Termine Impugnazione Espulsione: La Presenza in Italia Annulla il Termine Lungo
Il rispetto dei termini processuali è un pilastro del nostro sistema giuridico. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha affrontato un tema cruciale: qual è il termine impugnazione espulsione corretto per un cittadino straniero che, pur essendo formalmente residente all’estero, si trova fisicamente in Italia e qui ha legami familiari? La risposta della Corte è netta e si basa su un principio di effettività: la presenza sul territorio nazionale prevale sulla residenza anagrafica.
I Fatti di Causa
Un cittadino tunisino ha impugnato un decreto di espulsione emesso nei suoi confronti dal Prefetto. Il ricorso è stato presentato al Giudice di Pace, il quale lo ha dichiarato inammissibile per tardività. Secondo il giudice di primo grado, il ricorso era stato depositato oltre il termine di 20 giorni previsto dalla legge.
Il cittadino straniero ha quindi proposto ricorso per cassazione, sostenendo che il Giudice di Pace avesse commesso un errore. A suo avviso, essendo lui residente in Tunisia, avrebbe dovuto beneficiare del termine più lungo di 40 giorni concesso a chi risiede all’estero. A prova di ciò, ha prodotto una procura rilasciata nel suo paese di origine.
Tuttavia, un dettaglio fondamentale è emerso dagli atti del primo giudizio: lo stesso ricorrente aveva dichiarato di essere radicato in Italia dal 2020, vivendo con il padre, regolarmente soggiornante e con un lavoro stabile. Questa circostanza, inizialmente usata per motivare l’illegittimità dell’espulsione per via dei legami familiari, si è rivelata decisiva per la questione dei termini.
La Questione sul Termine Impugnazione Espulsione
Il cuore della controversia legale risiede nell’interpretazione dell’articolo 18, comma 3, del D.Lgs. 150/2011. Questa norma stabilisce due termini perentori per impugnare un provvedimento di espulsione:
* 20 giorni dalla notifica, come regola generale.
* 40 giorni se il ricorrente risiede all’estero.
Il ricorrente chiedeva l’applicazione del termine di 40 giorni, basandosi sulla sua residenza formale in Tunisia. Il Giudice di Pace, invece, aveva applicato il termine breve di 20 giorni. La Corte di Cassazione è stata chiamata a decidere quale dei due termini fosse applicabile al caso di specie, considerando la dicotomia tra residenza formale all’estero e presenza fisica e integrazione in Italia.
Le Motivazioni della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha respinto il ricorso, ritenendolo infondato e confermando la decisione del Giudice di Pace. Il ragionamento dei giudici si è concentrato sulla ratio della norma che prevede un termine più lungo per i residenti all’estero.
Il termine di 40 giorni non è un beneficio automatico legato alla mera residenza anagrafica, ma una tutela pensata per superare le difficoltà concrete che una persona all’estero incontra nell’organizzare la propria difesa: trovare un avvocato in Italia, conferirgli il mandato a distanza e preparare il ricorso. Queste difficoltà, secondo la Corte, non sussistono quando la persona si trova già sul territorio nazionale.
Nel caso specifico, il ricorrente non solo era fisicamente presente in Italia al momento della proposizione del ricorso, ma aveva egli stesso affermato di essere integrato nel tessuto sociale e familiare italiano sin dal 2020. Questa affermazione, utilizzata per contestare nel merito l’espulsione, è diventata la prova che le difficoltà logistiche previste dal legislatore non esistevano. La sua presenza in Italia ha reso la sua situazione identica a quella di qualsiasi altra persona sul territorio nazionale, giustificando l’applicazione del termine ordinario di 20 giorni.
La Corte ha richiamato un precedente orientamento (Cass. 8378/2025), secondo cui la presenza dello straniero nel territorio nazionale al momento della presentazione della domanda è la linea di discrimine per l’applicazione del termine breve o lungo. Consentire a chi è presente in Italia di usare il termine per i residenti all’estero creerebbe un ‘indebito e generale allargamento dei termini’.
Le Conclusioni
Con questa ordinanza, la Corte di Cassazione stabilisce un principio chiaro: ai fini del calcolo del termine impugnazione espulsione, la condizione di ‘residente all’estero’ deve essere effettiva e non solo formale. La presenza fisica dello straniero sul territorio italiano al momento dell’impugnazione è il fattore determinante. Se la persona si trova in Italia, le ragioni che giustificano un’estensione del termine vengono meno e si applica il termine standard di 20 giorni. Questa decisione sottolinea l’importanza della coerenza delle argomentazioni difensive e riafferma un’interpretazione della legge basata sulla sostanza e sulla finalità della norma, piuttosto che su un’applicazione meramente formale.
Qual è il termine standard per impugnare un decreto di espulsione in Italia?
Secondo la legge citata nell’ordinanza (art. 18, comma 3, D.Lgs. 150/2011), il termine standard per proporre ricorso contro un provvedimento di espulsione è di venti giorni dalla sua notificazione.
In quali casi si applica il termine esteso di 40 giorni?
Il termine esteso di 40 giorni è previsto per i soli casi in cui il ricorrente risieda effettivamente all’estero. La ragione di questa estensione è quella di compensare le maggiori difficoltà pratiche nel preparare una difesa e conferire un mandato a un avvocato a distanza.
