Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15287 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 15287 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15218/2022 R.G. proposto da:
COGNOME di COGNOME NOME , rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente-
contro
Assessorato regionale del Territorio e dell’Ambiente della Regione Sicilia e Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Regione Sicilia, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato e domiciliati in Roma, INDIRIZZO
-controricorrenti- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO di PALERMO n. 1346/2022 pubblicata il 25 gennaio 2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/04/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 12 dicembre 2017 presso il Tribunale di Palermo NOME COGNOME di Baucina ha agito contro l’Assessorato regionale Territorio ed Ambiente e l’Agenzia regionale per la protezione dell’Ambiente (da ora ARPA) e, premesso di godere di un trattamento pensionistico di € 130.498,98 annui a decorrere dal 1° dicembre 2015 in conseguenza della cessazione dall’incarico di Direttore dell’ente parco delle Madonie, ha dedotto che il 20 settembre 2012 aveva stipulato con le amministrazioni resistenti un contratto quinquennale avente ad oggetto l’incarico di Direttore generale dell’ARPA per un compenso annuo lordo di € 202.937,00.
Egli ha anche allegato che il 25 luglio 2016 l’Assessorato regionale aveva richiesto la sottoscrizione di un accordo di rinegoziazione del compenso sul presupposto che trovasse applicazione la disciplina che aveva fissato il tetto massimo sui compensi di € 160.000,00 annui e che, avendo aderito con riserva alla proposta, il suo appannaggio lordo era sceso a € 29.500,00.
Ha chiesto, quindi, il ripristino del trattamento concordato in origine e la restituzione delle trattenute applicate nonché il pagamento della retribuzione di risultato.
Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 22 novembre 2019, ha rigettato la domanda.
Il lavoratore ha proposto appello che la Corte d’appello di Palermo, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 1346/2021, ha respinto.
NOME COGNOME di Baucina ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi.
Le Amministrazioni intimate si sono difese con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1) Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, commi 471, 475 e 489 della legge n. 147 del 2013, dell’art. 13, comma 3, del d.l. n. 66 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 89 del 2014, dell’art. 17 della legge Reg ione Sicilia n. 2 del 2007, dell’art. 14, comma 1, lett. q, dello Statuto speciale della Regione Sicilia, dell’art. 13 della legge Regione Sicilia n. 13 del 2014 , come novellato dall’art. 13, comma 11, della legge Regione Sicilia n. 3 del 2016 e dall’art. 14 della legge Regione Sicilia n. 8 del 2016 in quanto la corte territoriale avrebbe errato ad applicare, nella specie, l’art. 13 della legge Regione Sicilia n. 13 del 2014 e successive modifiche, dovendo trovare spazio, invece, l’art. 1, commi 471, 475 e 489 della legge n. 147 del 2013, l’art. 13, comma 3, del d.l. n. 66 del 2014, conv., con modif., dalla legge n. 89 del 2014, e l’art. 17 della legge Regione Sicilia n. 2 del 2007
Sostiene che, nella presente materia, vi sarebbe stata una competenza esclusiva dello Stato, il quale avrebbe stabilito, con una normativa simile, un limite alle retribuzioni a carico delle finanze pubbliche nell’importo fisso di € 240.000,00 annui, ragguagliato a quello del Primo Presidente della Corte di cassazione, che avrebbe dovuto essere rispettato su tutto il territorio nazionale.
Peraltro, l’art. 14, comma 1, lett. q), dello Statuto speciale della Regione siciliana avrebbe previsto che ‘l’Assemblea, nell’ambito della Regione e nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato, senza pregiudizio delle riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente del popolo italiano, ha la legislazione esclusiva sulle seguenti materie:
q) stato giuridico ed economico degli impiegati e funzionari della Regione, in ogni caso non inferiore a quello del personale dello Stato’.
In ogni caso, avrebbe dovuto essere applicato l’art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, che espressamente ha fatto salvi,
dal 2014, i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi.
Analoga clausola di salvezza non sarebbe stata presente, invece, nella legge Regione Sicilia n. 13 del 2014.
Con il secondo motivo il ricorrente chiede, in via subordinata, che sia sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge Regione Sicilia n. 13 del 2014, come novellato dall’art. 13, comma 11, della legge Regione Sicilia n. 3 del 2016 e dall’art. 14 della legge Regione Sicilia n. 8 del 2016, per violazione degli artt. 3 e 117, comma 2, lett. l), Cost . e dell’art. 14, comma 1, lett. q), dello Statuto speciale della Regione siciliana.
Le censure possono essere trattate insieme, stante la stretta connessione.
2) Preliminarmente, occorre individuare l’oggetto del contendere.
