Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 2721 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 2721 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 04/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso 4413-2024 proposto da:
COGNOME NOME in qualità di erede di COGNOME, domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
Oggetto
R.G.N. 4413/2024
COGNOME
Rep.
Ud.20/12/2024
CC
avverso la sentenza n. 730/2023 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 06/07/2023 R.G.N. 165/2022; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
20/12/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
Con sentenza del giorno 6.7.2023 n. 730, la Corte d’appello di Milano rigettava il gravame proposto da NOME NOME, in qualità di coniuge ed erede di NOME avverso la sentenza del Tribunale di Milano che aveva respinto il ricorso promosso da quest’ultimo, volto a chiedere che l’importo corrisposto di € 6.774,39 – a seguito di domanda di condono previdenziale per il pagamento alla gestione commercianti della contribuzione dovuta alla moglie come coadiuvante familiare – pur frutto di alcuni errori di calcolo, ad avviso del ricorrente addebitabili ai funzionari Inps, e pur essendo stato l’Istituto previdenziale disposto alla restituzione, fosse invece conteggiato ai fini della quantificazione della pensione; chiedeva, quindi, il pagamento delle quote dovute, nonché il risarcimento del danno per la diminuzione del valore del credito contributivo.
Il tribunale dichiarava la decadenza dall’azione, ex art. 47 comma 2 del d.P.R. n. 639/70.
La Corte d’appello, per quanto ancora d’interesse, ha confermato la sentenza di primo grado, ritenendo infondato l’appello nel merito, in quanto trattandosi di condono previdenziale la misura del versamento, per sanare la morosità, è commisurata ex lege a quanto dovuto in relazione alla retribuzione cui si riferisce e non vi era spazio per versamenti aggiuntivi che potessero accrescere il trattamento pensionistico; ad avviso della Corte d’appello, tale statuizione travolgeva la conseguenziale domanda risarcitoria.
Avverso la sentenza della Corte d’appello, COGNOME NOMECOGNOME in qualità di coniuge ed erede di COGNOME NOME ricorre per cassazione, sulla base di nove motivi, illustrati da memoria, mentre l’Inps ha resistito con controricorso.
Per il presente giudizio, all’esito di una proposta di definizione agevolata, ex art. 380-bis primo comma c.p.c., è stata chiesta da COGNOME NOME la decisione, ai sensi dell’art. 380 -bis secondo comma c.p.c.
Il collegio riserva ordinanza, nel termine di sessanta giorni dall’adozione della decisione in camera di consiglio.
CONSIDERATO CHE:
Con i motivi di ricorso dal primo all’ottavo, il ricorrente deduce: 1) la violazione dei principi del giusto processo (ex art. 360 bis c.p.c.); 2) la violazione di norme di diritto, in relazione alla mancata istruttoria nel processo di primo e secondo grado (art. 132 comma 2 n. 4 c.p.c., in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c.); 3) violazione della normativa previdenziale nazionale, rappresentata dalla L. n. 233/90 (art. 1 comma 5 ed art. 5 commi 1, 6, 7, 8, 9 e 10) e della Circolare Inps n. 242/90, punti 1.2, 1.3 e successivi; 4) violazione dell’art. 25 Cost., sul giudice naturale precostituito per legge, in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c.; 5) violazione del legittimo diritto di ‘ aspettativa ‘ della giurisprudenza costante della Corte di Cassazione; 6) violazione dell’art. 152 disp. att. c.p.c.
Con il nono motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 25 primo comma Cost., in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c., per violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge, perché vi era stato mutamento nella composizione del Collegio giudicante, nel corso del giudizio.
In via preliminare e dirimente, va accolta l’eccezione dell’Istituto controricorrente, d’inammissibilità del ricorso, perché proposto tardivamente, rispetto al termine semestrale, ex art. 327 c.p.c., decorrente dalla pubblicazione della sentenza.
Infatti, la sentenza impugnata è stata pronunciata il 26 giugno 2023 ed è stata pubblicata il 6 luglio 2023. Dal 6 luglio 2023 decorre, dunque, il termine semestrale di cui all’art. 327 primo comma c.p.c. Poiché la controversia ha natura previdenziale non si applica la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, in virtù dell’art. 3 della legge n. 742/69 (cfr. tra le tante, Cass. n. 30608/23). Dagli atti (notifica via Pec) il ricorso risulta notificato il 5 febbraio 2024, allorché il termine semestrale era oramai irrimediabilmente decorso.
Il ricorrente, infine, invoca l’applicazione dell’istituto della remissione in termini, che nella specie è inconferente, in quanto i termini per impugnare sono perentori, richiedendosi un’impossibilità oggettiva a rispettarli, nella specie non dimostrata.
Pertanto, il ricorso è inammissibile.
Infine, senza alcun fondamento sono le questioni di legittimità costituzionale prospettate.
La prima, in riferimento all’art. 3 della legge n. 742 del 1969, perché tale norma non specificherebbe che la mancata sospensione dei termini feriali si dovrebbe riferire alle sole attività processuali attinenti all’Autorità giudiziaria (e non a quelle degli avvocati, quali la predisposizione di un ricorso), chiedendo un’interpretazione in tal senso, ma argomentando in maniera del tutto generica, senza neppure indicare i parametri costituzionali, in tesi, violati.
La seconda, in riferimento all’art. 380 -bis, terzo comma, c.p.c., perché tale norma, sottoponendo la richiesta del ricorrente alla definizione del giudizio, al rischio di essere condannato non solo alle spese di soccombenza ma anche a quelle per responsabilità aggravata, ex art. 96, terzo e quarto comma, c.p.c., limiterebbe il diritto di difesa costituzionalmente protetto dall’art. 24 Cost. La questione oltre ad essere genericamente argomentata è, comunque, manifestamente infondata, perché la soddisfazione di primarie esigenze di celerità e di economia processuale con la costituzione di un modello processuale capace di assicurare un confronto tra le parti, effettivo e paritario, costituisce espressione non irragionevole della discrezionalità riservata al legislatore nella conformazione degli istituti processuali, senza alcuna compressione del diritto di difesa per avere la parte ricorrente acquisito, all’esito dello scrutinio del suo mezzo di gravame, in sede di ‘filtro’, la consapevolezza dell’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Essendo il giudizio definito in conformità alla proposta non accettata, ai sensi dell’art.380 bis, ult. co., cod. proc. civ. deve applicarsi l’art.96, commi 3 e 4, cod. proc. civ. contenendo l’art.380 bis, ult. co. cod. proc. civ. una valutazione legale ti pica della sussistenza dei presupposti per la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata in favore della controparte e di una ulteriore somma di denaro in favore della Cassa delle Ammende, secondo quanto statuito da questa Corte a sezioni unite (Cass. S.U. n. 27195 e n. 27433/2023, poi Cass. n. 27947/2023).
Parte ricorrente va dunque condannata a pagare una somma equitativamente determinata in € 3.500,00, in favore del resistente e di una ulteriore somma di € 3.500,00, in favore della Cassa delle Ammende.
Sussistono i presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo, rispetto a quello già versato a titolo di contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente a rifondere le spese di lite del presente giudizio di cassazione, liquidate in € 7.000,00 per compensi, €200,00 per esborsi, oltre 15% per rimborso spese generali e accessori di legge. Condanna parte ricorrente a pagare al resistente l’ulteriore somma di € 3.500,00, ex art. 96 comma 3 c.p.c.
Condanna parte ricorrente a pagare € 3.500,00, in favore della Cassa delle Ammende, ex art. 96 comma 4 c.p.c.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, atteso il rigetto del ricorso, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis cit.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 20.12.24.