Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 18924 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 18924 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso 5355-2023 proposto da:
COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME ; elettivamente domiciliate in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che le rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 590/2022 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 07/11/2022 R.G.N. 319/2022;
Oggetto
Art. 2112 c.c.
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 08/05/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/05/2024 dal AVV_NOTAIO.
RILEVATO CHE
la Corte di Appello di Venezia, con la sentenza impugnata, in riforma delle pronunce di primo grado, ha revocato i decreti ingiuntivi concessi alle lavoratrici in epigrafe nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, aventi ad oggetto il pagamento di un emolumento denominato ‘superminimo non assorbibile’ non più corrisposto dal mese di maggio 2020 a seguito della disdetta dell’accordo collettivo di salvaguardia del 28.4.1997 e del contratto collettivo integrativo aziendale del 4.3.2010, i quali prevedevano tale emolumento;
la Corte ha premesso in fatto che: le appellate sono state dipendenti dell’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE con applicazione fino al 31/12/1996 di un CCNL di primo livello ad hoc ; con effetto dall’01/01/1997 RAGIONE_SOCIALE cedeva ai sensi dell’art. 2112 c.c. ad RAGIONE_SOCIALE (poi trasformata in RAGIONE_SOCIALE) il ramo d’azienda relativo al servizio di elaborazione dati e servizi fiscali; dall’01/01/1997 a tutti i dipendenti, sia a quelli transitati in RAGIONE_SOCIALE, sia a quelli rimasti in RAGIONE_SOCIALE, veniva applicato il CCNL del settore terziario; dalla stessa data dell’01/01/1997 a tutti i dipendenti veniva riconosciuto un ‘superminimo non assorbibile’ pari alla differenza tra il trattamento retributivo prima goduto in base al contratto RAGIONE_SOCIALE e quello previsto dal CCNL terziario; in data 28/04/1997 veniva stipulato fra RAGIONE_SOCIALE e la Commissione in rappresentanza del personale impiegatizio un accordo di salvaguardia, secondo cui dall’01/01/1997 tutto il personale sarebbe stato sottoposto al CCNL per i dipendenti da aziende
del terziario ed eventuali differenze in meno rispetto al precedente CCNL UPA sarebbero state colmate mediante un superminimo non assorbibile; in data 02/07/2004 tale disciplina veniva recepita in accordo integrativo aziendale, stipulato da RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE da un lato, e le RAGIONE_SOCIALE dall’altro, secondo cui le condizioni di miglior favore in essere per gli assunti ante 1997 venivano mantenute; in data 27/11/2018 la società comunicava alle organizzazioni sindacali formale disdetta da tutti gli accordi integrat ivi, con effetto dall’01/04/2019, poi differito all’01/05/2020, data a decorrere dalla quale in busta paga è venuto meno il superminimo non assorbibile;
la Corte ha, poi, argomentato in diritto che l’Accordo di Salvaguardia del 28 aprile 1997, da cui derivava il diritto delle istanti al trattamento di un ‘superminimo’, aveva natura di accordo collettivo, sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, per cui legittimamente era stato disdettato nel novembre 2018, senza che da detto Accordo potesse trarsi una espressa e inequivoca volontà delle parti sociali di sottrarre alla dimensione collettiva la regolamentazione del diritto a quel trattamento migliorativo;
quanto alla pretesa violazione dell’art. 2112 c.c., i giudici d’appello hanno richiamato un precedente di questa Corte (Cass. n. 37291 del 2021) il quale ha evidenziato che il diritto dell’RAGIONE_SOCIALE Europea ‘non impone al cessionario di garantire il mantenimento delle condizioni di lavoro stabilite con il cedente oltre la data della scadenza del contratto collettivo’, mentre nella specie tale trattamento di favore era stato mantenuto per oltre venti anni;
infine, in ordine all’applicazione dell’invocato principio di irriducibilità della retribuzione ex art. 2103 c.c., la Corte ha osservato che esso non consente per il futuro la conservazione
di voci retributive di fonte collettiva nel patrimonio individuale del lavoratore in ipotesi di recesso dal contratto collettivo;
per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso le soccombenti con tre motivi, ai quali ha resistito l’intimata società con controricorso;