Il ricorrente è un ex direttore dell’ente parco delle Madonie, titolare di un trattamento pensionistico pari a € 130.498,98 annui a decorrere dal 1° dicembre 2015. Il 20 settembre 2012 aveva stipulato un contratto della durata di cinque anni in seguito al quale era divenuto Direttore generale dell’ARPA, per un compless ivo trattamento annuo lordo di € 202.937,00 .
Il 25 luglio 2016 l’Assessorato regionale aveva chiesto di sottoscrivere un accordo di rinegoziazione del compenso sul presupposto che, dal combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’art. 13 della legge Regione Sicilia n. 13 del 2014, come modificati dall’art . 14 della legge Regione Sicilia n. 8 del 2016, e del comma 3 bis introdotto dall’art. 13, comma 11, della legge Regione Sicilia n. 3 del 2016, era stato fissato un tetto massimo sui compensi di € 160.000,00 annui.
Ne era conseguito che l’appannaggio lordo percepito dal ricorrente sarebbe divenuto di soli € 29.500,00.
Per l’esattezza, il suo trattamento lordo complessivo sarebbe calato da € 202.937,00 a € 160.000,00 dal 1° luglio 2014 al 1°
dicembre 2015 e da € 202.937,00 a € 29.500,00 dal 1° dicembre 2015 in poi.
Nella specie, è stato applicato, per come riferito nel ricorso per cassazione, l’art. 13 della legge Regione Sicilia n. 13 del 2014, efficace dal 1° luglio 2014, come modificato dall’art. 14 della legge Regione Sicilia n. 8 del 2016, e dall’art. 13 della legge Regione Sicilia n. 3 del 2016 (pure modificato dall’art. 14 della citata legge n. 8 del 2016), soprattutto i suoi commi 2, 3 e 3 bis, in base ai quali:
‘ 2. Al fine di conseguire risparmi di spesa attraverso la razionalizzazione della spesa pubblica regionale nonché al fine della salvaguardia degli equilibri di bilancio, per il periodo 1° luglio 2014 31 dicembre 2016, i trattamenti onnicomprensivi di pensione, compresi quelli in godimento, in tutto o in parte a carico dell’Amministrazione regionale e del Fondo pensioni Sicilia, non possono superare il tetto di 160 migliaia di euro annui.
Lo stesso limite di cui al comma 2 si applica al trattamento economico annuo complessivo fiscale dei dipendenti dell’Amministrazione regionale e degli enti del settore sanitario. Il trattamento economico complessivo dei dipendenti, anche con qualifica dirigenziale, e dei titolari di contratti di lavoro degli enti sottoposti a controllo e vigilanza della Regione, delle società a totale o maggioritaria partecipazione della Regione, che svolgono l’attività esclusivamente con affidamenti diretti della stessa Regione, nonché degli enti che, a qualunque titolo, ricevono trasferimenti o contributi a carico del bilancio della Regione, non può essere superiore a 100.000 euro annui lordi.
3-bis. I contratti vigenti che prevedano un trattamento complessivo annuo lordo superiore al limite di cui ai commi 2 e 3 sono rinegoziati entro trenta giorni dall ‘ entrata in vigore della presente legge. In caso di mancato accordo sulla rinegoziazione, si provvede alla risoluzione unilaterale dei contratti entro i successivi trenta giorni. La mancata attuazione delle disposizioni di cui al
presente comma determina responsabilità per inadempimento e, nel caso di società o enti, la decadenza degli amministratori ‘ .
Il ricorrente prospetta, invece, che avrebbe dovuto essere applicata la normativa statale, per l’esattezza , innanzitutto, l’art. 1 della legge n. 147 del 2013, nel testo ratione temporis rilevante , che, per la parte che qui interessa, dispone che:
‘471. A decorrere dal 1° gennaio 2014 le disposizioni di cui all’articolo 23 -ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, in materia di trattamenti economici, si applicano a chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche retribuzioni o emolumenti comunque denominati in ragione di rapporti di lavoro subordinato o autonomo intercorrenti con le autorità amministrative indipendenti, con gli enti pubblici economici e con le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale di diritto pubblico di cui all’articolo 3 del medesimo decreto legislativo.
472. Sono soggetti al limite di cui all’articolo 23 -ter del decretolegge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, anche gli emolumenti dei componenti degli organi di amministrazione, direzione e controllo delle autorità amministrative indipendenti e delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ove previsti dai rispettivi ordinamenti.
473. Ai fini dell’applicazione della disciplina di cui ai commi 471 e 472 sono computate in modo cumulativo le somme comunque erogate all’interessato a carico di uno o più organismi o amministrazioni, ovvero di società partecipate in via diretta o indiretta dalle predette amministrazioni.
