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Superminimo non assorbibile: quando è modificabile?

Una lavoratrice si oppone alla cancellazione del suo “superminimo non assorbibile”, introdotto anni prima da un accordo collettivo per compensare un cambio di CCNL. L’azienda aveva successivamente disdetto l’accordo. La Corte di Cassazione ha stabilito che, poiché il superminimo aveva origine collettiva e non era legato a meriti individuali, non si è mai incorporato nel contratto individuale come diritto quesito. Pertanto, la sua fonte (il contratto collettivo aziendale) poteva essere legittimamente modificata o cessare, anche con effetti peggiorativi per il lavoratore, senza violare il principio di irriducibilità della retribuzione.

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Pubblicato il 3 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Superminimo non assorbibile: è un diritto intoccabile? La Cassazione fa chiarezza

Il superminimo non assorbibile rappresenta una delle voci più delicate e discusse nella busta paga di un lavoratore. Considerato spesso un baluardo della retribuzione individuale, si crede comunemente che sia un diritto acquisito e immutabile. Ma è davvero così? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 18913/2024) getta nuova luce sulla questione, chiarendo quando questo elemento salariale può essere modificato o addirittura eliminato. La Corte stabilisce un principio cruciale: la sua intangibilità dipende interamente dalla sua origine. Vediamo insieme il caso e le sue importanti implicazioni.

I fatti di causa: dalla tutela salariale alla cancellazione del superminimo

La vicenda ha origine dal cambiamento del contratto collettivo nazionale (CCNL) applicato a una dipendente, passato dal settore artigianato a quello del terziario. Per evitare una decurtazione dello stipendio, un accordo collettivo di salvaguardia del 1997 aveva introdotto un superminimo non assorbibile, pari alla differenza tra il vecchio e il nuovo trattamento economico. Questo importo era stato erogato a tutti i dipendenti, sia a quelli rimasti nell’azienda originaria sia a quelli transitati in una nuova società a seguito di una cessione di ramo d’azienda.

Per oltre vent’anni, la situazione è rimasta stabile. Tuttavia, nel 2018, l’associazione datoriale ha comunicato la disdetta di tutti gli accordi integrativi aziendali, cessando, a partire dal 2020, l’erogazione del superminimo.

La lavoratrice ha ottenuto un decreto ingiuntivo per il pagamento delle somme non corrisposte, ma la Corte d’Appello ha ribaltato la decisione, dando ragione all’azienda. La questione è così giunta dinanzi alla Corte di Cassazione.

La decisione della Corte sul superminimo non assorbibile

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso della lavoratrice, confermando la legittimità della cancellazione del superminimo. Il ragionamento dei giudici si fonda su una distinzione fondamentale: quella tra fonte individuale e fonte collettiva della retribuzione.

La Corte ha chiarito che il trattamento retributivo goduto dalla dipendente non era frutto di un accordo individuale, ma derivava da un contratto collettivo. Anche il superminimo, istituito per neutralizzare gli effetti del nuovo CCNL, aveva la stessa natura collettiva. Era stato concesso a tutta la platea dei lavoratori e non per compensare specifiche abilità o mansioni della singola dipendente.

Le motivazioni: perché il superminimo di fonte collettiva non è un diritto quesito

Il punto centrale della sentenza è il seguente: gli istituti previsti dalla contrattazione collettiva non si “incorporano” automaticamente e permanentemente nel contratto di lavoro individuale. Il riferimento nel contratto di assunzione al “vigente contratto collettivo” è un “rinvio formale”, non “materiale”. Ciò significa che il contratto individuale si adegua dinamicamente alle evoluzioni della contrattazione collettiva.

Di conseguenza, un contratto collettivo può essere sostituito da uno successivo, anche se quest’ultimo prevede condizioni peggiorative (mutamento in peius). Il principio di irriducibilità della retribuzione, sancito dall’art. 2103 c.c., tutela il lavoratore da modifiche unilaterali del datore di lavoro, ma non impedisce che la fonte collettiva stessa cambi nel tempo.

I “diritti quesiti”, cioè i diritti definitivamente acquisiti, riguardano solo le prestazioni già maturate e rese (ad esempio, le mensilità di superminimo già percepite), non la garanzia che quella stessa voce retributiva venga mantenuta per il futuro. Poiché il superminimo in questione era legato a un accordo collettivo, la sua esistenza è terminata con la legittima disdetta di quell’accordo da parte del datore di lavoro.

Conclusioni: implicazioni pratiche per lavoratori e aziende

Questa ordinanza offre un importante insegnamento. Per i lavoratori, è fondamentale comprendere la natura di ogni elemento della propria busta paga. Un superminimo non assorbibile di origine collettiva non è una garanzia a vita, ma è condizionato alla vigenza dell’accordo che lo ha previsto. Per le aziende, la sentenza conferma la possibilità di gestire la contrattazione di secondo livello attraverso la negoziazione, la modifica o la disdetta degli accordi, nel rispetto delle corrette procedure sindacali. La decisione ribadisce la flessibilità della contrattazione collettiva come strumento per adattare le condizioni di lavoro alle mutevoli esigenze economiche e organizzative, anche quando ciò comporta una revisione di trattamenti economici precedentemente accordati.

Un “superminimo non assorbibile” previsto da un accordo collettivo diventa un diritto permanente del lavoratore?
No. Secondo la Corte, se il superminimo nasce da una fonte collettiva e non per compensare specifiche qualità professionali individuali, non si incorpora nel contratto individuale. Resta legato alla vigenza dell’accordo collettivo che lo ha introdotto e può essere modificato o eliminato da accordi successivi o dalla disdetta del precedente.

Un datore di lavoro può ridurre la retribuzione eliminando un superminimo previsto da un contratto aziendale?
Sì, è possibile. La successione di contratti collettivi può portare a un trattamento peggiorativo (in peius). Il principio di irriducibilità della retribuzione non impedisce che una fonte collettiva successiva modifichi o sostituisca una precedente, anche con clausole meno favorevoli, a condizione che la procedura di modifica o disdetta della fonte collettiva sia legittima.

Qual è la differenza tra rinvio “formale” e “materiale” a un contratto collettivo?
Il rinvio “formale”, che è la norma, si limita a indicare la fonte collettiva che regola il rapporto in un dato momento, fonte che può cambiare nel tempo. Il rinvio “materiale”, più raro, recepisce specifiche clausole del contratto collettivo nel contratto individuale, rendendole stabili e insensibili alle modifiche future della fonte collettiva.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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