Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 25590 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 25590 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 25/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24984/2022 R.G. proposto da: COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO CATANIA n. 512/2022 depositata il 15/03/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18/09/2024
dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1.NOME COGNOME ha chiesto al Tribunale di Siracusa la condanna di RAGIONE_SOCIALE al risarcimento del danno per un complessivo ammontare di circa 1 milione e trecentomila Euro (di cui 1 milione per ‘lesione di valori costituzionalmente rilevanti posti a tutela del risparmio’).
Premesso di essere titolare del conto corrente on line e di aver effettuato, tramite la piattaforma di trading on line denominata ‘T3’, numerosi ordini di acquisto di titoli che rivendeva il giorno stesso, speculando sulle relative fluttuazioni giornaliere, ha dedotto di aver disposto in data 27 marzo 2012 -tra l’altro l’acquisto di n. 6.000.000 di titoli covered warrants put , con scadenza il 20 aprile 2012, per un controvalore di euro 146.395,35 che risultavano essere stati tutti venduti nella stessa data del 27 marzo 2012, attraverso quattro ordini di vendita impartiti mediante utilizzo della citata piattaforma T3 in un’unica sessione. Sosteneva, tuttavia, che in detta data fossero stati da lui ‘consapevolmente’ effettuati solo tre dei quattro citati ordini di vendita (di n. 4.000.000 titoli dei complessivi n. 6.000.000) per un controvalore di Euro 98.482,00, mentre il quarto ordine di vendita, relativo ai restanti n. 2.000.000 di titoli, per un controvalore di Euro 48.994,00, era stato disposto autonomamente dalla Banca senza la sua autorizzazione così come appurato dallo stesso attore a seguito della successiva lettura dell’estratto conto e dall’esame del prospetto riepilogativo titoli.
Chiedeva, perciò « PRELIMINARMENTE accertare che l’ordine di vendita dei n. 2.000.000 di put covered Warrant del tipo CWSG
FTSE P16000 AP 12, codice ISIN P_IVA, veniva disposto dalla banca, in data 27.03.2012 senza alcuna autorizzazione dell’odierno attore quanto segue; RITENERE E DICHIARARE la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale della banca per le violazioni commesse anche in materia di sicurezza delle operazioni di investimento mediante servizio on line »; nonché il risarcimento dell’importo di Euro 297.806,00, asseritamente pari alla differenza tra quanto avrebbe ricavato se il quarto ‘lotto’ di titoli fosse stato venduto alla scadenza dell’opzione (i.e. 20 aprile 2012) e il profitto più contenuto conseguito dalla vendita disposta il 27 marzo 2012, oltre al danno non patrimoniale quantificato in 1 milione di Euro.
RAGIONE_SOCIALE ha chiesto il rigetto della domanda illustrando con documentazione, che il contestato ordine di vendita, relativo n. 2.000.000 covered warrants put , era stato disposto autonomamente, attraverso l’accesso diretto del Cliente alla piattaforma T3 in data 27 marzo 2012, unitamente agli analoghi altri 3 ordini di vendita da lui disposti.
2.- La sentenza con cui il Tribunale – disposta CTU che ha confermato la allegazione in fatto della Banca – ha respinto la domanda, è stata appellata dal COGNOME.