entrambe le parti hanno comunicato memorie e la difesa delle ricorrenti ha insistito per la rimessione della causa in udienza pubblica;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
CONSIDERATO CHE
i motivi di ricorso possono essere esposti secondo la sintesi offerta dalla stessa parte ricorrente:
1.1. il primo motivo denuncia: ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 2112, co. 1 e co. 3, c.c., nonché dell’art. 2103 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello ammesso la possibilità che, in sede di trasferimento d’aziend a ad altro soggetto che applica contratto collettivo deteriore, sia ammissibile la riduzione dei livelli retributivi in contrasto con il principio di irriducibilità della retribuzione’;
1.2. il secondo motivo denuncia: ‘In subordine: violazione e falsa applicazione dell’art. 2112, co. 1 e co. 3, c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello escluso che, in sede di trasferimento d’azienda ad altro soggetto che app lica contratto collettivo deteriore, le differenze retributive restino comunque a vantaggio del lavoratore quale superminimo destinato ad essere assorbito dalle future modifiche del trattamento previsto dai contratti collettivi, in applicazione del divieto di reformatio in peius per il caso di trasferimento
d’azienda, ritenuto intangibile dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia UE’;
1.3. il terzo motivo denuncia: ‘In ulteriore subordine: Travisamento della prova, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c., e conseguente violazione e falsa applicazione degli artt. 1363 e 1362, co. 2, c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello proceduto all’esegesi dell’Accordo di salvaguardia del 28.4.1997 sulla base di elementi bensì riconducibili ai principi ermeneutici codicistici (criterio dell’interpretazione complessiva, criterio della condotta delle parti), sulla base però di un apprezzamento travisato delle risultanze di causa, tale da ridondare in violazione di quei medesimi criteri’;
2. il ricorso non può trovare accoglimento;
i primi due motivi, per quanto il secondo sia articolato subordinatamente al primo, possono essere trattati congiuntamente per connessione;
2.1. infatti, in ordine alla pretesa violazione dell’art. 2112 c.c. la sentenza impugnata è dichiaratamente conforme a Cass. n. 37291 del 2021 (in conf. v. Cass. n. 10120 del 2024), rispetto alla quale il ricorso non prospetta dirimenti ragioni per mutare orientamento; il Collegio, quindi, non ravvisa neanche le condizioni per rimettere la trattazione del ricorso alla pubblica udienza; invero, la valutazione degli estremi per la trattazione ex art. 375 c.p.c., e, specificamente, della particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta, rientra nella discrezionalità del collegio giudicante (Cass. n. 5533 del 2017; Cass. n. 26480 del 2020);
2.1.1. Cass. n. 37291/2021 cit. rammenta che, nell’interpretare l’art. 2112, comma 3, c.c., questa Corte ha ritenuto applicabile ai dipendenti ceduti il contratto collettivo in vigore presso la
cessionaria, anche se più sfavorevole, atteso il loro inserimento nella nuova realtà organizzativa e nel mutato contesto di regole, anche retributive, potendo trovare applicazione l’originario contratto collettivo nel solo caso in cui presso la cessionaria i rapporti di lavoro non siano regolamentati da alcuna disciplina collettiva (v. Cass. n. 19303 del 2015; Cass. n. 10614 del 2011; Cass. n. 5882 del 2010, a proposito di fusone o incorporazione di società; v. anche Cass. n. 20918 del 2020 in materia di pubblico impiego contrattualizzato);
ha precisato, poi, che l’art. 3 n. 3 della direttiva 2001/23 (secondo cui “Dopo il trasferimento, il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo o dell’entrata in vigore o dell’applicazione di un altro contratto collettivo”), come interpretato dalla Corte di Giustizia, “mira ad assicurare il mantenimento di tutte le condizioni di lavoro conformemente alla volontà delle parti contraenti del contratto collettivo e ciò nonostante il trasferimento di impresa. Per contro questa stessa disposizione non è idonea a derogare alla volontà di dette parti così come manifestata nel contratto collettivo. Di conseguenza, se le parti contraenti hanno stabilito di non garantire talune condizioni di lavoro oltre una determinata data, l’art. 3 n. 3 della direttiva 2001/23 non può imporre al cessionario l’obbligo di rispettarle posteriormente alla data convenuta di scadenza del contratto collettivo, giacché, al di là di questa data, il contratto collettivo di cui trattasi non è più in vigore. Ne consegue che l’art. 3 n. 3 non impone al cessionario di garantire il mantenimento delle condizioni di lavoro stabilite con il cedente oltre la data della scadenza del
