Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 6030 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 6030 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 26106-2018 proposto da:
NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2756/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 05/06/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
27/02/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; lette le memorie delle parti.
RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO
Con atto di citazione del 18 luglio 2008 NOME NOME evocava in giudizio dinanzi al Tribunale di Pavia COGNOME NOME, quale erede universale di COGNOME NOME, giusta testamento olografo del 16 gennaio 2007, chiedendone la condanna all’esecuzione del legato disposto in favore dell’attrice con successivo testamento olografo dell’8 agosto 2007, con il quale erano stati lasciati alla convenuta il contenuto di una vetrina presente nella casa della de cuius, nonché la somma di € 100.000,00.
Nella resistenza della convenuta, la quale evidenziava che in realtà la testatrice le aveva riferito in vita di voler attribuire all’attrice solo la vetrinetta, la medesima COGNOME deduceva la nullità del testamento, in quanto non autografo nella parte relativa alla data ed ai tre zeri della cifra reclamata dall’attrice, essendo anche stato vergato in modo incomprensibile subito prima dell’apposizione della cifra. In via subordinata , chiedeva l’annullamento del testamento per incapacità naturale dell’autrice. Ammesse le prove ed espletata CTU, il Tribunale adito – con la sentenza n. 1213 del 13 ottobre 2015 – dichiarava la nullità del testamento olografo dell’8 agosto 2007, rigettando per l’effetto le domande attoree.
Avverso tale sentenza ha proposto appello NOME NOME, cui ha resistito la convenuta.
La Corte d’Appello di Milano – con la sentenza n. 2756/2018, pubblicata il 5 giugno 2018 – ha rigettato il gravame.
In primo luogo, erano disattese le contestazioni circa la validità della CTU, atteso che l’ausiliario aveva assicurato la partecipazione delle parti all’accertamento materiale condotto sulla scheda, avendo consentito la formulazione delle eventuali critiche. Inoltre, era stata inviata la bozza della relazione alle parti, non assumendo carattere decisivo il fatto che nella bozza erano state omesse alcune delle immagini poi inserite nella relazione finale.
A ciò andava aggiunto che nella relazione finale erano state inserite le critiche mosse dal difensore dell’appellante alla bozza inviata, critiche che erano state oggetto anche di approfondita ed analitica disamina da parte dell’ausiliario d’ufficio.
Quanto al secondo motivo di appello con il quale si contestava la soluzione del Tribunale adesiva alle conclusioni del CTU quanto alla nullità della scheda, la sentenza d’appello rilevava che nella sostanza erano reiterate le medesime critiche che erano state mosse in primo grado dal difensore dell’appellante, le quali avevano ricevuto risposta da parte del CTU. In particolare, per le anomalie riferite alla grafia dei tre zeri della cifra richiesta, la consulenza aveva escluso che le stesse potessero essere ricondotte ad un mutato stato di illuminazione ovvero ad un differente piano di appoggio o da ipovisus, in quanto vi erano
delle evidenti difformità rispetto all’omogeneità grafica, alla coerenza ritmica ed alla qualità del tratto che consentivano di affermare l’estraneità delle cifre rispetto alla ordinaria grafia della testatrice.
Inoltre, non poteva confondersi la variazione del tratto grafico, che pur consente di ricondurre i segni all’autore, da quella che , invece, si rivela essere una vera e propria trasformazione.
Nella specie doveva escludersi che la COGNOME fosse avvezza a modificare la propria grafia, dovendosi invece ritenere che i tre zeri fossero una vera e propria trasformazione che inducevano a ravvisare l’ assenza di autografia.
Al fine di corroborare il giudizio di falsità della scrittura in parte qua la sentenza osservava che era rilevante la differente modalità di occupazione dello spazio grafico, la diversità della direzione assiale, il diverso moto formativo degli ovali e la differenza dei punti di attacco-appoggio, non essendoci quindi motivo per discostarsi dalla valutazione del Tribunale.
