Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 22766 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 22766 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 06/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso 18413-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE MILANO, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 156/2021 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 26/04/2021 R.G.N. 640/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
R.G.N. 18413/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 22/05/2025
CC
RILEVATO che
Con sentenza del 26 aprile 2021, la Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della decisione di primo grado – che aveva affermato il solo diritto di NOME COGNOME, lavoratrice serale del Teatro alla Scala di Milano, al trattamento economico e normativo previsto in caso di infortunio sulla base della deduzione della sussistenza di una discriminazione fra i lavoratori a tempo indeterminato e pieno e la ricorrente – ha riconosciuto, altresì, le differenze connesse al mancato accantonamento del trattamento di fine rapporto, respingendo l’appello incidentale della Fondazione e per il resto confermando la statuizione di primo grado.
In particolare, la Corte , ha ritenuto non applicabile alla ricorrente l’art. 248 del Contratto unico Scala, atteso che tale applicazione avrebbe comportato un trattamento discriminatorio e che, quindi, da ciò dovesse derivare il riconoscimento dell’accantonamento invocato.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la Fondazione Teatro alla Scala di Milano, affidandolo a due motivi.
Resiste con controricorso NOME COGNOME.
Entrambe le parti hanno presentato memorie.
.
CONSIDERATO che
1.Con il primo motivo di ricorso si censura la decisione impugnata , sotto i profili di cui all’art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5, per violazione dell’art. 11 d.l. 91/13, dell’art. 5, DM 6/11/2014 del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, dell’art. 248 Contratto unico Scala 2026 e dell’art. 2909 cod. civ. nonché omesso esame del Contratto Unico quale fonte di effetti modificativi del rapporto oggetto di discussione tra le parti e/o nullità della sentenza per motivazione apparente.
In particolare, deduce parte ricorrente l’erronea esclusione della possibilità per il Contratto Unico Scala di modificare il rapporto di lavoro come accertato da precedente giudicato, qualificando erroneamente come modifica unilaterale una modifica intervenuta mediante contrattazione collettiva approvata in sede ministeriale.
Con il secondo motivo si deduce sotto i profili di cui all’art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5, dell’art. 17 D.Lgs. n. 81 del 2015, dell’art. 38 D. Lgs. n. 276 del 2003 e dell’art. 4 D. lgs. n. 61 del 2000, l’omesso esame dell’effetto economico dell’anticipazione del TFR, decisivo e oggetto di discussione tra le parti e la nullità della sentenza per motivazione apparente quanto allo stesso motivo.
In particolare, parte ricorrente deduce che, una volta inquadrata la fattispecie come rapporto di lavoro intermittente, a partire dall’entrata in vigore del Contratto Unico Scala, la decisione di secondo grado avrebbe errato nel concludere che le condizioni economiche previste potessero qualificarsi come discriminatorie ai sensi del D.Lgs. 81/2015 e del precedente D.lgs. n. 276/2003.
I due motivi, da esaminarsi congiuntamente per ragioni di connessione, non possono trovare accoglimento.
3.1. Va premesso che è da ritenersi inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di legge e dell’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, in quanto una tale formulazione mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 3397 del 2024).
3.2. Nella specie, le censure, oltre ad essere inammissibilmente formulate in modo promiscuo, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure, denunciando violazioni di legge o di contratto e vizi di motivazione senza che nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità (v., in particolare, sul punto, Cass. n.
18715 del 2016; Cass. n. 17931 del 2013; Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 20355 del 2008; Cass. n. 9470 del 2008), nella sostanza contestano l’accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine alla interpretazione offerta dalla Corte del rapporto negoziale intercorso fra le parti.
Occorre rilevare che, come noto, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 360, co. 1, n. 5 cod. proc. civ., si verte nell’ambito di una valutazione di fatto, totalmente sottratta al sindacato di legittimità, in quanto, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 d el cod. proc. civ., al di fuori dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le più recenti, Cass. n. 13428 del 2020; Cass. n. 23940 del 2017).
3.3. Con particolare riguardo alla censura per motivazione apparente, va rilevato che questa Corte ha affermato che, in caso di censura per motivazione mancante, apparente o perplessa, spetta al ricorrente allegare in modo non generico il “fatto storico” non valutato, il “dato” testuale o extratestuale dal quale esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale e la sua “decisività” per la definizione della vertenza (Cass. n. 13578 del 02/02/2020) e, d’ altra parte, per aversi motivazione apparente occorre che la stessa, pur se graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regola la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 comma 6 Cost. (sul punto, fra le altre, Cass. n. 13248 del 30/06/2020).