474. Le risorse rivenienti dall’applicazione delle misure di cui ai commi da 472 a 473, per le amministrazioni di cui all’articolo 23 -ter
del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, sono annualmente versate al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato ai sensi del comma 4 del medesimo articolo 23-ter e, per le restanti amministrazioni ricomprese nei commi da 471 a 473, restano acquisite nei rispettivi bilanci ai fini del miglioramento dei relativi saldi.
475. Le regioni adeguano, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, nell’ambito della propria autonomia statutaria e legislativa, i rispettivi ordinamenti alle disposizioni di cui ai commi da 471 a 474. Tale adeguamento costituisce adempimento necessario ai sensi dell’articolo 2 del decreto -legge 10 ottobre 2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213, ed integra le condizioni previste dalla relativa lettera i).
(…)
489. Ai soggetti già titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche, le amministrazioni e gli enti pubblici compresi nell’elenco ISTAT di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, e successive modificazioni, non possono erogare trattamenti economici onnicomprensivi che, sommati al trattamento pensionistico, eccedano il limite fissato ai sensi dell’articolo 23 -ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214. Nei trattamenti pensionistici di cui al presente comma sono compresi i vitalizi, anche conseguenti a funzioni pubbliche elettive.
Sono fatti salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi. Gli organi costituzionali applicano i principi di cui al presente comma nel rispetto dei propri ordinamenti’.
Le disposizioni statali appena menzionate avrebbero dovuto essere coordinate, per il ricorrente, con l’art. 13 del d.l. n. 66 del
2014, conv., con modif., dalla legge n. 89 del 2014 che, per quel che qui interessa, disponeva che:
L’art. 1, comma 3, della legge reg. Siciliana n. 28 del 2016 ha confermato tale misura anche per il triennio 2017-2019.
Il giudice delle leggi ha osservato che le norme criticate si correlavano al particolare sistema previdenziale previsto per il personale della Regione Siciliana, che si componeva di due gestioni.
Alla prima, denominata ‘contratto 1’ e imperniata sul sistema finanziario a ripartizione, appartenevano i dipendenti in servizio o già in quiescenza alla data dell’11 maggio 1986, data di entrata in vigore della legge della Regione Sicilia n. 21 del 1986, recante «Modifiche e integrazioni alla legge regionale 29 ottobre 1985, n. 41, recante ‘Nuove norme per il personale dell’Amministrazione regionale’ e altre norme per il personale comandato, dell’occupazione giovanile e i precari delle unità sanitarie locali» (art. 10, comma 2, della citata legge regionale). In questo caso, gli oneri dei trattamenti di quiescenza gravavano sul bilancio della Regione, che provvedeva al pagamento mediante «il Fondo per il pagamento del trattamento di quiescenza e dell’indennità di buonuscita del personale regionale», anche detto ‘Fondo pensioni Sicilia’, avente «natura giuridica di ente pubblico non economico» (art. 15, commi 2 e 8, della legge della Regione Sicilia n. 6 del 2009, recante «Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2009» ). La Regione assegnava al Fondo pensioni Sicilia ‘appositi trasferimenti’, per rendere possibile l’erogazione dei trattamenti pensionistici.
Attorno alla gestione ‘contratto 2’, ispirata al sistema finanziario a capitalizzazione, gravitava, invece, il personale della Regione Siciliana assunto in data successiva all’11 maggio 1986 (art. 10, comma 1, della legge Regione Sicilia n. 21 del 1986).
Il ‘Fondo pensioni Sicilia’ sost eneva gli oneri connessi all’erogazione delle prestazioni pensionistiche e si giova va, a tale scopo, del trasferimento dei contributi previdenziali previsti a carico dell’amministrazione e di ciascun dipendente (art. 15, comma 9,
della legge Regione Sicilia n. 6 del 2009). La Regione Sicilia si limitava ad accollarsi le spese del funzionamento degli organi del Fondo pensioni Sicilia.
La Corte costituzionale ha evidenziato che dal dettato normativo indicato emergeva la particolare natura del Fondo, da intendere quale struttura operativa di collegamento fra le diverse gestioni dei trattamenti previdenziali, e che le questioni di legittimità costituzionale erano sorte nel giudizio promosso da un dirigente della Regione Sicilia collocato in quiescenza, appartenente alla gestione ‘contratto 1’, che aveva chiesto il ripristino dell’originario importo della pensione e la cessazione delle trattenute effettuate in virtù delle disposizioni in esame.
Ha ricostruito, quindi, la problematica prospettata, sottolineando che era denunciato, in primo luogo, il contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., sul presupposto che l’imposizione di un ‘tetto’ pensionistico configurasse un prelievo tributario.