Una volta affermata la falsità della scheda, perdeva di rilevo il contenuto della prova testimoniale raccolta, in quanto, anche a voler riconoscere che alcuni dei testi avessero riferito di una volontà della testatrice di beneficiare l’appellante, tale volontà non si era tradotta in una valida manifestazione di volontà testamentaria.
In merito alla censura che investiva il fatto che la convenuta avesse proposto querela di falso per contestare l’autenticità della scheda, la sentenza di appello ricordava come anche prima
dell’intervento delle Sezioni Unite del 2015 (con la sentenza n. 12307) , la giurisprudenza riconosceva l’ammissibilità della querela di falso e che in ogni caso era stata la convenuta ad assumersi l’onere di provare la falsità della sc heda, conformemente a quanto affermato dalle Sezioni Unite.
Del pari era rigettato il quinto motivo di appello, che contestava l’affermazione di indeterminabilità della disposizione a titolo di legato, posto che, a prescindere dalla effettiva intellegibilità delle espressioni contenute nel testamento, la falsità della scheda escludeva di annettere qualsivoglia efficacia allo stesso.
Ciò implicava, poi, l’assorbimento del sesto motivo con il quale si lamentava la violazione dell’art. 112 c.p.c., quanto all’omessa pronuncia circa la richiesta di condanna alla consegna della vetrinetta, posto che anche tale richiesta presupponeva a monte il riconoscimento della validità del testamento.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso NOME RAGIONE_SOCIALE sulla base di sei motivi.
COGNOME NOME ha resistito con controricorso.
Le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’adunanza camerale.
Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per l’asserito difetto di una valida procura speciale, ritenendo la Corte che la procura apposta in calce al ricorso soddisfi i requisiti di specialità come appunto chiariti da Cass. S.U. n. 36057/2022 e, da ultimo, da Cass. S.U. n. 2077/2024.
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione di non meglio indicate norme di diritto e, in subordine, la nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., in relazione agli artt. 132, co. 2, n. 4, c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c.
Dopo avere richiamato il contenuto della sentenza gravata, nella parte in cui ha condiviso la soluzione circa l’assenza di autografia della scheda impugnata, si sostiene che la motivazione sia meramente apparente e comunque incomprensibile, avendo mutuato pedissequamente le espressioni del CTU, senza però adeguatamente offrire risposta alle osservazioni critiche mosse con l’atto di appello.
La ricorrente sostiene che la sentenza impugnata non avrebbe chiarito quali siano i tratti grafici della testatrice peculiari ed idonei a connotare la sua grafia; mancherebbe l’individuazione delle costanti, delle peculiarità e dei contrassegni propri della sola scrittura della COGNOME.
Inoltre, deduce la difesa della NOME, non appare chiarito in cosa consista la differenza tra variazione e trasformazione della grafia, con la conseguenza che la motivazione non appare idonea a sorreggere la decisione impugnata.
Il motivo è manifestamente infondato.
La motivazione della Corte d’Appello, ad avviso del Collegio, risulta ampiamente satisfattiva del principio del cd. minimo costituzionale, non risultando emergere dalla stessa alcuna delle condizioni di anomalia che – a mente della giurisprudenza di
questa Corte – consentono di affermare la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 132 co. 2 n. 4 c.p.c. ( v., per tutte, Cass. S.U. n. 8053/2014).
La sentenza gravata ha, infatti, adeguatamente ed esaustivamente indicato le ragioni in base alle quali doveva convenirsi con il giudice di primo grado circa la ricorrenza di una causa di nullità della scheda impugnata (e non rileva al riguardo la circostanza che la sentenza di primo grado fosse munita di una motivazione reputata non adeguata, atteso che per effetto della sostituzione della sentenza di primo grado ad opera di quella di appello, ben poteva la Corte distrettuale procedere a quella che ha reputato essere una necessaria integrazione del percorso motivazionale della decisione appellata), essendo del tutto conforme alla legge formulare la propria valutazione anche con il richiamo al contenuto della relazione tecnica d’ufficio, ove la sentenza provveda pure ad indicare le ragioni motivate della propria adesione all’elaborato tecnico.