La Corte d’Appello di Catania ha respinto l’appello in particolare osservando:
che il primo motivo, con cui l’appellante contestava la motivazione con la quale il primo giudice aveva affermato che l’onere della prova del dolo o della colpa della banca convenuta era a carico di parte attrice e non a carico della banca, era inammissibile perché l’appellante non aveva impugnato la qualificazione della domanda siccome basata sulla prospettazione dello stesso attore, sicché essendosi formato un giudicato sulla statuizione relativa alla qualificazione della domanda erano irrilevanti tutte le censure e considerazioni « piuttosto
confusamente affastellate » relative profili di responsabilità contrattuale dell’appellata;
quanto alla contestazione -sempre contenuta nel primo motivo – che RAGIONE_SOCIALE non avesse mai « fornito la prova dell’idoneità e sufficienza dei sistemi di sicurezza adottati da RAGIONE_SOCIALE, con particolare riferimento alla piattaforma telematica T3, a prevenire il rischio di possibili frodi o escludere anomalie tecniche nel funzionamento della detta piattaforma telematica T3 », il motivo era parimenti inammissibile non avendo mai l’appellante dedotto che terzi hackers avessero eseguito l’operazione di vendita da esso disconosciuta, approfittando dell’insufficienza dei sistemi di sicurezza adottati da RAGIONE_SOCIALE, bensì ha chiaramente ed esclusivamente contestato che RAGIONE_SOCIALE abbia direttamente effettuato tale operazione, in mancanza di una sua richiesta;
che il secondo motivo di appello, con cui l’appellante lamentava fosse stato erroneamente ritenuto provato, in base alle risultanze della CTU, che l’ordine di vendita n. NUMERO_DOCUMENTO, contestato con l’atto di citazione introduttivo del primo grado di giudizio, fosse stato disposto direttamente da esso appellante, ed, in particolare, contestava la risultanza frutto dell’accertamento peritale per cui « le movimentazioni dei titoli di cui parte attrice disconosce la paternità, rispetto a quelle invece riconosciute, sono state eseguite nello stesso contesto temporale, utilizzando le stesse credenziali attribuite al COGNOME e operando con il medesimo indirizzo IP», era infondato, poiché la circostanza che gli ordini di vendita riconosciuti dal COGNOME e l’ordine contestato erano stati eseguiti nell’ambito di una medesima sessione risultava già dalla documentazione prodotta in primo grado dal medesimo COGNOME, ovvero dalle note informative di RAGIONE_SOCIALE, relative a tutti e quattro gli ordini di vendita, «tutte datate 27.3.2012, da cui si deduce che gli ordini di vendita riconosciuti sono stati effettuati alle ore 12.02, alle ore 12.01 ed alle ore11.56, mentre l’ordine, oggetto di contestazione,
risulta effettuato alle ore 12.01 »; del resto, argomentava la Corte di merito, parte appellante aveva completamente ignorato la circostanza che dalla CTU emergeva la natura crittografata delle password fornite da RAGIONE_SOCIALE, onde la banca, per eseguire un’operazione apparentemente riconducibile al COGNOME, avrebbe dovuto necessariamente ricorrere ad un hacker , circostanza inverosimile considerati il tempo e il contesto dell’operazione (le quattro disposizioni di vendita -tre riconosciute ed una sola disconosciutaerano state effettuate nell’arco di pochissimi minuti o secondi l’una dall’altra, utilizzando il medesimo indirizzo IP, onde per ipotizzare l’intervento di un hacker incaricato dalla banca, avrebbe dovuto necessariamente ipotizzarsi che questi stesse seguendo la sessione aperta dal COGNOME dal suo inizio e che si fosse inserito subito dopo la prima disposizione per effettuare il secondo ordine di vendita);
d) che anche il terzo motivo di appello con cui era censurata la conclusione del CTU circa il fatto che l’appellante avesse compiuto l’operazione di vendita contestata attraverso l’accesso alla piattaforma T3, era inammissibile per carenza di interesse, atteso che parte appellante «non censura la specifica affermazione del CTU, secondo cui tutte e quattro le operazioni dispositive di vendita e non solo quella disconosciuta sono state effettuate tramite la Piattaforma T3 »;
e) che era inammissibile per genericità anche la censura con cui parte appellante lamentava che la relazione di CTU fosse lacunosa per non avere « il CTU nominato saputo (o voluto) dare alcuna esauriente risposte ad alcune delle osservazioni avanzate dal COGNOME….» , la quale era anche infondata, per essersi il COGNOME limitato a formulare richieste al CTU di chiarimenti di natura puramente esplorativa, senza contestarne le motivate conclusioni, fermo, poi, che non potevano essere prese in considerazione dalla Corte le nuove censure mosse alla CTU solo con la comparsa conclusionale
in appello, tratte dalla relazione di un consulente di parte inammissibilmente allegata alla stessa;
infine, quanto all’ultimo motivo di gravame relativo alla quantificazione delle spese di lite, operata dal primo giudice (nella misura di €. 40.000, oltre spese generali, iva e cpa) ritenuta « sicuramente eccessiva e superiore ai valori medi tabellari, così come regolati dal D.M. 55/2014 », l’ha Corte ne ha dichiarato l’inammissibilità in parte per la sua genericità ed in parte perché non teneva conto che il primo giudice aveva motivato il superamento dei valori medi, operato nella misura di circa il 10%, specificatamente « in considerazione della evidente fondatezza delle ragioni di parte convenuta ».
3.- Avverso detta sentenza il sig. COGNOME ha presentato ricorso affidandolo a tre motivi di cassazione. Ha resistito, con controricorso Banco BPM (che nelle more aveva incorporato RAGIONE_SOCIALE) che ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità del ricorso per tardività della notifica, la sua improcedibilità ai sensi dell’art. 369 c.p.c. non avendo il ricorrente provveduto al deposito dell’originale della sentenza gravata, ed infine la sua inammissibilità ex art. 348 ter ultimo comma c.p.c. Il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.L’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardiva notificazione dello stesso è fondata.
Il ricorrente ha notificato il ricorso per Cassazione in data 14.10.2022 (doc. 4) avvalendosi del termine c.d. lungo di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza. Tuttavia, Banco BPM, il giorno seguente alla pubblicazione della Sentenza impugnata (15.3.2022) aveva proceduto alla notifica della stessa ai difensori del sig. COGNOME, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 326 c.p.c. (decorrenza del c.d. termine breve) (doc. 5). Perciò il ricorrente avrebbe dovuto notificare il ricorso per Cassazione entro il termine perentorio di
sessanta giorni (art. 325 c.p.c.) decorrente dalla data di notifica della sentenza (16.3.2022) e, dunque, entro il 16.5.2022.
1.1- Nella memoria depositata in termini il ricorrente contesta la regolarità della notifica della sentenza agli effetti della decorrenza del termine breve in quanto effettuata presso i precedenti difensori (AVV_NOTAIO, NOME COGNOME e NOME COGNOME), che afferma aver « ritualmente sostituito » a far data dal 24/9/2021, e che, quindi, non lo rappresentavano più all’epoca della pubblicazione della sentenza della Corte di Appello, avvenuta il successivo 15/3/2022. Non allega documentazione per comprovare quanto afferma ma rinvia alla consultazione del fascicolo di secondo grado per la verifica della procura speciale ritualmente depositata dall’attuale difensore AVV_NOTAIO.
Secondo la resistente, invece, rispetto ai precedenti tre difensori, non risulta in atti alcuna revoca del mandato né rinuncia allo stesso che sia stata ritualmente depositata nel corso del procedimento d’appello o che sia stata in alcun modo comunicata ai difensori di Banco BPM.
1.2 -Ciò detto vanno opportunamente richiamati i principi in materia affermati da questa Corte, ed in primis quello per cui « la nomina nel corso del giudizio di un secondo procuratore non autorizza di per sé sola, in difetto di univoche espressioni contrarie, a presumere che la stessa sia fatta in sostituzione del primo, dovendosi, invece, presumere che ne sia stato aggiunto a questi un altro e che ognuno di essi sia munito di pieni poteri di rappresentanza processuale della parte, in base al principio del carattere ordinariamente disgiuntivo del mandato stabilito dall’art. 1716 comma 2 c.c ..» (Cass n. 34800 del 17.1.2021), il quale principio induce, anzitutto, a rilevare che l’affermazione del ricorrente di aver « ritualmente sostituito » i precedenti difensori non è sufficiente neppure come allegazione del fatto dell’avvenuta « sostituzione » nella misura in cui si accompagna all’invito alla
consultazione del fascicolo di secondo grado per la sola verifica della presenza della procura speciale ritualmente depositata dall’attuale difensore AVV_NOTAIO, appunto perché la presenza di tale procura e, quindi, del mandato difensivo all’AVV_NOTAIO non implica affatto né che ad essa si sia accompagnata la revoca del mandato ai precedenti procuratori né che essa abbia avuto l’effetto sostitutivo affermato. Tanto più in quanto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, « la revoca della procura da parte del cliente o la rinuncia alla stessa da parte del difensore, a norma dell’art. 85 cod. proc. civ., non fanno perdere al procuratore (revocato o rinunciante) lo ius postulandi e la rappresentanza legale del cliente per tutti gli atti del processo fino a quando non si sia provveduto alla sua sostituzione con altro procuratore e tale sostituzione non sia stata ufficialmente comunicata » (Cass. 5410/2001); e ciò in quanto le vicende della procura alle liti sono disciplinate, dall’art. 85 cod. proc. civ., in modo diverso dalla disciplina della procura al compimento di atti di diritto sostanziale (ove è previsto che chi ha conferito i poteri può revocarli o chi li ha ricevuti, dismetterli, con efficacia immediata) poiché né la revoca né la rinuncia privano – di per sé – il difensore della capacità di compiere o di ricevere atti, in quanto i poteri attribuiti dalla legge processuale al procuratore non sono quelli che liberamente determina chi conferisce la procura, ma sono attribuiti dalla legge al procuratore che la parte si limita a designare.
Ne consegue che, in base all’art. 85 cod. proc. civ., ciò che priva il procuratore della capacità di compiere o ricevere atti, non è la revoca o la rinuncia di per sé, bensì il fatto che alla revoca o alla rinuncia si accompagni la sostituzione del difensore (v. Cass. 2910-1997 n. 10643, nonché fra le altre, Cass. 11-4-2001 n. 5410, Cass. 14-4-2004 n. 7073, Cass. 20-10-1989 n. 4226. Cass. 10-21987 n. 1383).
Nella specie non risulta detta revoca (ed, anzi, dall’epigrafe della sentenza impugnata risulta che il ricorrente era assistito dall’AVV_NOTAIO, destinatario della p.e.c. volta alla notificazione della sentenza). Sicché in mancanza di documentazione che comprovi la revoca e la sostituzione dei difensori cui la sentenza gravata è stata notificata e una comunicazione idonea in atti di tali eventi, l’eccezione d’inammissibilità per tardività del ricorso risulta fondata.
2.L’inammissibilità del ricorso per tardività si coniuga con l’inammissibilità dei tre motivi di ricorso.
2.1- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.115, art. 116, art.167, comma primo, c.p.c., art.2697 c.c. in relazione all’art.360, comma primo, n.3 e 5, c.p.c. e art. 111 Cost. sull’obbligo di motivazione.
2.2 -Il secondo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.1218, 1703 e 1710, 1176 secondo comma c.p.c., omessa e/o erronea valutazione delle risultanze istruttorie e documentali, senza indicare a quale vizio tipico di legittimità intende riferirsi.
2.3 – Il ricorrente illustra entrambi i motivi in modo congiunto, prospettando cumulativamente vizi di natura eterogenea (censure motivazionali ed errores in iudicando e in procedendo ), in contrasto con la tassatività dei motivi di impugnazione per cassazione e con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità per cui una simile tecnica espositiva riversa impropriamente sul giudice di legittimità il compito di isolare, all’interno di ciascun motivo, le singole censure (cfr., ex plurimis , anche nelle rispettive motivazioni, Cass. nn. 16448 e 4979 del 2024; Cass. nn. 35782, 30878, 27505 e 4528 del 2023; Cass. nn. 35832 e 6866 del 2022; Cass. n. 33348 del 2018; Cass. nn. 19761, 19040, 13336 e 6690 del 2016; Cass. n. 5964 del 2015; Cass. nn. 26018 e 22404 del 2014). È inammissibile, in altre parole, la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse
ipotesi contemplate dall’articolo 360, comma 1, nn. 3, 4 (non esplicitamente indicato ma ravvisabile nella «omessa e/o erronea valutazione delle risultanze istruttorie e documentali» di cui alla rubrica del secondo motivo) e 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quelli della violazione di norme di diritto, sostanziali e processuali, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che, invece quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (cfr. Cass. n. 4979 del 2024; Cass. nn. 35782, 30878 e 27505 del 2023; Cass. nn. 11222 e 2954 del 2018; Cass. nn. 27458, 23265, 16657, 15651, 8335, 8333, 4934 e 3554 del 2017; Cass. nn. 21016 e 19133 del 2016; Cass. n. 3248 del 2012; Cass. n. 19443 del 2011). Una tale impostazione, che assegna al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze della parte ricorrente al fine di decidere successivamente su di esse, finisce con il sovvertire i ruoli dei diversi soggetti del processo e rende il contraddittorio aperto a conclusioni imprevedibili, gravando l’altra parte del compito di farsi interprete congetturale delle ragioni che il giudice potrebbe discrezionalmente enucleare dal conglomerato dell’esposizione avversaria.
È sicuramente vero, peraltro, che, in tema di ricorso per cassazione, l’inammissibilità della censura per sovrapposizione di motivi di impugnazione eterogenei può essere superata se la formulazione del motivo permette di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, di fatto scindibili, onde consentirne l’esame separato, esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (cfr. Cass. n. 39169 del 2021. In senso sostanzialmente conforme, si vedano anche Cass., SU, n. 9100 del 2015; Cass. n. 7009 del 2017; Cass. n. 26790 del 2018). Ma detta
possibilità non si rinviene nel motivo di ricorso in esame, il quale, per come concretamente argomentato (circa 30 pagine in cui vengono stanzialmente riproposti gli argomenti dei motivi di appello inerenti al merito del giudizio), non consente di individuare, con chiarezza, le doglianze riconducibili agli invocati vizi, rispettivamente, ex art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., in modo tale da consentirne un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi e senza rimettere al giudice il compito di isolare quella teoricamente proponibili, al fine di ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse.
2.4- Anche provando -per quanto è possibile – ad identificare ed isolare in detta argomentazione i motivi di censura onde riferirli ai vizi invocati, ed in particolare al vizio di motivazione denunciato attraverso il richiamo al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., il risultato è, comunque, quello dell’inammissibilità in questa sede di legittimità delle doglianze formulate, le quali nella veste formale del vizio di legge , costituiscono in realtà una critica al convincimento raggiunto dal giudice nel merito, alla luce dell’analisi dei fatti, delle prove e della CTU, che non può essere riproposto in questa sede se non negli stretti limiti in cui tale convincimento risulti raggiunto applicando erroneamente le regole di giudizio, e di valutazione della prova, ovvero rendendo una motivazione che, in quanto apparente contraddittoria o ipotetica, ove non addirittura omessa, non soddisfi i requisiti minimi costituzionali cui lo stesso ricorrente fa riferimento invocando l’art. 111 cost.
2.4.1- Invero -con particolare riferimento al vizio di cui all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. -deve ribadirsi che l’attuale formulazione del testo è teso a ridurre al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione; tanto che – si è detto -resta denunciabile in cassazione “solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il
vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali “, e tale anomalia si esaurisce nella ” mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico “, nella ” motivazione apparente “, nel ” contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabil i” e nella ” motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile “, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ” sufficienza ” della motivazione (v. Cass. Sez. U n. 8053-14).
Il che, evidentemente, qui non è alla luce degli stessi argomenti del ricorrente che assume, piuttosto, che il giudice di merito di secondo grado, non valutando correttamente il materiale probatorio complessivamente offerto e soprattutto quello risultante dalla CTU, non avrebbe ritenuto « decisivi » elementi che, qualora avesse apprezzato, avrebbero potuto condurre ad una decisione diversa, equivocando chiaramente sullo strumento processuale di cassazione invocato, che si riferisce all’omissione della considerazione di un « fatto storico » preciso, oggetto di discussione delle parti, e « decisivo » perché la sua considerazione avrebbe mutato l’esito della lite. Cosa che qui non è, poiché il ricorrente si duole del fatto che il giudice non avrebbe colto che « BPM, non ha fornito alcuna prova in ordine alla riconducibilità dell’operazione contestata alla volontà del cliente, odierno ricorrente, né ha mai fornito la prova dell’idoneità e sufficienza dei sistemi di sicurezza adottati da RAGIONE_SOCIALE, con particolare riferimento alla piattaforma telematica ‘T3’, a prevenire il rischio di possibili frodi o escludere anomalie tecniche nel funzionamento della detta piattaforma telematica » osservando, altresì, che non « può sopperire all’onus probandi posto a carico della banca convenuta la C.T.U. disposta dal giudice di prime cure di cui appare evidente l’insufficienza ed inconsistenza dell’analisi tecnica eseguita dal C.T.U. che non è stato in grado di fornire una spiegazione chiara ed esaustiva dell’anomalia evidenziata dai tabulati forniti dalla banca e dalle
note informative inviate al cliente dalla stessa RAGIONE_SOCIALE) »; nonché del fatto il giudice non avrebbe riconosciuto come «non provata l’asserzione di parte convenuta – pedissequamente ripresa dal consulente tecnico d’ufficio -secondo cui l’operazione di vendita in contestazione (la n. 29695) veniva impartita, in data 27.03.2012, mediante la piattaforma T3 in versione ‘consultare e disporre’ a pagamento» .
Come è evidente, le critiche articolate dalla difesa della ricorrente non hanno il tono proprio di una censura di legittimità, bensì sotto l’apparente deduzione del vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione, già esaminati dal giudice di secondo grado secondo un apprezzamento che non è censurabile neppure sotto il profilo del vizio di violazione di legge ex art 116 c.p.c. (richiamato nel primo mezzo), essendo noto che la doglianza circa la violazione di detta norma è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo « prudente apprezzamento », pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento: e, nel caso in esame, nulla di tutto ciò si rinviene nella censura, la quale altro non fa che rimettere in discussione il governo del materiale probatorio operato dal giudice di merito (per tutte Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020, n. 20867); né sotto il profilo della violazione di legge ex art. 115 c.p.c (sempre richiamato nel primo mezzo) poiché agli effetti della violazione di detta norma occorre denunciare che il giudice, in contraddizione
espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (per tutte Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020, n. 20867); e tantomeno sotto il profilo dell’art. 167 c.p.c. (ancora richiamato nel primo mezzo) di cui- in assenza assoluta di illustrazione del medesimo – sfugge totalmente la ragione di violazione che il ricorrente intendeva muovere.
2.4.2.- Inammissibili sono altresì gli argomenti che richiamano la violazione (di cui al secondo mezzo) dell’art.1218, 1703 e 1710, 1176 secondo comma c.p.c., in quanto il giudice non avrebbe valutato correttamente gli obblighi di diligenza gravanti sulla banca quale operatore qualificato, «in particolare, con specifico riferimento all’utilizzazione di servizi o strumenti telematici» avendo omesso il giudice « di verificare l’adozione da parte della banca delle misure idonee a garantire la sicurezza del servizio » poiché, assume il ricorrente, richiamando giurisprudenza sulla diligenza dell’intermediario finanziario – « la diligenza posta a carico del professionista ha natura tecnica e deve essere valutata tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento » onde il « giudice di merito, per assolvere l’intermediario finanziario dalla responsabilità conseguente alla violazione dei predetti obblighi di diligenza… deve accertare se sussista effettivamente la prova positiva della sua diligenza e dell’adempimento delle obbligazioni poste a suo carico e, in mancanza di tale prova, che è a carico dell’intermediario fornire, questi sarà tenuto al risarcimento dei danni causati al risparmiatore ».
Detti argomenti, oltre a non essere pertinenti al caso di specie che non concerne un contratto di intermediazione finanziaria, non si confrontano con la ratio decidendi della decisione gravata che, in effetti, poggia non sulla mancata prova della negligenza della banca (di cui il danneggiato lamenta sarebbe stato ritenuto onerato in ragione di un’errata ripartizione dell’onere della prova, frutto di un’errata qualificazione della domanda) bensì sul fatto che sia stato ritenuto – in primo e in secondo grado – provato proprio dalla banca, in base ai documenti prodotti e alle risultanze della CTU, che l’ordine di vendita n. NUMERO_DOCUMENTO, contestato con l’atto di citazione introduttivo del primo grado di giudizio, fosse stato disposto direttamente da esso ricorrente; invero, tanto nei motivi di appello che in questa sede il ricorrente si duole del convincimento sul punto del giudice, in particolare qui deducendo ad illustrazione del primo motivo di censura della decisione che, diversamente da quanto ivi affermato, « BPM, non ha fornito alcuna prova in ordine alla riconducibilità dell’operazione contestata alla volontà del cliente, odierno ricorrente » osservando, altresì, che non « può sopperire all’ onus probandi posto a carico della banca convenuta la C.T.U. disposta dal giudice di prime cure di cui appare evidente l’insufficienza ed inconsistenza dell’analisi tecnica eseguita dal C.T.U. che non è stato in grado di fornire una spiegazione chiara ed esaustiva dell’anomalia evidenziata dai tabulati forniti dalla banca e dalle note informative inviate al cliente dalla stessa RAGIONE_SOCIALE) ».
Perciò è irrilevante la censura che il ricorrente in questa sede muove al fatto che la Corte avrebbe errato a ritenere che la qualificazione della domanda operata dal giudice di primo grado, in quanto non contestata specificamente, costituisse una statuizione passata in giudicato, poiché -anche ammesso che su tale punto il giudicato non potesse affermarsi dato che, anche se la parte interessata non aveva proposto specifica impugnazione, le censure formulate dall’appellante erano incompatibili con la qualificazione
stessa (v. Cass. Sentenza n. 31330 del 10/11/2023) -la sentenza gravata conferma il ragionamento nel merito del giudice di prime cure senza venire in ciò condizionato dal regime dell’onere probatorio connesso a detta qualificazione della domanda, bensì -come si è visto poco sopra – alla luce delle risultanze della CTU circa la prova del fatto che l’ordine di vendita contestato fosse stato impartito proprio dal ricorrente, che, quindi, infondatamente aveva sostenuto il contrario.
Sicché in primo come in secondo grado, non si è discusso della diligenza della banca nell’assolvere al mandato di intermediatore finanziario anche predisponendo adeguate tutele per evitare che terzi si inserissero nel sistema, bensì del fatto, dedotto dall’attore qui ricorrente, che uno (solo) dei quattro ordini di vendita impartiti on line alla banca non provenisse da lui bensì dalla banca stessa (come si evince chiaramente dalle stesse conclusioni dell’atto di citazione riportate per esteso nella sentenza gravata nella parte dedicata allo svolgimento del processo, e che poco sopra, nella sezione «fatti di causa» si sono richiamate); e la Corte d’Appello ha confermato la decisione del Tribunale e la ricognizione delle risultanze probatorie circa il fatto che la banca aveva provato che l’ordine era stato impartito dal cliente, con motivazione cui il ricorrente muove censure inammissibili, con la conseguenza che -avuto riguardo alla ratio decidendi – risulta infondata la censura riferita alla violazione dell’art. 2697 c.c. configurabile soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, e non anche quando, a seguito di una pretesa incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. 17 giugno 2013, n. 15107;
Cass. 5 settembre 2006, n. 19064; Cass. 14 febbraio 2000, n. 2155; Cass. 2 dicembre 1993, n. 11949), che a sua volta il ricorrente -come detto -ha invocato in modo improprio.
2.5Da ultimo nell’illustrare i due motivi il ricorrente (v. pag.47) contesta la statuizione della sentenza d’appello relativa alla censura concernente la quantificazione delle spese di lite, liquidate nella misura di euro 40.000,00 e nella parte in cui ritiene che: « Il motivo in esame è inammissibile in parte per la sua genericità ed in parte perché non tiene conto della motivazione del primo giudice », assunto che non sarebbe condivisibile perché « la liquidazione delle spese di lite pronunciata dal Giudice di primo grado e confermata con la sentenza oggi impugnata risulta eccessivo e superiore rispetto ai parametri generali per la determinazione dei compensi in sede giudiziale di cui al D.M. 55/2014 ».
2.5.1- La censura è inammissibile poiché, lungi dal censurare gli argomenti svolti dalla Corte d’appello nell’emettere la decisione sul punto, sembra averli ignorati avendo, in effetti, ritrascritto i motivi d’appello già formulati e respinti.
3.- Il terzo motivo rubricato « Spese processuali -violazione degli artt. 91 e 113 c.p.c. -liquidazione globale, assenza dell’indicazione del criterio di liquidazione delle spese legali per mancata specificazione dei parametri forensi applicati e delle singole voci oggetto di liquidazione relative al procedimento di primo grado -omessa motivazione, in relazione all’art. 360 n.3 c.p. c.» si riferisce alla liquidazione delle spese processuali, laddove la Corte d’Appello di Catania ha effettuato la liquidazione dei compensi complessivamente, senza richiamo alcuno ai parametri forensi applicati e alle singole voci oggetto di liquidazione, quantificando le stesse nella abnorme misura di « spese del grado, liquidate in € 22..917 oltre rimborso spese generali, iva e cpa »
3.1- Anche detto motivo è inammissibile poiché il ricorrente non illustra le ragioni per cui le norme invocate sarebbero state violate,
limitandosi ad asserire che nella liquidazione non vi sarebbe richiamo alcuno ai parametri forensi applicati, senza dolersi, però, se non genericamente (laddove definisce « abnorme » la liquidazione) della quantificazione in concreto operata dal giudice (distinguendo compensi, e rimborso spese) sulla base di una pretesa che attribuiva alla causa il valore di euro 1.297.000,00 euro, rispetto alla quale, considerati gli scaglioni di riferimento, la censura di abnormità appare del tutto apodittica: è difatti superfluo rammentare che le spese di lite, in caso di rigetto della domanda di condanna al pagamento di una somma, vanno liquidate in applicazione del parametro del disputatum (Cass. 15856/2019 tra le tantissime).
4.- Il ricorso in definitiva va dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come nel dispositivo, ai sensi del D.M. 12 luglio 2012, n. 140. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore di Banco BPM liquidate nell’importo di euro 18.200,00 cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% sul compenso ed agli accessori come per legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dalla I. 24 dicembre 2012, n. 228, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1- bis.
Cosí deciso in Roma, nella camera di consiglio del 18.9.2024