L’art. 3 Cost. sarebbe stato violato , per il giudice rimettente, anche sotto un ulteriore profilo, atteso che l’imposizione di un tetto pensionistico di € 160.000,00 non avrebbe rappresentato un ‘ ponderato bilanciamento dei molteplici valori di rango costituzionale in gioco ‘ e non sarebbe stato coerente con le indicazioni enunciate, a tale riguardo, dalla giurisprudenza costituzionale (è menzionata la sentenza n. 124 del 2017).
Inoltre, il prelievo disposto dal legislatore regionale, destinato a protrarsi per cinque anni e mezzo, non avrebbe costituito «una misura eccezionale, adottata ‘una tantum’ per sopperire a specifiche e comprovate esigenze straordinarie e contingenti». Il prelievo in esame avrebbe vanificato l’affidamento che il pensionato avrebbe potuto ragionevolmente riporre nella ‘stabilità de l proprio trattamento di quiescenza’.
Ulteriore contrasto con l’art. 3 Cost. si sarebbe avuto , ancora ad avviso del giudice remittente, sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza, in quanto l’introduzione del tetto
pensionistico non avrebbe trovato riscontro nei confronti degli altri pensionati italiani, sia del settore pubblico sia di quello privato, e sarebbe stato, pertanto, discriminatorio in danno dei pensionati della Regione Sicilia.
Il prelievo in esame avrebbe violato anche il principio di proporzionalità del trattamento di quiescenza rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e quello di adeguatezza (artt. 36, comma 1, e 38, comma 2, Cost.), considerato che il legislatore regionale avrebbe appiattito sull’unico valore di € 160.000,00 annui tutti i trattamenti previdenziali di importo superiore, senza tenere conto dei «loro differenti importi originari», legati alla «diversità delle funzioni svolte dai singoli soggetti interessati», alla diversa anzianità e al diverso importo dei contributi versati.
La Corte costituzionale, nel decidere, ha negato, innanzitutto, la natura tributaria della riduzione in questione, atteso che la disciplina censurata non avrebbe introdotto un prelievo o un contributo straordinario sulle pensioni, volto a fare fronte a pubbliche spese (sentenza n. 116 del 2013) né sarebbe stata improntata a finalità solidaristiche o perequative interne al circuito previdenziale (sentenze n. 234 del 2020 e n. 173 del 2016).
Il giudice delle leggi, piuttosto, ha valutato questa disciplina nel contesto dell’intervento disposto dalla Regione Sicilia prima per due anni e sei mesi e poi per un ulteriore triennio, al fine di contenere le spese su di essa gravanti sia per le retribuzioni del proprio personale sia per la spesa p revidenziale. Il limite di € 160.000,00, infatti, avrebbe accomunato, da questo punto di vista, la spesa della Regione per il personale e la spesa previdenziale.
Secondo la Corte costituzionale, la normativa in esame si sarebbe prefissa di determinare, per un preciso arco temporale, l’importo massimo dei trattamenti pensionistici che gravavano sul bilancio della Regione, originariamente commisurati a criteri particolarmente favorevoli.
Le caratteristiche evidenti della misura in questione sarebbero state, dunque, di razionalizzazione della spesa previdenziale e di complessivo riequilibrio del sistema e sarebbero valse a differenziarla dalla logica che permeava sia l’imposizione tributaria (sentenza n. 240 del 2019) sia le prestazioni patrimoniali disciplinate dall’art. 23 Cost.
La Corte costituzionale ha, poi, esaminato gli indici rivelatori di un eventuale sacrificio sproporzionato, osservando che, al riguardo, oltre alla carenza di giustificazione delle misure adottate, «rivestono rilievo cruciale l’arco temporale delle misure restrittive, l’incidenza sul nucleo essenziale dei diritti coinvolti, la portata generale degli interventi, la pluralità di variabili e la complessità delle implicazioni, che possono anche precludere una stima ponderata e credibile dei risparmi» (sentenza n. 20 del 2018, punto 3.2.1. del Considerato in diritto).
A tal fine, ha rilevato che la disciplina sottoposta al suo sindacato si sarebbe raccordata al particolare sistema previdenziale previsto per i dipendenti della Regione Sicilia, come si evinceva dal fatto che l ‘art. 13, comma 2, della legge Regione Sicilia n. 13 del 2014 «ha, fin qui, trovato concreta applicazione esclusivamente nei confronti di una particolare categoria di pensionati regionali che fruiscono, nel loro trattamento di quiescenza, dell’applicazione delle norme della legge regionale n. 2/1962 e successive modifiche ed integrazioni» (nota n. 7835 del 2 marzo 2016). Alle disposizioni censurate, dunque, sarebbero stati assoggettati in larga parte alcuni dirigenti che avevano ricoperto incarichi di vertice nell’amministrazione regionale e ricadevano nell’ ambito applicativo della gestione ‘contratto 1’.