Le critiche complessivamente mosse nel motivo in esame si risolvono, a ben vedere, in una evidente manifestazione di insoddisfazione per quello che è stato l’accertamento in fatto, esclusivamente devoluto al giudice di merito e non suscettibile di sindacato in sede di legittimità, ove corroborato da adeguata e coerente motivazione (come avvenuto nella fattispecie), non potendo il rimedio del ricorso per cassazione anelare ad una rivalutazione delle emergenze probatorie.
Occorre, altresì, sottolineare che la sentenza impugnata ha ricordato come le censure mosse con l’atto di appello erano sostanzialmente riproduttive dei rilievi già formulati in primo grado alla bozza della relazione tecnica d’ufficio trasmessa alle parti, rilievi ai quali lo stesso ausiliario d’ufficio aveva dato, secondo il giudizio del giudice di appello, approfondita ed analitica risposta (cfr. pag. 7).
La sentenza impugnata, con una consentita relatio al contenuto della perizia d’ufficio, ha perciò condiviso, in contrasto con la prospettazione difensiva della ricorrente, la risultanza dell’esclusione che i tre zeri della cifra oggetto del legato (sulla quale si era appuntata l’attenzione della perizia) potesse ro essere ricondotti alla grafia della testatrice, sottolineando come vi fossero alcune caratteristiche tipizzanti la scrittura, aventi delle connotazioni del tutto incompatibili con i segni grafici di cui è stata esclusa la paternità, occorrendo altresì escludere che si potesse parlare al riguardo di una semplice variazione del tratto, essendosi piuttosto al cospetto di una trasformazione che recide ogni possibilità di attribuzione alla testatrice.
Il ragionamento espresso dalla sentenza risulta chiaro ed adeguatamente motivato, dovendosi reputare che quanto all’indicazione delle note tecniche vi sia stato un rinvio a lle indagini e valutazioni più diffusamente esposte nella relazione d’ufficio, non potendosi addurre a causa di nullità della motivazione la mancata riproduzione in sentenza anche delle considerazioni di carattere più strettamente tecnico, essendo
rilevante ai fini della sufficienza della motivazione che siano state esplicitate le ragioni per l’adesione ai profili tecnici come illustrati dall’ausiliario d’ufficio.
Al più potrebbe ipotizzarsi che la censura sia volta a denunciare non già una carenza assoluta di motivazione ovvero una sua grave anomalia, ma un vizio di insufficienza della stessa, che però oggi esula, a seguito della novella dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., dal novero dei vizi idonei a determinare la cassazione della pronuncia gravata.
Il secondo motivo di ricorso denuncia l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., quanto all ‘asserita mancata disamina delle censure mosse all’operato del CTU nella memoria conclusionale di primo grado.
Il motivo è inammissibile.
In primo luogo, perché, avendo la sentenza di appello confermato quella di primo grado in base alle medesime ragioni inerenti alle questioni di fatto, risulta preclusa la deduzione del vizio in esame ex art. 348-ter, ultimo comma, c.p.c.
In secondo luogo, in quanto la critica non individua il fatto storico di cui sarebbe stata omessa la disamina ma si risolve, in maniera non consentita, nella sollecitazione a rivalutare le osservazioni di carattere anche tecnico mosse all’operato del CTU, a fronte della chiara manifestazione della Corte d’Appello di condividere l’assunto del consulente, anche nella parte in cui, come detto, ha
ritenuto di dissentire dalle osservazioni mosse dalla difesa della ricorrente.
Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione di non meglio specifiche norme di diritto e, in subordine, la nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. e la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c.