contratto collettivo (v. sentenza Corte Giustizia del 27.11.2008, C396/07, punti 33 e 34)’;
in Cass. n. 37291/2021 cit. si evidenzia pure come, nella successiva sentenza del 6.9.2011, C-108/10 (NOME COGNOME), la Corte di Giustizia abbia ribadito: “73. la norma prevista dall’art. 3, n. 2, secondo comma, della direttiva 77/187 ( ndr. , coincidente con l’art. 3 n. 3 direttiva 2001/23) non può privare di contenuti il primo comma del medesimo numero. Pertanto, questo secondo comma non osta a che le condizioni di lavoro enunciate in un contratto collettivo che si applicava al personale interessato prima del trasferimento cessino di essere applicabili al termine di un anno successivo al trasferimento, se non addirittura immediatamente alla data del trasferimento, quando si realizzi una delle ipotesi previste dal primo comma di detto numero, ossia la risoluzione o la scadenza di detto contratto collettivo oppure l’entrata in vigore o l’applicazione di un altro contratto collettivo (v. sentenza 9 marzo 2006, causa C-499/04, COGNOME, Racc. pag. 1-2397, punto 30, nonché, in tema di art. 3, n. 3, della direttiva 2001/23, sentenza 27 novembre 2008, causa C-396/07, COGNOME, Racc. pag. 1-8883, punto 34). 74. Di conseguenza, la norma prevista dall’art. 3, n. 2, primo comma, della direttiva 77/187, ai sensi della quale «il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente, fino alla data (…) applicazione di un altro contratto collettivo», dev’essere interpretata nel senso che il cessionario ha il diritto di applicare, sin dalla data del trasferimento, le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione”;
2.1.2. val la pena aggiungere che la medesima sentenza della Corte di Giustizia sul caso COGNOME, al punto 75, ha affermato
che ‘la direttiva 77/187 lascia un margine di manovra, che consente al cessionario e alle altre parti contraenti di stabilire l’integrazione retributiva dei lavoratori trasferiti in modo tale che questa risulti debitamente adattata alle circostanze del tra sferimento in questione, ‘;
quanto all’assunto di parte ricorrente secondo cui l’interpretazione offerta nella specie dalla Corte territoriale osterebbe al perseguimento dello scopo di detta direttiva, è sufficiente sottolineare che, come la Corte di Giustizia ha ripetutamente dichia rato, quest’obiettivo consiste, essenzialmente, nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole ‘per il solo fatto del trasferimento’ (sentenza 26 maggio 2005, causa C-478/03, RAGIONE_SOCIALE, Racc. pag. I-4389, punto 26 e giurisprudenza ivi citata, nonché, in merito alla direttiva 2001/23, ordinanza 15 settembre 2010, causa C-386/09, COGNOME, punto 26);
è stato così già rilevato che il trasferimento d’azienda ‘non può determinare per il lavoratore trasferito un peggioramento retributivo ossia condizioni di lavoro meno favorevoli di quelle godute in precedenza, secondo una valutazione comparativa da compiersi all’atto del trasferimento, in relazione al trattamento retributivo globale, compresi gli istituti e le voci erogati con continuità, ancorché non legati all’anzianità di servizio’ (cfr. Cass. 35423 del 2022);
ossia, la direttiva vieta che il trasferimento d’azienda consenta un trattamento retributivo deteriore al momento della cessione e ‘per il solo fatto del trasferimento’, ma chiaramente non può impedire che successivamente la retribuzione dei lavoratori trasferiti possa essere influenzata dalle dinamiche contrattuali che ab externo la disciplinano; nel caso all’attenzione del
Collegio non solo è incontestato che al momento del trasferimento le ricorrenti non abbiano subito una decurtazione della retribuzione, ma anche che il trattamento migliorativo assegnato loro rispetto agli altri dipendenti della cessionaria è stato preservato per oltre venti anni; che tale fatto sia conseguenza dell’applicazione di un accordo negoziale non mette in dubbio che, nella specie, i lavoratori coinvolti nel trasferimento non siano stati collocati in una posizione meno favorevole per il verificarsi della cessione del rapporto di lavoro; ma ciò non rende intangibile il loro trattamento retributivo in ragione del legittimo mutare delle condizioni contrattuali collettive, allo stesso modo come non è intangibile quello di altri lavoratori della cessionaria non coinvolti dal trasferimento;
2.2. infondata anche la pretesa violazione dell’art. 2103 c.c.;
per un verso il trattamento retributivo goduto dalle ricorrenti fino al 31/12/1996 non era determinato dal contratto individuale, ma pur sempre da un contratto collettivo (all’epoca il contratto collettivo UPA), che, come tale, resta ‘fonte’ esterna al rapporto individuale di lavoro, sicché le sue clausole ben potevano essere modificate anche in peius da successivi contratti collettivi;
per altro verso, la clausola del superminimo può ritenersi incorporata nel contratto individuale di lavoro, come tale insensibile ai successivi mutamenti del contratto collettivo, solo se destinata a compensare determinate qualità professionali del dipendente o determinate mansioni oppure specifiche modalità di esecuzione della prestazione lavorativa; nella specie non risulta che il superminimo non assorbibile in contesa fosse riconosciuto alle ricorrenti per una delle specifiche ragioni sopra dette;
il terzo motivo è inammissibile;
3.1. viene evocato il ‘travisamento della prova’ e il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. al di fuori dei limiti posti dalle Sezioni unite di questa Corte che ha chiarito: «Il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere, in concorso dei presupposti di legge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c., a seconda si tratti di fatto processuale o sostanziale» (Cass. SS.UU. n. 5792 del 2024);
concorso dei presupposti di legge che nella specie non ricorre, sia per quanto riguarda il vizio di cui al n. 4 dell’articolo 360 c.p.c., atteso che la motivazione impugnata certamente supera sul punto la soglia del cd. ‘ minimum costituzionale’, sia in ordine al vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., denunciato nella specie senza il rispetto degli enunciati prescritti da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014;
3.2. circa l’eccepita violazione e falsa applicazione dei canoni ermeneutici si sollecita solamente una diversa interpretazione dell’accordo del 28/4/1997, attività, come noto, interdetta in sede di legittimità, atteso che l’accertamento della volontà negoziale si sostanzia in un accertamento di fatto (tra molte, Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 12360 del 2014), riservato all’esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. Cass. n.
17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006; da ultimo, conf. Cass. n. 22318 del 2023);
per risalente insegnamento, tali valutazioni del giudice di merito in proposito soggiacciono, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente ( ex plurimis , Cass. n. 21576 del 2019; Cass. n. 20634 del 2018; Cass. n. 4851 del 2009; Cass. n. 3187 del 2009; Cass. n. 15339 del 2008; Cass. n. 11756 del 2006; Cass. n. 6724 del 2003; Cass. n. 17427 del 2003);
inoltre, sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica, sia la denuncia di vizi motivazionali esigono una specifica indicazione – ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata l’anzidetta violazione e delle ragioni della insanabile contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito – non potendo le censure risolversi, in contrasto con l’interpretazione loro attribuita, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (tra le innumerevoli: Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468 del 2004; Cass. n. 22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003; Cass. n. 12366 del 2002; Cass. n. 11053 del 2000);
3.3. nella specie, al cospetto dell’approdo esegetico cui è pervenuta la Corte distrettuale parte ricorrente, nella sostanza, si limita a rivendicare un’alternativa interpretazione plausibile più favorevole in odine all’ Accordo di Salvaguardia del 28/4/1997; ma per sottrarsi al sindacato di legittimità quella data dal giudice al testo non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di un testo negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal
giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 10131 del 2006);
conclusivamente il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese liquidate come da dispositivo secondo il regime della soccombenza;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ult eriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le soccombenti al pagamento delle spese liquidate in euro 4.200,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale dell’8 maggio 2024.