In particolare, ha ricordato che le misure di risparmio, introdotte con la legge Regione Sicilia n. 13 del 2014, avrebbe tratto origine da notevoli criticità del sistema previdenziale siciliano e avrebbero inciso in misura preponderante sulla gestione ‘contratto 1’, alimentata con le risorse della Regione.
L’intervento del legislatore regionale avrebbe mirato, allora, a garantire la sostenibilità del sistema previdenziale regionale, «anch’esso espressione dell’art. 38 Cost., quale norma ispirata dal presupposto per cui detta sostenibilità (ossia l’equilibrio tra spesa previdenziale ed entrate a copertura della stessa) venga assicurata anzitutto all’interno dello stesso sistema» (sentenza n. 235 del 2020, punto 4.7. del Considerato in diritto).
Al fine di conseguire questo obiettivo, la disciplina censurata si sarebbe applicata con valenza generale a tutti i trattamenti pensionistici a carico dell’amministrazione regionale e del Fondo pensioni Sicilia. Essa, peraltro, sarebbe stata parte integrante di un più ampio disegno di razionalizzazione, che avrebbe contemplato altre misure di contenimento della spesa pubblica regionale, come l’imposizione di un limite alle retribuzioni dei dipendenti regionali (art. 13, comma 3, della legge Regione Sicilia n. 13 del 2014), e avrebbe trovato il suo necessario compimento nel percorso di progressiva armonizzazione del sistema previdenziale siciliano con la normativa statale (artt. 51 e 52 della legge della Regione Sicilia n. 9 del 2015, recante «Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2015. Legge di stabilità regionale»).
In sostanza, il sacrificio indotto dalle disposizioni censurate, nell’intervenire su trattamenti pensionistici inizialmente determinati secondo regole di particolare favore (Corte dei conti, sezioni riunite per la Regione Siciliana in sede di controllo, decisione n. 2 del 2014), si sarebbe proposto una finalità di complessivo riequilibrio.
Inquadrate in questa più articolata prospettiva, la Corte costituzionale ha ritenuto infondate le censure di arbitraria disparità di trattamento.
Ciò in quanto il sistema previdenziale applicabile ai dipendenti della Regione Sicilia, pur se in via di tendenziale e ancora incompiuta assimilazione al regime statale, sarebbe stato contraddistinto da rilevanti particolarità, tali da non renderlo comparabile
all’eterogeneo apparato di tutela previsto per gli altri pensionati del settore pubblico o privato.
Inoltre, le condizioni di criticità richiamate avrebbero giustificato il trattamento più rigoroso che, per un arco temporale limitato, sarebbe stato indirizzato al personale regionale in pensione e la conseguente diversità di disciplina censurata dal giudice a quo .
L’esigenza di preservare la sostenibilità del sistema previdenziale regionale, in un’ottica di più ampia razionalizzazione della spesa, e le finalità di complessivo riequilibrio, sottese alle limitazioni in esame, avrebbero destituito, altresì, di fondamento le censure riguardanti l’irragionevolezza dell’assetto normativo.
I vincoli posti all’ammontare dei trattamenti pensionistici sarebbero stati avvalorati da una giustificazione appropriata e calibrati in modo da non infrangere il canone di proporzionalità, atteso che le disposizioni impugnate avrebbero investito i soli trattamenti pensionistici di importo più ragguardevole. Nell’imporre il limite invalicabile di € 160.000,00 annui, che corrispondeva a un parametro non esiguo, il legislatore regionale non avrebbe irragionevolmente compresso l’adeguatezza e la proporzionalità di trattamenti pensionistici caratterizzati da un elevato ammontare. Anche l’arco temporale avrebbe segnato la specificità della vicenda.
L’imposizione di un limite ai trattamenti pensionistici, pur protraendosi per un tempo apprezzabile, avrebbe presentato, comunque, una durata definita e non sarebbe stata reiterata sine die .
Questa delimitazione nel tempo non sarebbe stata arbitraria, poiché avrebbe fatto riscontro all’acuirsi delle criticità della gestione previdenziale regionale, costanti lungo tutto il periodo di vigenza delle restrizioni criticate.
Il sacrificio imposto ai pensionati dell’amministrazione regionale, destinatari di un trattamento complessivamente favorevole sarebbe stato, dunque, sostenibile e rispettoso delle garanzie di proporzionalità e di adeguatezza sancite dagli artt. 36 e 38 Cost.
Sarebbe stata da escludere anche la lesione dell’affidamento dei titolari delle pensioni in esame.
Infatti, n ell’ ambito dei rapporti di durata, non sarebbe sorto un affidamento meritevole di tutela nell’immutabilità della relativa disciplina (sentenza n. 127 del 2015, punto 8.1. del Considerato in diritto), ben potendo il legislatore introdurre modificazioni in senso sfavorevole, anche con riguardo a diritti soggettivi perfetti, a condizione che l’intervento attuato ‘ trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non trasmodi in un regolamento irrazionale lesivo del legittimo affidamento dei cittadini ‘ (sentenza n. 234 del 2020, punto 17.3.1. del Considerato in diritto).
Nel caso di specie, la disciplina censurata non soltanto sarebbe stata assistita da una congrua giustificazione, legata alla salvaguardia dell’equilibrio del sistema previdenziale regionale e della razionalità e dell’efficienza della gestione demandata al Fondo pensioni Sicilia, ma non avrebbe implicato neppure una riduzione sproporzionata e definitiva del trattamento pensionistico.
Non si sarebbe potuto ritenere, pertanto, che una misura così congegnata avesse leso in maniera arbitraria un affidamento meritevole di tutela.
La disciplina regionale avrebbe dovuto essere ricondotta alle modificazioni sfavorevoli che il legislatore, per la tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, poteva introdurre con riguardo al rapporto previdenziale, senza spingersi a sacrificare il nucleo intangibile dei diritti tutelati dagli artt. 36 e 38 Cost.
Da quanto sinora esposto è evidente come, anche secondo la Corte costituzionale, pur se con riferimento a una parte sola della normativa qui in esame, non si pongano esigenze di interpretazione costituzionalmente orientata (o problemi di non legittimità
costituzionale) che possano giustificare un’applicazione disposizioni statali più favorevoli al ricorrente.
Al contrario, dalla giurisprudenza della Corte costituzionale si evince che, pur essendo il modello approvato a livello nazionale quello di riferimento, esso introduce semplicemente un sistema minimo di riduzione della spesa pubblica, al quale le Regioni devono conformarsi, non potendo adottarne uno meno restrittivo, ma che le stesse ben possono rendere più severo, ove tale scelta trovi giustificazione nelle peculiarità dell’organizzazione retributiva e previdenziale dell’impiego e dell’amministrazione regionali e nelle criticità che la finanza locale deve affrontare e purché, in questo modo, il sacrificio imposto ai pensionati e ai dipendenti dell’amministrazione regionale sia ragionevole, succedendo a una disciplina del trattamento ridotto originariamente fondata su criteri particolarmente favorevoli, di durata non eccessiva, sostenibile e rispettoso delle garanzie di proporzionalità e di adeguatezza sancite dagli artt. 36 e 38 Cost.
Pertanto, la legislazione della Regione Sicilia ben poteva prescrivere un tetto retributivo e previdenziale inferiore a quello statale e non fare salvi i rapporti già in corso al momento della sua entrata in vigore, senza, in questo modo, violare disposizioni di rango costituzionale, stante la peculiarità della sua organizzazione amministrativa e del suo sistema previdenziale.
l’art. 14, comma 1, lett. q), dello Statuto speciale della Regione siciliana, che, nel riconoscere la potestà legislativa esclusiva della medesima Regione in tema di stato giuridico ed economico dei suoi impiegati e funzionari, ‘in ogni caso non inferiore a quello del personale dello Stato’, si riferisce, chiaramente, a lla necessità che situazioni analoghe siano trattate in maniera analoga, senza imporre di equipararle ove siano troppo differenti.
‘art. 17 della legge Regione Sicilia n.
2 del 2007, in base a cui ‘Il trattamento economico complessivo degli amministratori delle agenzie e degli enti pubblici regionali non può superare quello del primo presidente della Corte di cassazione, ferme restando le disposizioni normative vigenti che stabiliscono limiti inferiori’, la quale, per ragioni temporali, è stata superata dalla regolamentazione posteriore.
Con il terzo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 11 delle c.d. preleggi, dell’art. 1372 c.c., dell’accordo di rinegoziazione del 25 luglio 2016 e dell’art. 13 della legge Regione Sicilia n. 13 del 2014, come poi novellato dall’art. 13, comma 11, della legge Regione Sicilia n. 3 del 2016 e dall’art. 14 della legge Regione Sicilia n. 8 del 2016.