Anche in questo caso la critica si appunta sulla scelta del giudice di appello di fare proprie le conclusioni del CTU, senza però tenere conto della potenziale fallacia della consulenza grafologica e senza valorizzare le altre risultanze probatorie, ed in particolare della prova testimoniale, che aveva confermato come fosse corrispondente alla volontà della testatrice, per come espressa in vita, la scelta di beneficiare la ricorrente con un legato di una cospicua somma di denaro.
Anche tale motivo è inammissibile.
La violazione dell’art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’ onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la citata violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla
norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892/2016; Cass. n. 1802/2020 e Cass. S.U. n. 20867/2020).
In particolare, in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (v. la già richiamata Cass. S.U. n. 20867/2020, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116
c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria – come, ad esempio, valore di prova legale -, oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione).
La censura muove anche in questa ipotesi dal presupposto che le conclusioni dell’ausiliario di ufficio non siano condivisibili, il che rende evidente come non vi sia alcuna effettiva censura sussumibile nella violazione dell’art. 2697 c.c., ovvero una violazione delle norme in tema di utilizzazione delle prove, confermandosi, quindi, che la critica investe direttamente quello che è l’apprezzamento delle prove riservato in via esclusiva al giudice di merito, e non sindacabile nei termini proposti dinanzi al giudice di legittimità.
La Corte d’appello, lungi dal recepire acriticamente le osservazioni del proprio perito, ha invece -come già rimarcato -coerentemente esposto le ragioni di tale adesione, individuando i
profili di carattere tecnico che le apparivano convincenti e tali, quindi, da corroborare dal punto di vista scientifico l’operato del perito d’ufficio, superando in tal modo quella diffidenza che, secondo la tesi della ricorrente, dovrebbe connotare l’approccio alle perizie grafologiche.
Una volta, però, reputata incensurabile la conclusione circa la falsità delle cifre numeriche presenti nella scheda, da ricondursi evidentemente all’intervento di una mano diversa da quella della testatrice e restando, quindi, confermata la nullità dell’intera scheda, conformemente a quanto affermato dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex multis , Cass. n. 27414/2018 e Cass. n. 30237/2023; v., già in precedenza, Cass. n. 20703/2013, che aveva annesso alla falsità anche di una sola parola la conseguenza della nullità dell’intera scheda), si palesa altrettanto incensurabile la conclusione circa l’irrilevanza delle prove testimoniali in merito agli intendimenti manifestati in vita verbalmente dalla testatrice, atteso il principio formalistico che ispira la valida formazione della volontà testamentaria, il quale non può essere supplito, in presenza di una volontà non corredata dal necessario requisito di forma (essendo, come detto, affetta da nullità proprio l’indicazione dell’oggetto del legato pecuniario), dal mero richiamo alle esternazioni orali del defunto.
6. Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione di non meglio specifiche norme di diritto, nonché la nullità della sentenza o del procedimento, ex art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., e la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c.
In particolare, si sottopone a critica la sentenza di appello nella parte in cui ha reputato ammissibile la querela di falso proposta dalla convenuta nei confronti del testamento di cui la ricorrente intendeva avvalersi senza tenere conto del fatto che nelle more le Sezioni Unite -con la sentenza n. 12307/2015 – avevano statuito che la nullità del testamento dovesse essere fatta valere tramite un’autonoma domanda di accertamento della invalidità.
Anche tale motivo è privo di fondamento.
Richiamati i limiti alla deduzione della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c., come illustrati in occasione della disamina del precedente motivo di ricorso, rileva la Corte che, ancorché la citata sentenza delle S.U. n. 12307/2015, nel risolvere il contrasto manifestatosi nella giurisprudenza di questa Corte circa lo strumento più consono per contestare l’autenticità del testamento olografo, abbia percorso la diversa soluzione rispetto a quelle sino a quel momento in prevalenza prospettate (azione di disconoscimento e successiva verificazione, da un lato, e querela di falso, dall’altro), della proposizione di un’autonoma azione di accertamento della nullità, deve però reputarsi che non sia venuta meno la possibilità per la parte interessata, e cioè per l’erede legittimo (ovvero per colui che sia stato avvantaggiato da un testamento anteriore a quello di cui si assuma la falsità), di proporre la querela di falso.
Depone in tal senso il rilievo secondo cui anche la scrittura privata può essere direttamente oggetto di querela di falso (Cass. n. 15823/2020; Cass. n. 6711/2021), ove la parte abbia un
interesse a rimuoverne la valenza probatoria con efficacia erga omnes , ancorché si assuma la maggiore gravosità del giudizio di falso ed, inoltre, si valorizzi la considerazione che, a seguito della indicata sentenza delle Sezioni Unite, l’onere di provare la falsità incombe su chi intenda contestare la veridicità del testamento, con una regola di riparto che risulta del tutto sovrapponibile a quella imposta dalla proposizione dell’incidente di falso.
Trattasi di considerazione che risulta svolta anche dalla Corte d’Appello che, nel disattendere l’analoga censura mossa in appello, ha appunto rimarcato come la falsità del testamento oggetto di causa fosse stata fornita da parte della convenuta, che aveva proposto la querela di falso.
Il quinto motivo di ricorso denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., la violazione degli artt. 1363, 1366 e 1367 c.c., dell’art. 2697 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché la nullità della sentenza per la pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c.
La censura lamenta il fatto che la sentenza ha escluso la possibilità di fornire un’interpretazione conservativa della disposizione a titolo di legato, omettendo anche di pronunciare sulla richiesta di consegna della vetrinetta, del pari oggetto della disposizione testamentaria a titolo particolare.
Il motivo è manifestamente infondato.
Quanto alla violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c., si rinvia a quanto esposto in occasione della disamina del terzo motivo di ricorso, mentre l’inammissibilità della deduzione del
vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., discende, come ricordato, dal fatto di essere in presenza di un’ipotesi di cd. doppia conforme.
Quanto, invece, alla violazione delle regole di ermeneutica testamentaria, la censura non si confronta con l’effettiva ratio della sentenza impugnata che, una volta pervenuta ad affermare la falsità di alcuni caratteri grafici presenti proprio nella disposizione a titolo di legato, ha tratto la conseguenza (come detto supportata dalla giurisprudenza di questa Corte), della nullità dell’intera scheda, la quale ha reso , quindi, priva di efficacia la previsione a titolo di legato nella sua interezza, e ciò sia per quanto concerne il legato pecuniario che per quanto attiene al contenuto della vetrinetta appartenente alla testatrice.
Trattasi di precisazione la quale consente di affermare che, lungi dal configurarsi un’ipotesi di omessa pronuncia, vi sia stato un evidente rigetto della domanda attorea, rigetto rispetto alle cui ragioni fondanti il motivo non si confronta, limitandosi semplicemente a reiterare le doglianze mosse con l’atto di appello, ma disattese dal giudice del gravame proprio sul rilievo dell’integrale travolgimento della volontà testamentaria di cui alla scheda dell’agosto dell’8 agosto 2007.
Il sesto motivo di ricorso lamenta la nullità della sentenza o del procedimento per la violazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere la Corte pronunciato sulle richieste di merito di cui alle pagg. 27 e 28 dell’atto di appello.
Il motivo è evidentemente infondato, in quanto trattasi di richieste che chiaramente presupponevano che, in riforma della sentenza del Tribunale, fosse stata accertata la validità del testamento e della disposizione a titolo particolare della quale la ricorrente era beneficiaria.
Una volta respinti i motivi che investivano il riscontro della nullità del testamento per assenza di olografia, risulta conseguenziale che non potessero avere seguito le richieste di condanna nella sostanza reiterative della domanda rigettata per inesistenza di una valida manifestazione di volontà della de cuius.
In definitiva, il ricorso deve essere integralmente rigettato.
Le spese di questo giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, in favore della controricorrente, che liquida in complessivi € 6.200,00, di cui € 200,00 per esborsi,
oltre spese generali, pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater , del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore somma pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda