Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 33144 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 33144 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 18/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 5666-2023 proposto da:
NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME , elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 583/2022 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 14/11/2022 R.G.N. 105/2022;
Oggetto
Lavoro privato
R.G.N. 5666/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 07/11/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/11/2024 dal Consigliere Dott. NOMECOGNOME
RILEVATO CHE
la Corte di Appello di Venezia, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva revocato i decreti ingiuntivi concesso a NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME nei confronti di RAGIONE_SOCIALE aventi ad oggetto il pagamento di un emolumento denominato ‘superminimo non assorbibile’ non più corrisposto dal mese di maggio 2020 a seguito della disdetta dell’accordo collettivo di salvaguardia del 28.4.1997 e del contratto collettivo integrativo aziendale del 4.3.2010, i quali prevedevano tale emolumento;
per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso le soccombenti con tre motivi, ai quali ha resistito l’intimata società con controricorso;
entrambe le parti hanno comunicato memorie; in particolare, parte ricorrente ha formulato istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ex art. 267 TFUE; all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
i motivi di ricorso possono essere esposti secondo la sintesi offerta dalla stessa parte ricorrente:
1.1. il primo motivo denuncia: ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 2112, co. 1 e co. 3, c.c., nonché dell’art. 2103 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello ammesso la possibilità che, in sede di trasferimento d’aziend a
ad altro soggetto che applica contratto collettivo deteriore, sia ammissibile la riduzione dei livelli retributivi in contrasto con il principio di irriducibilità della retribuzione’;
1.2. il secondo motivo denuncia: ‘In subordine: violazione e falsa applicazione dell’art. 2112, co. 1 e co. 3, c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello escluso che, in sede di trasferimento d’azienda ad altro soggetto che app lica contratto collettivo deteriore, le differenze retributive restino comunque a vantaggio del lavoratore quale superminimo destinato ad essere assorbito dalle future modifiche del trattamento previsto dai contratti collettivi, in applicazione del divieto di reformatio in peius per il caso di trasferimento d’azienda, ritenuto intangibile dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia UE’;
1.3. il terzo motivo denuncia: ‘In ulteriore subordine: Travisamento della prova, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c., e conseguente violazione e falsa applicazione degli artt. 1363 e 1362, co. 2, c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello proceduto all’esegesi dell’Accordo di salvaguardia del 28.4.1997 sulla base di elementi bensì riconducibili ai principi ermeneutici codicistici (criterio dell’interpretazione complessiva, criterio della condotta delle parti), sulla base però di un apprezzamento travisato delle risultanze di causa, tale da ridondare in violazione di quei medesimi criteri’;
il ricorso non può trovare accoglimento in ragione delle motivazioni già espresse da questa Corte nella medesima vicenda su motivi sovrapponibili a quelli articolati nel presente giudizio (cfr. Cass. n. 18924 del 2024, Cass. n. 18936 del 2024, Cass. n. 18941 del 2024, in conformità a Cass. n. 37291 del
2021; ma vedi pure, in connessione, Cass. n. 18902 e 18913 del 2024);
nonostante le osservazioni contenute nella memoria dei ricorrenti, attentamente esaminate, il Collegio non riscontra elementi decisivi per mutare il richiamato orientamento (cfr. art. 360 bis, comma 1, n. 1, c.p.c.), atteso che, una volta che l’interpretaz ione della regula iuris è stata enunciata con l’intervento nomofilattico della Corte regolatrice, essa ‘ha anche vocazione di stabilità, innegabilmente accentuata (in una corretta prospettiva di supporto al valore delle certezze del diritto) dalle novelle del 2006 (art. 374 c.p.c.) e 2009 (art. 360 bis c.p.c., n. 1)’ (Cass. SS.UU. n. 15144 del 2011); invero, la ricorrente affermazione nel senso della non vincolatività del precedente deve essere armonizzata con l’esigenza di garantire l’uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale attraverso il ruolo svolto dalla Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. n. 23675 del 2014), atteso che, in un sistema che valorizza l’affidabilità e la prevedibilità delle decisioni, il quale influisce positivamente anche sulla ridu zione del contenzioso, vi è l’esigenza, avvertita anche dalla dottrina, ‘dell’osservanza dei precedenti e nell’ammettere mutamenti giurisprudenziali di orientamenti consolidati solo se giustificati da gravi ragioni’ (in termini: Cass. SS.UU. n. 11747 del 2019; conf. Cass. n. 2663 del 2022), nella specie non ravvisabili, tenuto altresì conto della primaria necessità di garantire – ai cittadini che si rivolgano al giudice per tutelare analoghe situazioni soggettive -delle condizioni di effettiva eguaglianza innanzi alla legge; ne consegue che, in mancanza di ragioni nuove e diverse da quelle disattese nei giudizi analoghi, non presenti nel caso in esame, deve operare il principio di fedeltà ai precedenti, ‘ispirato dall’esigenza di tenuta (per quanto possibile) del sistema giurisprudenziale del
giudice della nomofilachìa che deve favorire la ‘stabilizzazione’ dei principi giuridici che incidono soprattutto su questioni di rilevanza ed applicazione diffuse’ (da ultimo v. Cass. SSUU n. 8486 del 2024, che richiama appunto Cass. SS.UU. n. 23675/2014 cit.);
ne consegue che il Collegio non ravvisa neanche le condizioni per rimettere la trattazione del ricorso alla pubblica udienza, atteso che la valutazione degli estremi per la trattazione ex art. 375 c.p.c., e, specificamente, della particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta, rientra nella discrezionalità del collegio giudicante (Cass. n. 5533 del 2017; Cass. n. 26480 del 2020);
pertanto, deve essere confermato e ribadito quanto segue;
2.1. i primi due motivi, per quanto il secondo sia articolato subordinatamente al primo, possono essere trattati congiuntamente per connessione;
infatti, in ordine alla pretesa violazione dell’art. 2112 c.c. la sentenza impugnata è dichiaratamente conforme a Cass. n. 37291 del 2021 (in conf. v. Cass. n. 10120 del 2024, oltre quelle citate in premessa);
2.1.1. Cass. n. 37291/2021 cit. rammenta che, nell’interpretare l’art. 2112, comma 3, c.c., questa Corte ha ritenuto applicabile ai dipendenti ceduti il contratto collettivo in vigore presso la cessionaria, anche se più sfavorevole, atteso il loro inserimento nella nuova realtà organizzativa e nel mutato contesto di regole, anche retributive, potendo trovare applicazione l’originario contratto collettivo nel solo caso in cui presso la cessionaria i rapporti di lavoro non siano regolamentati da alcuna disciplina collettiva (v. Cass. n. 19303 del 2015; Cass. n. 10614 del 2011; Cass. n. 5882 del 2010, a proposito di fusione o incorporazione
di società; v. anche Cass. n. 20918 del 2020 in materia di pubblico impiego contrattualizzato);
ha precisato, poi, che l’art. 3 n. 3 della direttiva 2001/23 (secondo cui “Dopo il trasferimento, il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo o dell’entrata in vigore o dell’applicazione di un altro contratto collettivo”), come interpretato dalla Corte di Giustizia, “mira ad assicurare il mantenimento di tutte le condizioni di lavoro conformemente alla volontà delle parti contraenti del contratto collettivo e ciò nonostante il trasferimento di impresa. Per contro questa stessa disposizione non è idonea a derogare alla volontà di dette parti così come manifestata nel contratto collettivo. Di conseguenza, se le parti contraenti hanno stabilito di non garantire talune condizioni di lavoro oltre una determinata data, l’art. 3 n. 3 della direttiva 2001/23 non può imporre al cessionario l’obbligo di rispettarle posteriormente alla data convenuta di scadenza del contratto collettivo, giacché, al di là di questa data, il contratto collettivo di cui trattasi non è più in vigore. Ne consegue che l’art. 3 n. 3 non impone al cessionario di garantire il mantenimento delle condizioni di lavoro stabilite con il cedente oltre la data della scadenza del contratto collettivo (v. sentenza Corte Giustizia del 27.11.2008, C396/07, punti 33 e 34)’;
in Cass. n. 37291/2021 cit. si evidenzia pure come, nella successiva sentenza del 6.9.2011, C-108/10 (NOME COGNOME, la Corte di Giustizia abbia ribadito: “73. la norma prevista dall’art. 3, n. 2, secondo comma, della direttiva 77/187 ( ndr. , coincidente con l’art. 3 n. 3 direttiva 2001/23) non può privare di contenuti il primo comma del medesimo numero. Pertanto,
questo secondo comma non osta a che le condizioni di lavoro enunciate in un contratto collettivo che si applicava al personale interessato prima del trasferimento cessino di essere applicabili al termine di un anno successivo al trasferimento, se non addirittura immediatamente alla data del trasferimento, quando si realizzi una delle ipotesi previste dal primo comma di detto numero, ossia la risoluzione o la scadenza di detto contratto collettivo oppure l’entrata in vigore o l’applicazione di un altro contratto collettivo (v. sentenza 9 marzo 2006, causa C-499/04, Werhof, Racc. pag. 1-2397, punto 30, nonché, in tema di art. 3, n. 3, della direttiva 2001/23, sentenza 27 novembre 2008, causa C-396/07, Juuri, Racc. pag. 1-8883, punto 34). 74. Di conseguenza, la norma prevista dall’art. 3, n. 2, primo comma, della direttiva 77/187, ai sensi della quale «il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente, fino alla data (…) applicazione di un altro contratto collettivo», dev’essere interpretata nel senso che il cessionario ha il diritto di applicare, sin dalla data del trasferimento, le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione”;
2.1.2. occorre aggiungere che la medesima sentenza della Corte di Giustizia sul caso COGNOME, al punto 75, ha affermato che ‘la direttiva 77/187 lascia un margine di manovra, che consente al cessionario e alle altre parti contraenti di stabilire l’integrazion e retributiva dei lavoratori trasferiti in modo tale che questa risulti debitamente adattata alle circostanze del trasferimento in questione, ‘; quanto all’assunto di parte ricorrente secondo cui l’interpretazione offerta nella specie dalla Corte territoriale osterebbe al perseguimento dello scopo di detta direttiva, è sufficiente sottolineare che, come la Corte di
Giustizia ha ripetutamente dichiarato, quest’obiettivo consiste, essenzialmente, nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole ‘per il solo fatto del trasferimento’ (sentenza 26 maggio 2005, causa C-478/03, Celtec, Racc. pag. I-4389, punto 26 e giurisprudenza ivi citata, nonché, in merito alla direttiva 2001/23, ordinanza 15 settembre 2010, causa C-386/09, Briot, punto 26); è stato così già rilevato che il trasferimento d’azienda ‘non può deter minare per il lavoratore trasferito un peggioramento retributivo ossia condizioni di lavoro meno favorevoli di quelle godute in precedenza, secondo una valutazione comparativa da compiersi all’atto del trasferimento, in relazione al trattamento retributivo globale, compresi gli istituti e le voci erogati con continuità, ancorché non legati all’anzianità di servizio’ (cfr. Cass. 35423 del 2022); ossia, la direttiva vieta che il trasferimento d’azienda consenta un trattamento retributivo deteriore al momento della cessione e ‘per il solo fatto del trasferimento’, ma chiaramente non può impedire che successivamente la retribuzione dei lavoratori trasferiti possa essere influenzata dalle dinamiche contrattuali che ab externo la disciplinano;
nel caso all’attenzione del Collegio non solo è incontestato che al momento del trasferimento le ricorrenti non abbiano subito una decurtazione della retribuzione, ma anche che il trattamento migliorativo assegnato loro rispetto agli altri dipendenti della cessionaria è stato preservato per oltre venti anni; che tale fatto sia conseguenza dell’applicazione di un accordo negoziale non mette in dubbio che, nella specie, i lavoratori coinvolti nel trasferimento non siano stati collocati in una posizione meno favorevole per il verificarsi della cessione del rapporto di lavoro; ma ciò non rende intangibile il loro
trattamento retributivo in ragione del legittimo mutare delle condizioni contrattuali collettive, allo stesso modo come non è intangibile quello di altri lavoratori della cessionaria non coinvolti dal trasferimento;
2.2. infondata anche la pretesa violazione dell’art. 2103 c.c.; per un verso il trattamento retributivo goduto dalle ricorrenti fino al 31/12/1996 non era determinato dal contratto individuale, ma pur sempre da un contratto collettivo (all’epoca il contratto c ollettivo UPA), che, come tale, resta ‘fonte’ esterna al rapporto individuale di lavoro, sicché le sue clausole ben potevano essere modificate anche in peius da successivi contratti collettivi; per altro verso, la clausola del superminimo può ritenersi incorporata nel contratto individuale di lavoro, come tale insensibile ai successivi mutamenti del contratto collettivo, solo se destinata a compensare determinate qualità professionali del dipendente o determinate mansioni oppure specifiche modalità di esecuzione della prestazione lavorativa; nella specie non risulta che il superminimo non assorbibile in contesa fosse riconosciuto alle ricorrenti per una delle specifiche ragioni sopra dette;
il terzo motivo è inammissibile;
3.1. viene evocato il ‘travisamento della prova’ e il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. al di fuori dei limiti posti dalle Sezioni unite di questa Corte che ha chiarito: «Il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la
sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere, in concorso dei presupposti di legge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c., a seconda si trat ti di fatto processuale o sostanziale» (Cass. SS.UU. n. 5792 del 2024); concorso dei presupposti di legge che nella specie non ricorre, sia per quanto riguarda il vizio di cui al n. 4 dell’articolo 360 c.p.c., atteso che la motivazione impugnata certamente supera sul punto la soglia del cd. ‘ minimum costituzionale’, sia in ordine al vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., denunciato nella specie senza il rispetto degli enunciati prescritti da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014;
evidente che, se il motivo di ricorso per cassazione viene proposto con la congiunta evocazione del vizio descritto sia dal n. 5 che dal n. 3 dell’art. 360 c.p.c., sull’assunto che i ‘principi ermeneutici codicistici’ applicati dalla Corte territoriale nel la ‘esegesi dell’Accordo di salvaguardia del 28.4.1997’ si basano su di ‘un apprezzamento travisato delle risultanze di causa’, una volta dichiarata inammissibile tale ultima doglianza, il fondamento dell’intero motivo viene meno;
3.2. in ogni caso, circa l’eccepita violazione e falsa applicazione dei canoni ermeneutici va ribadito, a conferma dei precedenti citati in premessa, che si sollecita solamente una diversa interpretazione dell’accordo del 28/4/1997, attività, come noto, interd etta in sede di legittimità, atteso che l’accertamento della volontà negoziale si sostanzia in un accertamento di fatto (tra molte, Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 12360 del 2014), riservato all’esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006; da ultimo, conf. Cass. n. 22318 del 2023); per risalente insegnamento, tali valutazioni del giudice di merito in proposito soggiacciono, nel
giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente ( ex plurimis , Cass. n. 21576 del 2019; Cass. n. 20634 del 2018; Cass. n. 4851 del 2009; Cass. n. 3187 del 2009; Cass. n. 15339 del 2008; Cass. n. 11756 del 2006; Cass. n. 6724 del 2003; Cass. n. 17427 del 2003); inoltre, sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica, sia la denuncia di vizi motivazionali esigono una specifica indicazione – ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata l’anzidetta violazione e delle ragioni della insanabile contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito – non potendo le censure risolversi, in contrasto con l’interpretazione loro attribuita, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (tra le innumerevoli: Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468 del 2004; Cass. n. 22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003; Cass. n. 12366 del 2002; Cass. n. 11053 del 2000);
3.3. nella specie, al cospetto dell’approdo esegetico cui è pervenuta la Corte distrettuale parte ricorrente, nella sostanza, si limita a rivendicare un’alternativa interpretazione plausibile più favorevole in odine all’Accordo di Salvaguardia del 28/4/1997; ma per sottrarsi al sindacato di legittimità quella data dal giudice al testo non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di un testo negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 10131 del 2006);
4. resta da esaminare l’istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 TFUE (già art. 234 del Trattato che istituisce la Comunità Europea), sul quesito così formulato dai ricorrenti: «se sia compatibile con l’art. 3, n. 2, della direttiva 1977/187 (coincidente con l’art. 3, n. 3, della direttiva 2001/23) l’interpretazione dell’art. 2112, co. 3, c.c. nel senso che il datore di lavoro -purché assicuri delle condizioni egualmente favorev oli nell’esatto ista nte del trasferimento d’azienda ha poi la libertà di mutare a sua discrezione anche in peius queste condizioni in qualunque momento»;
4.1. opportuno premettere che, secondo questa Corte Suprema, l’obbligo di rinvio per il giudice nazionale di ultima istanza viene meno quando non sussista la necessità di una pronuncia pregiudiziale sulla normativa comunitaria, in quanto la questione sollevata sia materialmente identica ad altra, già sottoposta alla Corte in analoga fattispecie, ovvero quando sul problema giuridico esaminato si sia formata una consolidata giurisprudenza di detta Corte (tra molte: Cass. n. 4776 del 2012); similmente, il rinvio pregiudiziale, quantunque obbligatorio per i giudici di ultima istanza, presuppone che la questione interpretativa controversa abbia rilevanza in relazione al thema decidendum sottoposto all’esame del giudice nazionale e alle norme interne che lo disciplinano (Cass. SS.UU. n. 8095 del 2007);
invero è noto (Cass. SS.UU. n. 20701 del 2013) che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a semplice richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità: infatti, esso ha la funzione di verificare la legittimità di una legge nazionale rispetto al diritto dell’Unione Europea e se la
normativa interna sia pienamente rispettosa dei diritti fondamentali della persona, quali risultanti dall’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo e recepiti dal Trattato sull’Unione Europea; sicché il giudice, effettuato tale riscontro, non è obbligato a disporre il rinvio solo perché proveniente da istanza di parte (tra le altre: Cass. n. 6862 del 2014; Cass. n. 13603 del 2011);
d’altro canto, è incontrastato l’enunciato, più volte ribadito da questa Corte a Sezioni unite, secondo cui la CGUE, nell’esercizio del potere di interpretazione di cui all’art. 234 del Trattato istitutivo della Comunità economica europea, non operi come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale (Cass. SS.UU. n. 30301 del 2017; in precedenza: Cass. SS.UU. nn. 16886/2013, 2403/14, 2242/15, 23460/15, 23461/15, 10501/16 e 14043/16);
4.2. tali arresti risultano coerenti anche con quanto statuito dalla stessa Corte di Giustizia (da ultimo: CGUE, Grande Sezione, 15 ottobre 2024, C-144/23);
qualora non esista alcun ricorso giurisdizionale di diritto interno avverso la decisione di una giurisdizione nazionale, quest’ultima è, in linea di principio, tenuta a rivolgersi alla Corte ai sensi dell’articolo 267, terzo comma, TFUE, quando è chiamata a pronunciarsi su una questione d’interpretazione del diritto dell’Unione o sulla validità di un atto di diritto derivato (v., in tal senso, sentenza del 18 luglio 2013, Consiglio Nazionale dei Geologi, C-136/12, punto 25; del 6 ottobre 2021, Consorzio RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, C-561/19, punto 32, nonché del 22 dicembre 2022, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, C-83/21, punto 79);
tuttavia, una giurisdizione nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno è esonerata dall’obbligo previsto dall’articolo 267 citato quando abbia constatato che la questione sollevata non è rilevante, o che la disposizione del diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte di Giustizia, oppure che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi (sentenze del 6 ottobre 1982, RAGIONE_SOCIALE e a., 283/81, punto 21, nonché del 6 ottobre 2021, RAGIONE_SOCIALE, C-561/19, punto 33);
spetta alla giurisdizione nazionale valutare sotto la propria responsabilità e in modo indipendente se ha l’obbligo di sottoporre alla Corte la questione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad essa o se, al contrario, si trova in una delle situazioni che le consentono di essere esonerata da tale obbligo (cfr., sentenze del 15 settembre 2005, RAGIONE_SOCIALE, C-495/03, punto 37, nonché del 6 ottobre 2021, RAGIONE_SOCIALE, C-561/19, punto 50 e giurisprudenza ivi citata) e, qualora si trovi in presenza di una di queste situazioni, non è quindi tenuta ad adire la Corte di Giustizia, anche se la questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione fosse sollevata da una parte nel procedimento dinanzi ad essa (v. sentenza del 6 ottobre 2021, RAGIONE_SOCIALE, C-561/19, punto 57 e giurisprudenza ivi citata);
4.3. tanto premesso, avuto riguardo alle circostanze di causa e alla concreta interpretazione delle norme di diritto interno applicabili alla controversia, questa Corte non ritiene sussistano le condizioni per attivare la procedura ex art. 267 TFUE;
ciò sia perché le disposizioni del diritto dell’Unione di cui trattasi sono già stata oggetto di interpretazione da parte della Corte di Giustizia, che si è espressa più volte in proposito, come sopra già evidenziato in relazione allo scrutinio dei primi due motivi di ricorso per cassazione, ma anche perché la questione, così come prospettata da parte ricorrente, non è quella rilevante ai fini della soluzione della controversia, in quanto si riferisce ad una ipotesi ben diversa da quella all’attenzione del Collegio, ove le condizioni retributive dei lavoratori istanti oggetto di controversia sono quelle di venti anni dopo la cessione d’azienda, sicché neanche può ipotizzarsi, nel caso concreto e per il concorrere di plurimi elementi, che sia stato pregiudicato il perseguimento dello scopo della direttiva più volte richiamata di impedire che i lavoratori coinvolti in quella cessione siano stati collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto di quel trasferimento;
conclusivamente il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese liquidate come da dispositivo secondo il regime della soccombenza;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ult eriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le soccombenti al pagamento delle spese liquidate in euro 4.200,00, oltre euro
200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 7 novembre