Una persona con residenza formale all’estero ma presente in Italia può beneficiare del termine di 40 giorni?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che se la persona, pur avendo una residenza formale all’estero, si trova fisicamente sul territorio nazionale al momento dell’impugnazione, deve rispettare il termine ordinario di 20 giorni. La sua presenza fisica elimina le difficoltà che giustificano il termine più lungo.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 17296 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 17296 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18166/2024 R.G. proposto da : COGNOME elettivamente domiciliato in RAGUSA INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME che lo rappresenta e difende -ricorrente-
contro
MINISTERO DELL’INTERNO PREFETTURA di COGNOME, -intimato- avverso SENTENZA di GIUDICE COGNOME n. 96/2024 depositata il 22/03/2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il ricorrente, cittadino tunisino, propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo avverso la sentenza del 22.3.2024 del Giudice di Pace di Ragusa con la quale è stato respinto il ricorso da lui proposto contro il decreto di espulsione emesso il 9.2.2024 dal Prefetto della Provincia di Ragusa, per mancanza di delega del funzionario, per l’omessa attestazione di conformità, infine per difetto di motivazione stante il radicamento nel territorio nazionale dell’opponente in virtù di legami familiari vivendo questi in Italia dal 2020 con il padre NOME COGNOME regolarmente soggiornante e con una stabile attività lavorativa e conseguente violazione degli artt. 19 e 13 co. 2 bis D.Lgs. 286/2019.
Il Prefetto della Provincia di Foggia e il Ministero dell’Interno sono rimasti intimati.
2.- Il Giudice di pace ha rilevata in via pregiudiziale la tardività del ricorso, poiché il decreto di espulsione impugnato era stato emesso e notificato in data 9.2.2024 mentre il ricorso era stato depositato in data 9.3.2024, decorso quindi il termine di venti giorni statuito a pena di inammissibilità dall’art. 18 comma 3 D.lgs. n. 150/2011.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Con l’unico motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione de ll’art. 18 co. 3 d.lgs. n. 150/2011 in relazione all’art . 360 comma 1 n.3 c.p.c. poiché il GdP avrebbe trascurato che il ricorrente è residente all’estero e che il termine per l’impugnazione, in questo caso è di 40 giorni, e sarebbe scaduto il giorno 20.03.2024. La circostanza che il ricorrente risiedesse all’estero al momento della proposizione del ricorso era chiaramente evincibile dalla procura alle liti rilasciata all’estero, tradotta in lingua francese ed apostillata in data 01.03.2024 ai fini dell’autenticazione della firma del sig. NOME COGNOME
-Il Motivo è infondato.
La questione giuridico controversa investe il concetto di residenza all’estero del richiedente, ed implica la questione se questa condizione -che consente un termine più lungo per proporre ricorso- venga meno se il ricorrente, residente in Tunisia si trovava sul territorio nazionale all ‘atto dell a presentazione del ricorso.
Questa Corte, con una recente ordinanza (v. Cass.8378/2025) ha ritenuto -in un caso in cui si discuteva della tempestività del ricorso avverso il provvedimento di diniego della protezione speciale ex art. 32, comma 3, del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25 che secondo il ricorrente avrebbe dovuto essere individuato facendo riferimento al più lungo dei due diversi (ed alternativi) termini previsti dal l’ art. 19 ter comma 4 l. n. 150/2011 – che a coloro che si trovano sul territorio nazionale al momento della domanda è lecito applicare il termine più breve (come ha fatto anche qui il giudice di merito) per la proposizione del ricorso, in conformità delle conclusioni espresse dal Pubblico Ministero, osservando che l’interpretazione fornita dalla parte ricorrente, non facendo affatto riferimento al momento della presentazione della domanda di protezione induceva a concludere che ogni richiedente possa essere considerato come persona residente all’estero purché esibisca un documento di residenza estera, ovvero una interpretazione che potrebbe condurre ad una sorta di indebito e generale allargamento dei termini per la presentazione del ricorso a sessanta giorni. Conseguentemente ha ritenuto che la presenza dello straniero nel territorio nazionale, al momento della presentazione della domanda, costituisse la linea di discrimine per verificare l’applicabilità del termine (in quel caso) di trenta giorni o di sessanta giorni, e trovandosi in quel caso la parte ricorrente in Italia all’atto della presentazione della domanda trovava applicazione il termine dei trenta giorni.
2.1Venendo al caso di specie il Collegio osserva che nell’illustrare le ragioni del ricorso e lo svolgimento del giudizio il ricorrente non menziona uno dei motivi che aveva sottoposto al Giudice di Pace onde ottenere l’annullamento del decreto di espulsione, ovvero il fatto che egli era da tempo integrato in Italia, ove si trovava sin dal 2020, vivendo con il padre, dunque la ragione ostativa all’espulsione rappresentata dai legami familiari.
Perciò -aderendo alla ratio che sorregge il precedente citato -non può che concludersi che del tutto infondatamente il ricorrente invoca la violazione da parte del Giudice di merito della norma di cui all’art. 18 comma 3 d.lgs n. 150/2011 ( « Il ricorso è proposto, a pena di inammissibilità, entro venti giorni dalla notificazione del provvedimento, ovvero entro quaranta giorni se il ricorrente risiede all’estero » ) , dovendo questa trovare applicazione solo laddove la residenza all’estero sia effettiva, giacché la ragione della previsione di un termine più ampio di impugnazione è evidentemente connessa -come afferma lo stesso ricorrente – alle maggiori difficoltà per chi si trovi all’estero di approntare la propria difesa e conferire un mandato a distanza.
3.- Perciò il ricorso va respinto. Nessuna statuizione va assunta in punto spese essendo il Ministero rimasto intimato.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.
Cosí deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1° Sezione