Nella specie, non solo la motivazione è presente e ben chiara nel suo svolgimento ma parte ricorrente, al contempo, non deduce l’omessa valutazione di un fatto storico ma appunta le proprie censure su
aspetti valutativi dell’ iter motivazionale, concernenti la asseritamente erronea valutazione della Corte d’appello quanto al rapporto lavorativo oggetto di causa .
Invero, l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 143 del 2012, prevede l’ ” omesso esame” come riferito ad “un fatto decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate ( cfr., in questi termini, fra le più recenti, Cass. n. 2268 del 2022).
3.4. Occorre premettere che parte ricorrente limita le proprie doglianze al periodo successivo all’entrata in vigore del Contratto Unico Scala, ai fini della pronuncia sulla debenza dell’accantonamento del TFR, rinunciando a coltivare la propria deduzione relativa all’applicabilità della disciplina del rapporto di lavoro intermittente anche per la fase antecedente all’entrata in vigore del Contratto medesimo, avendo preso atto dell’accertamento con efficacia di giudicato sulla base della sentenza del Tribunale di Milano n. 2377 del 15 settembre 2015, talchè non censura la conferma della statuizione relativa all’indennità per l’infortunio occorso alla COGNOME nel 2015.
3.5. Quanto alla censura concernente l’applicabilità alla specie del regolamento contrattuale afferente al contratto intermittente, per effetto dell’entrata in vigore del Contratto Unico e, quindi, dell’applicabilità della regolamento contrattuale relativo , va osservato quanto segue.
La soluzione della vicenda oggetto di causa non implica una indagine, contrariamente a quanto rilevato da parte ricorrente, circa la astratta idoneità della successiva contrattazione collettiva a modificare il rapporto, rendendo applicabile la speciale disciplina del lavoro intermittente.
La Corte d’appello, infatti, ha sottolineato come dovesse reputarsi accertamento incontestabile, in fatto, per effetto dell’intervenuto giudicato (sulla base della sentenza del Tribunale n. 2377/15), la configurazione del rapporto come ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato a prestazioni discontinue, con la garanzia di 22 prestazioni mensili di quattro ore cadauna per l’intero periodo compreso tra la prima chiamata successiva al periodo feriale e l’ultima prestazione resa prima della sospensione estiva, escludendo espressamente che il rapporto di lavoro in questione potesse essere
qualificato unilateralmente dalla prestazione come intermittente senza obbligo di risposta alla chiamata.
La Corte ha, quindi, ritenuto qualificabile come ordinario contratto a tempo indeterminato a prestazioni discontinue e garantite, sulla base della statuizione contenuta nella sentenza del Tribunale, e, dunque, ha ritenuto sussistente un rapporto di lavoro a tempo parziale con un minimo di prestazione oraria di 88 ore mensili.
In ogni caso, anche a prescindere dalla configurazione del contratto come a tempo indeterminato a prestazioni discontinue, ovvero come contratto di lavoro intermittente, deve escludersi il rilievo di tale ultima qualificazione come idonea a consentire un trattamento retributivo difforme del lavoratore addetto a turni serali ai fini del computo del TFR. Dall’art. 38 D.lgs. n. 276/2003 e dell’art. 17 D. Lgs. n. 81/2015 discende che, comunque, il lavoratore intermittente non debba ricevere ‘per i periodi lavor ati’ un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno e indeterminato di pari livello, a parità di mansioni svolte.
A tal riguardo, va rilevato come la Corte, con valutazione non implausibile, ha escluso che le diverse modalità di svolgimento del rapporto e la diversa natura dell’attività, che caratterizzerebbe la speciale categoria dei lavoratori serali – intermittenti, in particolare sotto il profilo di maggior favore in ordine alla durata convenzionale della prestazione oraria potesse giustificare la differenziazione de qua .
Risulta, infine, che la stessa Fondazione odierna ricorrente, abbia da ultimo stipulato in data 28.6.2024 un accordo sindacale che ‘introduce anche per tutti gli Operai serali la maturazione del Trattamento di Fine Rapporto calcolato sul valore lordo delle prestazioni ordinarie complete (quota base + pro rata) liquidate annualmente con i criteri e gli aggiustamenti sotto specificati…’ .
Deve concludersi che parte ricorrente, nel formulare le proprie censure mediante ricorso per cassazione, non si è conformata a quanto statuito dal Supremo Collegio in ordine alla apparente deduzione di vizi ex artt. 360 co. 1 nn.3 e 5 e, cioè, che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l ‘ apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr., SU n. 34476 del 2021).
Alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
S ussistono i presupposti processuali per il versamento, dalla parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dell’ articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
PQM
La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 5.500,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nella Adunanza camerale del 22 maggio 2025.