Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 8122 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 8122 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/03/2025
non ricorreva alcuna invalidità;
-inoltre, il rapporto preruolo era privatistico e dunque l’unica tutela era il trattamento ex art. 2126 c.c. con riconoscimento della retribuzione e dei contributi previdenziali.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, resistiti da controricorso del Comune di Napoli e dell’INPS .
CONSIDERATO CHE
1.
il primo motivo sostiene che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe manifestamente ed irriducibilmente contraddittoria in riferimento alla domanda di riconoscimento dell’indennità di anzianità ex art. 1 DLCPS n. 61 del 1948;
ciò in quanto non si sarebbe potuto sostenere che quest’ultima fosse già dovuta al momento della stipula della transazione, perché essa spetta al lavoratore già in servizio non di ruolo, in caso di passaggio di ruolo, solo all’atto della definitiva cessazione dal servizio ed a tale proposito il motivo evidenzia come la Corte Costituzionale, nel decidere sulla rivalutazione dell’indennità di fine servizio del periodo preruolo, aveva ritenuto che quest’ultima diventi esigibile alla data di cessazione effettiva del servizio (Corte Costituzionale 8 novembre 1993, n. 401);
l’indennità di anzianità del periodo pre-ruolo, si afferma nel motivo, si aggiungerebbe all’indennità di premio servizio relativa al periodo di ruolo e andrebbe erogata dal datore di lavoro alla data di definitiva cessazione del rapporto;
quindi, proprio perché l’indennità di anzianità spetterebbe per il periodo pre-ruolo solo alla cessazione definitiva dal servizio era contraddittorio -a dire del ricorrente -che la Corte territoriale avesse fatto riferimento ad essa, nel contesto dell’accordo transattivo, come un diritto presente e non come un diritto futuro; il secondo motivo adduce la violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) degli articoli 1418 e 1325 c.c. e degli art. 1 DLCPS n. 61 del 1948 e art. 9 del DLPS n. 207 del 1947, per l’omessa rilevazione, anche d’ufficio, della nullità insanabile della transazione
nella parte in cui essa prevederebbe rinunce dei lavoratori a diritti futuri;
in sostanza, assume il ricorrente, se effettivamente le parti della transazione avessero fatto riferimento all’indennità di anzianità come diritto presente e già maturato, l’accordo andrebbe considerato nullo per violazione di legge, stante il carattere di indennità erogabile solo al momento della cessazione definitiva dal servizio e ciò avrebbe dovuto essere oggetto di rilievo anche officioso;
il terzo motivo assume che la sentenza impugnata, nel ritenere nullo il rapporto pre-ruolo, avrebbe in tal modo trascurato le delibere comunali aventi per oggetto la regolarizzazione e l’inquadramento formale ex tunc del personale già in servizio;
il motivo richiama le delibere del 1982 che si assume avrebbero regolarizzato ex tunc , anche sul piano contributivo, la posizione del personale -messi di conciliazione -proveniente da rapporti non di ruolo, nonché le delibere del 1986 e del 1988 autorizzative delle corrispondenti sanatorie e dei versamenti e quella del 1990 sul piano dell’anzianità, giustificata anche al fine di eliminare incertezze contributive;
tali sanatorie ex tunc impedivano di parlare di rapporti nulli, per quanto -si dice nel motivo -le considerazioni in proposito svolte dalla Corte di merito avevano il prevalente carattere di un obiter dictum ;
il quarto motivo adduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 c.c., rilevando come, se anche il rapporto pre-ruolo fosse stato da considerare nullo, tale norma non avrebbe per nulla impedito le tutele retributive e previdenziali conseguenti all’avvenuta esecuzione di fatto delle prestazioni;
2.
i motivi possono essere esaminati congiuntamente e risultano complessivamente inammissibili;
il ricorso per cassazione fa riferimento ad una domanda di pagamento dell’indennità di anzianità di cui all’art. 9 del DLCPS n. 207 del 1947, in combinato disposto con l’art. 1 del DLCPS n. 61 del 1948 (poi abrogato dal d.l. n. 112 del 2008, conv. con mod. in legge n. 133 del 2008), norme secondo le quali, in caso di cessazione del rapporto di impiego non dovuta a licenziamento disciplinare, al personale, anche del comune, avente almeno un anno di servizio continuativo, è dovuta un’indennità commisurata ad una mensilità della sola retribuzione in godimento per ciascun anno di servizio o frazione di anno superiore a sei mesi, istituto poi esteso Corte Costituzionale 24 luglio 1986, n. 208, anche al caso di passaggio in ruolo, dapprima escluso dal comma 4 dell’art. 9 cit.;
3.1
sennonché, rispetto al personale degli enti locali, l’art. 16 della legge n. 152 del 1968 ha stabilito che, dalla data di entrata in vigore di tale legge, ai dipendenti non di ruolo iscritti all’INADEL, ai fini del trattamento di previdenza, non era dovuta la indennità per cessazione dal servizio prevista dalle disposizioni di legge allora vigenti (comma 1), restando conservata solo se i relativi periodi di servizio non fossero valutabili ai fini dell’indennità di premio servizio, computandosi essa in tal caso sull’ultimo stipendio o salario in godimento alla data di entrata in vigore della legge stessa (comma 2) con retribuzione da rivalutarsi, per effetto di Corte Costituzionale 18 gennaio 1993, n. 401, fino al momento della cessazione del servizio, che è quello in cui la prestazione salvaguardata resta esigibile;
oltre a ciò, i periodi di pre-ruolo svolti « precedentemente alla data di entrata in vigore » della legge n. 152, sarebbero potuti confluire nell’indennità di premio fine servizio salvo il caso di riscatto ai sensi dell’art. 12 , che qui non rileva – solo alle condizioni di cui alla lett. b) dell’art. 4 della stessa legge e solo se si trattasse di periodi
di servizio non di ruolo resi in posto di organico non coperto da titolare e se a tali periodi avessero fatto seguito, senza soluzione di continuità, periodi di servizio da titolare (così la costante giurisprudenza: Cass. 4 marzo 1993 n. 2602; Cass. 14 novembre 2000, n. 14711; Cass. 20 agosto 2003, n. 12268; Cass. 18 settembre 2004, n. 18839);
3.2
il rapporto, nel caso di specie, è iniziato nel 1973 e dunque esso rientrerebbe nel regime dell’indennità di premio fine servizio e non in quello dell’indennità di anzianità di cui alla normativa del 1947/1949;
4.
la sentenza di appello, nel motivare il rigetto del gravame, non fa invero riferimento all’indennità di anzianità di cui alla normativa del 1947-1949, ma ad un rapporto di diritto privato, di cui afferma la nullità e rispetto al quale assume che il trattarsi di un servizio preruolo cessato e consumato, avrebbe reso legittima la transazione con rinuncia a tutti i diritti pregressi, tra cui sarebbe altresì rientrata, come situazione giuridica già esistente, quella relativa alle pretese di fine rapporto;
non è chiaro a quali pretese di fine rapporto la sentenza intendesse riferirsi, potendosi ipotizzare anche il richiamo all’indennità di anzianità o al t.f.r. di cui all’art. 2120 c.c.; 5.
senza dubbio, se l’oggetto del contendere è l’indennità di anzianità di cui alla disciplina del 1947-1949, essa non è dovuta rispetto ad un rapporto sorto nel 1973 e ciò per il sopravvenire della legge n. 152 del 1968 e del trattamento ivi previsto per il personale iscritto o da iscrivere all’INADEL (sull’automaticità delle prestazioni in materia, v. Cass. 1° dicembre 2020, n. 27427);
se si tratta invece del trattamento di fine rapporto di un rapporto privatistico, la Corte d’Appello ha accertato in fatto che
quest’ultimo era « cessato e consumato » al momento del passaggio in ruolo e ciò renderebbe del tutto legittimo ragionare in termini di transazione abdicativa di ogni diritto pregresso;
anche perché non basterebbe in ipotesi -per caducare l’accertamento in fatto svolto in tal senso dalla Corte di merito – far leva sul mero dato cronologico per cui il rapporto pre-ruolo ebbe fine il 30.6.1983 e quello di ruolo ebbe inizio il 1.7.1983, in quanto a contare sarebbe semmai la continuità giuridica tra l’uno e l’altro rapporto, evidentemente esclusa dalla Corte d’Appello allorquando essa ha fatto leva sulla cessazione e definizione di ogni questione con riguardo al rapporto più antico;
neanche sono stati evidenziati elementi di diritto idonei a mettere concretamente in discussione la discontinuità quale accertata dal giudice del merito, tali non essendo eventuali regolarizzazioni anche contributive ex post o altri eventi di tal fatta, menzionati -non del tutto chiaramente -nei motivi di ricorso, ma che certamente non si vede quale rilievo possano avere sul piano di una già realizzatasi cessazione civilistica del rapporto pre-ruolo, con definizione transattiva di tutto il pregresso, ritenuta dalla Corte territoriale;
al di là di tutto ciò, va data prevalenza ai profili di inammissibilità
del ricorso che emergono già da quanto finora detto;
6.1
intanto non risulta trascritto il contenuto specifico della transazione attorno a cui ruotano dapprima la decisione impugnata e poi i primi due motivi di ricorso;
quella transazione non è stata neanche prodotta con il ricorso per cassazione, in violazione dell’art. 369, co. 2, n. 4, c.p.c., e di essa non è stato indicato il momento ed il luogo della produzione (Cass. 11 dicembre 2023, n. 34395; Cass. 10 dicembre 2020, n. 28184; Cass. 7 marzo 2018, n. 5478), rendendo così l ‘impugnativa priva
del necessario requisito di specificità (art. 366 c.p.c.) e aderenza rispetto al caso concreto;
è infatti evidente come non si possa discutere della corretta valutazione di un contratto -quello di transazione -o della validità di esso, senza che lo stesso sia ritualmente veicolato nel giudizio di legittimità, secondo le regole proprie di quest’ultimo;
6.2
vi è poi, come già segnalato, una sostanziale incertezza sull’oggetto del contendere e sulla natura del rapporto pre-ruolo, conseguente anche ad una narrativa sostanzialmente apodittica e ad una sentenza di appello estremamente sintetica, che non consentono di procedere se non per congetture, tra l’altro con ipotesi che sono entrambe tali da condurre -nei termini di cui si è detto -a pretese prive di fondamento;
in ogni caso, il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 366 n. 3 c.p.c. deve contenere una chiara esposizione dei fatti della causa (Cass. 12 giugno 2008, n. 15808) che consenta di ragionare con concretezza dei profili giuridici con esso sollecitati ed è ciò quanto in definitiva qui difetta e rileva in via pregiudiziale;
6.3
la segnalata incertezza rispetto ai presupposti del contendere vanifica anche ogni possibile valutazione sul terzo e quarto motivo di ricorso;
essi riguardano infatti una ratio decidendi aggiunta -ovverosia quella per cui vertendosi su un rapporto privatistico nullo, le tutele rivendicate non troverebbero giustificazione giuridica -destinata a restare assorbita dall’inammissibilità del ricorso per cassazione che va pronunciata in riferimento agli effetti estintivi conseguenti alla transazione accertati nella sentenza di appello;
ciò senza contare che risulta palesemente impossibile discutere coerentemente del regime giuridico di un rapporto pre-ruolo del
quale, per quanto sopra detto, non è stata delineata neanche la effettiva natura;
7.
il ricorso va dunque dichiarato complessivamente inammissibile e le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore delle controparti, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida, per ciascuno dei controricorrenti, in euro 2.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 5.3.2025.