Egli sostiene che l’art. 13 della legge Regione Sicilia n. 13 del 2014, come poi novellato dall’art. 13, comma 11, della legge Regione Sicilia n. 3 del 2016 e dall’art. 14 della legge Regione Sicilia n. 8 del 2016, non avrebbe potuto trovare applicazione per il periodo anteriore alla novella del 2016 e, quindi, a partire dal 1° luglio 2014, atteso che solo con la legge Regione Sicilia n. 8 del 2016 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 24 maggio 2016) era stato ampliato il numero dei destinatari delle misure di contenimento in questione, ricomprendendovi ‘i dipendenti con qualifica dirigenziale ed i titolari di contratti di lavoro degli enti sottoposti a controllo e vigilanza della Regione e delle società a totale o maggioritaria partecipazione della Regione che svolgono l’attività esclusivamente con affidamenti diretti della stessa Regione, nonché degli enti che, a qualunque titolo, ricevono trasferimenti o contributi a carico del bilancio della Regione’.
Lo stesso accordo di rinegoziazione concluso il 25 luglio 2016 non avrebbe prescritto alcunché in ordine alla propria retroattività.
Pertanto, il ridimensionamento contestato avrebbe potuto essere ammissibile solo per il periodo di vigenza dell’accordo in
questione, concluso il 25 luglio 2016 ed efficace sino al 31 dicembre 2016.
La censura è priva di pregio.
L ‘art. 13 della legge Regione Sicilia n. 13 del 2014, entrata in vigore il 13 giugno 2014, nel suo testo originario, prescriveva, ai commi 2 e 3 (il 3 bis è stato inserito dalla riforma del 2016), che:
‘2. Al fine di conseguire risparmi di spesa attraverso la razionalizzazione della spesa pubblica regionale nonché al fine della salvaguardia degli equilibri di bilancio, per il periodo 1° luglio 2014 31 dicembre 2016, i trattamenti onnicomprensivi di pensione, compresi quelli in godimento, in tutto o in parte a carico dell’Amministrazione regionale e del Fondo pensioni Sicilia, non possono superare il tetto di 160 migliaia di euro annui.
Lo stesso limite di cui al comma 2 si applica al trattamento economico annuo complessivo fiscale dei dipendenti dell’Amministrazione regionale e degli enti di cui all’art. 1 della legge regionale 15 maggio 2000, n. 10, presso cui si applica il contratto collettivo dei dipendenti regionali, nonché, in quanto compatibile al trattamento economico annuo complessivo dei dipendenti degli enti pubblici regionali, delle società partecipate dalla Regione siciliana e comunque di tutti gli enti, di natura pubblica o privata, che ricevono a qualunque titolo trasferimenti, contributi o corrispettivi a carico del bilancio della Regione siciliana, compreso il settore sanitario’.
L’affermazione del ricorrente, secondo il quale la normativa appena riportata non avrebbe potuto avere effetto nei suoi confronti dal 1° luglio 2014 sia perché non riferibile a un dirigente del suo livello sia in quanto l’accordo di rinegoziazione sarebbe stato concluso il 25 luglio 2016, contrasta con le considerazioni in precedenza svolte.
Infatti, alla data del 1° luglio 2014 era in vigore l’art. 1 della legge n. 147 del 2013, che prevedeva, ai commi 471, 472, 473 e 489 che:
‘471. A decorrere dal 1° gennaio 2014 le disposizioni di cui all’articolo 23 -ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, in materia di trattamenti economici, si applicano a chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche retribuzioni o emolumenti comunque denominati in ragione di rapporti di lavoro subordinato o autonomo intercorrenti con le autorità amministrative indipendenti, con gli enti pubblici economici e con le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale di diritto pubblico di cui all’articolo 3 del medesimo decreto legislativo.
472. Sono soggetti al limite di cui all’articolo 23 -ter del decretolegge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, anche gli emolumenti dei componenti degli organi di amministrazione, direzione e controllo delle autorità amministrative indipendenti e delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ove previsti dai rispettivi ordinamenti.
473. Ai fini dell’applicazione della disciplina di cui ai commi 471 e 472 sono computate in modo cumulativo le somme comunque erogate all’interessato a carico di uno o più organismi o amministrazioni, ovvero di società partecipate in via diretta o indiretta dalle predette amministrazioni.
(…)
489. Ai soggetti già titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche, le amministrazioni e gli enti pubblici compresi nell’elenco ISTAT di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, e successive modificazioni, non possono erogare trattamenti economici onnicomprensivi che, sommati al trattamento pensionistico, eccedano il limite fissato ai sensi dell’articolo 23 -ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214. Nei trattamenti pensionistici di cui al presente comma sono compresi i vitalizi, anche conseguenti a funzioni pubbliche elettive.
Sono fatti salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi. Gli organi costituzionali applicano i principi di cui al presente comma nel rispetto dei propri ordinamenti’.
La normativa statale appena enunciata è molto ampia e riguarda tutti i soggetti che, in qualunque modo ricevano da una P.A. somme di denaro a titolo di retribuzione, emolumento e trattamento pensionistico, comunque denominato, a prescindere dal fatto che siano lavoratori dipendenti o autonomi o che siano dirigenti o ricoprano altri ruoli.
Come esposto in precedenza, la normativa statale può essere derogata in senso più rigido dalle Regioni, ma non in modo che la restrizione che colpisce gli interessati sia meno severa.
Pertanto, le disposizioni regionali riportate devono essere intese, anche per il periodo anteriore alla novella del 2016, come applicabili a soggetti come l’attuale ricorrente , dovendo essere interpretate in senso conforme alla regolamentazione statale.
Con il quarto motivo il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 5 del contratto del 20 settembre 2012 e degli artt. 1218 e 2697 c.c. in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel non accogliere la sua domanda concernente la retribuzione di risultato, in violazione dei principi giurisprudenziali in tema di azione di adempimento, avendo egli allegato la fonte del suo diritto.
La censura è infondata, in quanto il giudice di appello ha accertato che non è stato dimostrato il conseguimento dei relativi obiettivi.
Con il quinto motivo il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 191, 210, 421 e 437 c.p.c. e 1218 e 2697 c.c. in quanto la corte territoriale, in ordine alla retribuzione di risultato, non ne avrebbe ritenuta dimostrata la spettanza alla stregua del principio di non discriminazione. Inoltre, si duole del mancato accoglimento delle sue istanze istruttorie.
La censura è inammissibile.
Per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, valido oltre che per il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 anche per quello previsto dal n. 3 della stessa disposizione normativa, il ricorrente che denunzia la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quali quelle processuali, non può limitarsi a specificare soltanto la singola norma di cui, appunto, si denunzia la violazione, ma deve indicare gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività di detta violazione. Siffatto onere sussiste anche allorquando il ricorrente lamenti che il giudice del gravame non abbia – pur in presenza di una sua istanza al riguardo – esercitato il suo potere-dovere istruttorio ex artt. 421 e 437 c.p.c. ed ancora quando affermi che una data circostanza debba reputarsi sottratta al thema decidendum , perché non contestata, con la conseguenza che, in tale ipotesi, il ricorrente medesimo è tenuto ad indicare le modalità e la ritualità della sua istanza istruttoria nonché ad evidenziare la tempestività della censura mossa in ordine all’inerzia o al mancato accoglimento da parte del giudice delle sue richieste (Cass., Sez. L, n. 9076 del 19 aprile 2006) .
Nella specie, il ricorrente non ha ottemperato all’onere di autosufficienza sopra descritto.
Inoltre, per ciò che concerne le istanze istruttorie, si evidenzia che il mancato esercizio, da parte del giudice di appello, del potere discrezionale di invitare le parti a produrre la documentazione mancante o di ammettere una prova testimoniale non può essere sindacato in sede di legittimità, al pari di tutti i provvedimenti istruttori assunti dal giudice ai sensi dell ‘ art. 356 c.p.c., salvo che le ragioni di tale mancato esercizio siano giustificate in modo palesemente incongruo o contraddittorio (Cass., Sez. 3, n. 1754 del l’ 8 febbraio 2012).
Nel caso in esame, però, la motivazione del giudice di appello è del tutto coerente.
7) Il ricorso è rigettato, in applicazione del seguente principio di diritto:
‘Al Direttore generale dell’Agenzia regionale per la protezione dell’Ambiente siciliana si applicano, a decorrere dal 1° luglio 2014, i limiti retributivi e pensionistici di cui all’art. 13 della legge Regione Sicilia n. 13 del 2014 e successive modifiche, ancorché prescriva un tetto massimo minore di quello stabilito dall’analoga normativa statale e non preveda la salvezza degli accordi conclusi prima della sua entrata in vigore, atteso che alla regolamentazione regionale in materia è precluso di stabilire un regime più favorevole di quello esistente a livello nazionale, al quale è obbligata a conformarsi, ma non di introdurre dei precetti più stringenti, ove tale scelta trovi giustificazione nelle peculiarità dell’organizzazione retributiva e previdenziale dell’impiego e dell’amministrazione regionali e nelle criticità che la finanza locale deve affrontare e purché, in questo modo, il sacrificio imposto ai pensionati e ai dipendenti dell’amministrazione regionale sia ragionevole – succedendo a una disciplina del trattamento ridotto originariamente fondata su criteri particolarmente favorevoli -, di durata non eccessiva, sostenibile e rispettoso delle garanzie di proporzionalità e di adeguatezza sancite dagli artt. 36 e 38 Cost. ‘.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ad opera del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
– rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente a rifondere le spese di lite, che liquida in € 7.000,00 per compenso, e a rimborsare le spese prenotate a debito;
-ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ad opera del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione