti un gruppo capace di offrire un servizio in virtù del loro comune bagaglio professionale, anzi la loro provenienza da disparati settori aziendali della cedente rende plastica l’estraneità professionale degli uni rispetto agli altri;
inoltre sono stati trasferiti beni materiali di valore oggettivamente esiguo in raffronto al personale ceduto e quanto ai beni immateriali l’unico riferimento è all’installazione in corso del software da parte di ATEX;
dunque si è trattato di un mero passaggio di lavoratori da cedente a cessionaria ovvero di un’esternalizzazione di ‘spezzoni’ di servizi slegati funzionalmente fra loro e privi di autonoma organizzazione e funzionalità;
ove si chieda l’accertamento della persistenza del rapporto di lavoro alle dipendenze della cedente e la sua effettiva ricostituzione ex tunc , sussiste anche il diritto al relativo trattamento retributivo e contributivo, ivi compreso quindi l’obbligo di versamento dei contributi al fondo integrativo aziendale;
la fonte normativa dell’obbligo di iscrizione al fondo e del versamento contributivo deriva dagli accordi collettivi istitutivi del fondo e resi efficaci erga omnes dal d.P.R. n. 1158/1962, precisamente dall’accordo collettivo nazionale del 26/02/1958.
4.- Avverso tale sentenza RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
5.- COGNOME NOME ha resistito con controricorso.
6.- Entrambe le parti hanno depositato memoria.
7.- Il Collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.
CONSIDERATO CHE
1.Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. le ricorrenti lamenta no ‘violazione e falsa applicazione’ dell’art. 2112 c.c. per avere la Corte territoriale escluso la sussistenza degli elementi tipici del trasferimento di ramo d’azienda come individuati dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria e quindi per aver commesso un errore di sussunzione.
Il motivo è inammissibile.
Le ricorrenti, infatti, addebitano ai giudici d’appello di aver considerato come elementi da valutare soltanto l’ asset dei beni (materiali ed immateriali) ed il personale oggetto di trasferimento e dunque di aver omesso di considerare altri elementi di fatto, relativi soprattutto al contesto economicoproduttivo di riferimento in cui è stata realizzata l’operazione societaria. In tal modo sollecitano a questa Corte una nuova valutazione -complessiva e non atomistica -di plurimi elementi di fatto, che tuttavia è attività riservata al giudice di merito, come tale interdetta in sede di
legittimità. Infatti questa Corte ha più volte affermato che, in tema di trasferimento di ramo d’azienda, la verifica della sussistenza dei presupposti dell’autonomia funzionale e della preesistenza, rilevanti ai sensi dell’art. 2112, co. 5, c.c., integra un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, censurabile per cassazione alla stregua dell’art. 360, n. 3, c.p.c., laddove alla fattispecie, così come accertata dal giudice di merito, sia stata applicata una norma dettata per disciplinare ipotesi diverse (c.d. vizio di sussunzione), ovvero sulla base dell’art. 360, n. 5, c.p.c., nell’ipotesi in cui sia stato omesso l’esame di un fatto decisivo per il giudizio, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che sia stato oggetto di discussione tra le parti.
Nel caso in esame non sussiste il lamentato vizio di sussunzione, atteso che le ricorrenti non censurano l’accertamento in fatto della Corte territoriale circa l’esiguità dei beni materiali ed immateriali oggetto di cessione e l’estrema eterogeneità professionale dei dipendenti ceduti (non esclusa dal minimo ed irrilevante dato comune di essere ‘tutti lavoratori non giornalisti’: v. ricorso per cassazione, p. 27). In presenza di tali elementi fattuali, sul piano della sussunzione la sentenza impugnata si rivela corretta, laddove ha escluso la loro riconducibilità all’art. 2112 c.c. , atteso che la nozione di azienda e di un suo ramo va pur sempre desunta dal combinato disposto degli artt. 2082 e 2555 c.c.
2.Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c. le ricorrenti lamentano la nullità della sentenza per travisamento della prova e conseguente violazione dell’art. 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale escluso la legittimità della cessione di ramo d’azienda sulla base dell’inesistenza di personale AVV_NOTAIO e di quadri intermedi con funzione di guida e di coordinamento del l’attività lavorativa.
Il motivo è inammissibile, perché a sua volta frutto di una non corretta lettura de lla sentenza d’appello.
La Corte territoriale, infatti, ha escluso la sussistenza dell’autonomia organizzativa del ramo ceduto sulla base della circostanza per cui fra i dipendenti ceduti mancavano dirigenti o quadri intermedi che, con le loro funzioni direttive e di coordinamento, avrebbero – in via di mera ipotesi potuto conferire il necessario carattere di autonomia a quel gruppo di
lavoratori. Tale circostanza è stata ritenuta pacifica dalla Corte territoriale e desunta dalla stessa difesa delle allora appellanti: a pag. 7 del ricorso d’appello come ricorda la Corte territoriale -era stata infatti allegata l’adibizione del AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO NOME COGNOME a quel gruppo solo successivamente al trasferimento del ramo aziendale.
Che poi, come deducono le odierne ricorrenti, presso la cessionaria fossero già presenti alcune figure dirigenziali o di quadri intermedi è circostanza del tutto irrilevante, perché non idonea a conferire al ramo d’azienda ceduto quel carattere di autonomia organizzativa presso la cedente ( id est preesistenza) , invece necessario ai fini dell’applicabilità dell’art. 2112 c.c.
3.Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. le ricorrenti lamenta no ‘violazione e falsa applicazione’ degli artt. 2112 e 2697 c.c., 115, 116 e 416 c.p.c. per avere la Corte territoriale utilizzato elementi di prova senza sottoporli al suo prudente e critico apprezzamento.
In particolare addebitano ai giudici d’appello di aver considerato l’esiguità dei beni materiali ed immateriali, omettendo di considerare che la giurisprudenza ammette anche cessioni ‘dematerializzate’ di ramo d’azienda.
Il motivo è inammissibile, perché non si confronta con la specifica ratio decidendi della sentenza impugnata, secondo cui quell’esiguità dei beni materiali ed immateriali in tanto assume rilevanza per escludere la fattispecie del trasferimento di ramo d’azienda ex art. 2112 c.c. , in quanto il gruppo dei dipendenti ceduti non possedeva alcuno specifico e comune know how . Quest’affermazione è corretta in diritto: proprio il know how è essenziale per conferire il carattere di autonomia organizzativa ad un gruppo di dipendenti nei trasferimenti d’azienda o di ramo d’azienda ‘dematerializzati’, ossia privi di beni materiali, e quindi per rendere in tal modo applicabile la direttiva europea 2001/23/CE, come interpretata dalla Corte G.U.E. (sentenze 20/01/2011, causa C-463/09; 06/03/2014, causa C-458/12; 13/06/2019, causa C-664/17) ed in ultima analisi l’art. 2112 c.c.
In tali sensi da tempo questa Corte di legittimità ha affermato che può configurarsi un trasferimento aziendale legittimo ex art. 2112 c.c. che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed
organizzati tra loro, a condizione che l ‘autonoma capacità operativa del gruppo sia assicurata dal fatto che tutti i dipendenti che ne fanno parte siano dotati di un particolare know how (Cass. n. 13068/2005; Cass. n. 5678/2013; Cass. n. 24972/2016).
Ne consegue che la decisione impugnata è conforme al consolidato orientamento di legittimità secondo cui un complesso di servizi – privi di struttura aziendale autonoma e preesistente, che restino disomogenei per funzioni svolte e professionalità coinvolte, non integrati tra loro e privi di coordinamento unitario – non costituisce ramo d’azienda ai sensi dell’art. 2112 cod. civ. ( ex multis Cass. n. 11832/2014; Cass. n. 7364/2021, che ha confermato la sentenza di merito di inapplicabilità dell’art. 2112 c.c. al trasferimento di un gruppo di lavoratori di un istituto bancario dotati di professionalità eterogenee, come tali inidonee a configurare il presupposto dell’autonomia funzionale del servizio ceduto).
Come già affermato da questa Corte (Cass. ord. n. 33734/2023) ai fini di un fenomeno traslativo legittimo ex art. 2112 c.c. non è sufficiente la mera decisione, assunta dal cedente, di unificare alcuni beni e lavoratori, affidando a questi un’unica funzione al momento del trasferimento, la cui considerazione in termini di sufficienza si porrebbe in contrasto sia con le direttive CE nn. 1998/50 e 2001/23 – che richiedono già prima di quest’atto “un’entità economica che conservi la propria identità” – sia con gli articoli 4 e 36 Cost., che impediscono di rimettere discipline inderogabili di tutela dei lavoratori ad un mero atto di volontà del datore di lavoro, insindacabile per l’assenza di riferimenti oggettivi. Dunque, per “ramo d’azienda”, ai sensi dell’art. 2112 c.c. (come sostituito dalla prima parte dell’art. 32 d.lgs. n. 276/2003), deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile, la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità. Ciò presuppone, comunque, una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste) e non anche una struttura produttiva creata “ad hoc” in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo. Ne consegue che è da ritenersi preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici ovvero di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla
volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto di lavoro ad una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità (Cass. n. 8757/2014).
4.Con il quarto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. le ricorrenti lamenta no ‘violazione e falsa applicazione’ degli artt. 14 d.lgs. n. 252/2005, 1 dell’accordo collettivo nazionale del 26/02/1958, e CCNL per i dipendenti di aziende editrici e stampatrici di giornali quotidiani ed agenzia di stampa.
In particolare le ricorrenti, con una pluralità di censure, addebitano alla Corte territoriale:
di aver condannato la cedente al versamento dei contributi dovuti al fondo RAGIONE_SOCIALE sin dall’interruzione del rapporto di lavoro, laddove la stessa giurisprudenza di legittimità richiamata dai giudici d’appello afferma il diritto del dipendente di ricevere le retribuzioni solo per il periodo successivo alla declaratoria di illegittimità della cessione d’azienda, mentre per il periodo precedente sussiste soltanto il diritto al risarcimento del danno;
di aver individuato la fonte normativa di tale obbligo nell’accordo collettivo del 26/02/1958, il quale tuttavia, per il caso di inadempimento da parte della datrice di lavoro, prevede solo il diritto del lavoratore al risarcimento del danno;
di aver omesso di considerare che l’art. 14 d.lgs. n. 252/2005 è disciplina speciale, che riserva agli statuti e ai regolamenti delle forme pensionistiche complementari la determinazione delle modalità di esercizio relative alla partecipazione alle forme medesime, senza che possa applicarsi l’istituto civilistico della delegazione di pagamento e della sua revoca (Cass. n. 2406/2022);
di aver trascurato che il CCNL poligrafici -che prevedeva l’obbligo di versamento anche al c.d. fondo COGNOME -era scaduto in data 31/12/2011 e che in ogni caso RAGIONE_SOCIALE aveva dedotto che, successivamente alla cessione del ramo d’azienda, non era stato più applicato il CCNL poligrafici.
Il motivo è infondato in relazione a tutte le censure.
Sub a), premesso che nel caso in esame la Corte d’appello, nel passaggio
motivazionale censurato, ha solo affermato che spetta il versamento contributivo, senza alcuna specificazione circa la natura di tale versamento contributivo, sicché il motivo si presenta generico e lacunoso anche sotto il profilo dell’interesse della parte ricorrente ad una tale specificazione, il motivo è infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui « In ipotesi di declaratoria di illegittimità della cessione di azienda, l’obbligo contributivo previdenziale permane in capo al cedente anche in relazione al periodo per il quale la prestazione lavorativa è stata resa in favore del cessionario, restando irrilevanti sia le vicende relative alla retribuzione dovuta dal cedente, sia l’eventuale pagamento di contributi da parte del cessionario in relazione allo stesso periodo» (Cass. n. 9143/2023).
S ub b) l’accordo collettivo del 1958 prevede l’obbligo del versamento del contributo previdenziale in via principale. In caso di inadempimento prevede ovviamente il diritto del lavoratore al risarcimento del danno (da intendere anche in forma specifica) , ma non esclude affatto l’obbligo principale del quale è pur sempre rivendicabile l’adempimento, qualora ancora possibile .
S ub c) l’art. 14 d.lgs. n. 252/2005 è irrilevante, posto che la fonte normativa dell’obbligo in esame è rappresentato dall’accordo collettivo sopra ricordato, reso efficace erga omnes dal d.P.R. n. 1158/1962.
Sub d) la questione è inammissibile perché, nel silenzio della Corte d’appello al riguardo, deve ritenersi nuova, introduttiva di circostanze di fatto nuove e le ricorrenti non hanno specificato se, in quale atto processuale e in quale fase quella questione sia stata ritualmente posta nei precedenti gradi del giudizio di merito. Ne consegue la mancanza del requisito della necessaria specificità del motivo e/o della censura.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna le ricorrenti a rimborsare le spese del giudizio di legittimità, che liquida in favore di ciascun controricorrente in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge.
Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi
dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, in