Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 20601 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 20601 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/07/2025
SENTENZA
sul ricorso 21073-2020 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio COGNOME RAGIONE_SOCIALE COGNOME, rappresentata e difesa da ll’avv. NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO nello studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME IMPERATORE
-controricorrente
nonchè contro
RAGIONE_SOCIALE
-intimata –
avverso la sentenza n. 94/2020 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata in data 28/04/2020
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
udito il Procuratore Generale, nella persona del Sostituto dott.ssa NOME COGNOME
uditi gli avvocati NOME COGNOME per parte ricorrente, e NOME COGNOME in sostituzione dell’avv. NOME COGNOME per parte controricorrente
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 1.2.2017 RAGIONE_SOCIALEgià RAGIONE_SOCIALE evocava in giudizio RAGIONE_SOCIALE innanzi il Tribunale di Trento, esponendo di aver sottoscritto con la convenuta un contratto in virtù del quale la stessa si era impegnata a svolgere una serie di servizi specialistici nell’ambito di un progetto del Ministero dell’Ambiente denominato ‘MIAPI’, finalizzato ad individuare, tramite analisi geografica, eventuali siti di interramento di rifiuti nel territorio della regione Calabria. Dopo l’iniziale offerta di RAGIONE_SOCIALE del 30.12.2014, cui seguiva l’ordine dell’attrice in data 26.3.2015, avente ad oggetto servizi di alimentazione di un archivio informatico, assistenza evolutiva nell’elaborazione dei dati territoriali e
addestramento del personale, l’amministratore unico della convenuta aveva rappresentato l’esigenza di acquisire ulteriori mappe e banche dati, formulando offerta integrativa del 9.6.2015, seguita da ordine della committente, sostitutivo di quello iniziale. La società convenuta, tuttavia, non aveva ottemperato -secondo l’attricealla sua obbligazione, in quanto nessuna banca dati o mappa era stata acquistata e consegnata a RAGIONE_SOCIALE Quest’ultima chiedeva quindi la risoluzione per inadempimento del rapporto contrattuale intercorso tra le parti a seguito dell’offerta integrativa di RAGIONE_SOCIALE con condanna di quest’ultima alla restituzione dell’acconto percepito, pari ad € 171.077,59 e dichiarazione di null’altro a pretendere; in subordine, invocava la riduzione del corrispettivo del valore dell’ordine integrativo, rimasto inadempiuto; in ulteriore subordine, la condanna della convenuta al risarcimento del danno o alla restituzione dell’indebito; in ogni caso, con risarcimento del danno patito a fronte dell’inadempimento.
Si costituiva RAGIONE_SOCIALE resistendo alla domanda e chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna dell’attrice al saldo ancora dovuto in base agli accordi contrattuali raggiunti tra le parti.
Dopo l’integrazione del contraddittorio nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, che rimaneva contumace, il Tribunale, con sentenza n. 366/2019, rigettava la domanda principale, accogliendo invece la riconvenzionale e condannando l’attrice al pagamento, in favore della convenuta, della somma di € 573,744,40 oltre accessori. Il primo giudice valorizzava, in particolare, la circostanza che l’operato di RAGIONE_SOCIALE, che aveva operato in subappalto, fosse stato accettato mediante collaudo positivo dei lavori svolti dal R.T.I. RAGIONE_SOCIALE che a sua volta aveva affidato parte dei servizi in appalto a
RAGIONE_SOCIALE (oggi RAGIONE_SOCIALE, da parte del Ministero dell’Ambiente, committente.
Con la sentenza impugnata, n. 94/2020, la Corte di Appello di Trento rigettava il gravame interposto dall’odierna ricorrente avverso la decisione di prime cure, confermandola. La Corte distrettuale evidenziava che agli atti del giudizio di merito era stato prodotto, da parte dell’appellante un contratto scritto, denominato ‘contratto di servizi di consulenza specialistica’ mai firmato dal legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE in assenza della sottoscrizione, detto accordo non aveva alcun valore legale; inoltre, secondo la Corte territoriale, poiché l’offerta e l’ordine oggetto di causa utilizzavano entrambi il termine ‘acquisizione’ (e non ‘acquisto’) ciò voleva dire, trattandosi di società entrambi operanti nel settore informatico, che l’intento negoziale era quello, appunto, di estrapolare dati da mappe tematiche e banche dati soltanto per poter adempiere alla prestazione finale, e non anche quello di acquistare la proprietà di banche dati realizzate da terzi; tale acquisto, infine, sarebbe stato illogico, tenuto conto che, secondo le obbligazioni assunte da RAGIONE_SOCIALEoggi, RAGIONE_SOCIALE nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, la prima società avrebbe dovuto distruggere ogni dato entro 15 giorni dalla conclusione del rapporto contrattuale; non avrebbe quindi avuto senso, secondo la Corte di Appello, sostenere una spesa di € 352.602,76 per acquisire dati destinati alla distruzione. Infine, il teste COGNOME aveva riferito che RAGIONE_SOCIALE aveva realizzato la banca dati con le sue proprie forze, senza acquisire alcunché da terzi.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione RAGIONE_SOCIALE affidandosi a sette motivi.
Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE intimata, non ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
In prossimità dell’udienza pubblica, il P.G. ha depositato requisitoria scritta, insistendo per l’accoglimento del ricorso ed ambo le parti costituite hanno depositato memoria.
Sono comparsi all’udienza pubblica il P.G., nella persona del sostituto dott. ssa NOME COGNOME la quale ha insistito nelle proprie conclusioni , invocando l’ accoglimento del ricorso; l’avv. NOME COGNOME per parte ricorrente, il quale ha insistito per l’accoglimento del ricorso; e l’avv. NOME COGNOME in sostituzione dell’avv. NOME COGNOME per parte controricorrente, la quale ha chiesto il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 158 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la nullità o inesistenza della sentenza per vizio di costituzione del giudice, eccependo l’ illegittimità costituzionale degli artt. da 62 a 72 della legge n. 98 del 9.8.2013, di conversione, con modificazioni, del decreto legge n. 69 del 21.6.2013,in relazione agli artt. 102 e 106 Cost., perché la sentenza impugnata sarebbe stata redatta da un consigliere ausiliario.
La censura è infondata.
La questione di legittimità costituzionale sollevata dalla ricorrente è già stata scrutinata dalla Corte Costituzionale -a seguito delle ordinanze di remissione n. 32032 e n. 32033, entrambe del 9.12.2019, con la quale questa stessa Corte aveva dubitato della conformità degli artt. da 62 a 72 della legge n. 98 del 2013 al dettato costituzionale -la quale, con sentenza n. 41 del 25 gennaio 2021, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale degli articoli da 62 a 72 compresi della Legge n. 98 del 2013, ‘nella parte in cui non prevedono che essi si applichino fino a quando non verrà completato il riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria nei tempi stabiliti dall’art. 32 del decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116’ . La Corte Costituzionale, operando un misurato bilanciamento tra i diversi valori costituzionali, ed allo scopo di evitare pregiudizi irreparabili all’amministrazione della giustizia, ha ribadito, in motivazione, la legittimità della costituzione dei collegi delle Corti di Appello ai quali abbia partecipato non più di un giudice ausiliario. Dal che deriva da un lato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente, poiché esattamente coincidente con quella appena scrutinata dalla Corte Costituzionale con la già richiamata sentenza n. 41 del 2021, e, dall’altro lato, l’infondatezza della doglianza in esame, in quanto non si configura alcun vizio di costituzione del giudice.
Con il secondo motivo, la ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione degli artt. 1325, 1350, 1326 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso l’esistenza di un contratto prevedente l’obbligazione di RAGIONE_SOCIALE di acquistare e trasferire a RAGIONE_SOCIALE la proprietà di mappe tematiche e banche dati, ritenendo necessaria, per la sua conclusione, la forma scritta.
Con il terzo motivo, inoltre, la società ricorrente lamenta la violazione degli artt. 112 e 134 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello non si sarebbe pronunciata sulla doglianza con la quale l’odierna ricorrente aveva lamentato, in seconde cure, la mancata considerazione del fatto che il
contratto di cui alla precedente censura era stato concluso verbalmente dai rispettivi rappresentanti legali delle due società.
Le due censure, suscettibili di esame congiunto, sono infondate.
Con il secondo motivo di appello, il cui contenuto viene riportato a pag. 9 del ricorso, l’odierna ricorrente aveva contestato l’omessa pronuncia, da parte del Tribunale, sull’istanza di prova per testimoni, reiterata fino alla comparsa conclusionale, finalizzata a dimostrare l’intervenuta conclusione di un contratto verbale tra gli amministratori e legali rappresentanti delle due società. Secondo la prospettazione di RAGIONE_SOCIALE i predetti soggetti avrebbero concordato, a maggio 2015, la necessità di acquistare ulteriori mappe tematiche e banche dati, perché quelle pubbliche, sino ad allora utilizzate da RAGIONE_SOCIALE per svolgere la sua prestazione, non erano risultate sufficientemente aggiornate (cfr. pag. 5 del ricorso). L’o fferta integrativa del 9.6.2015 si giustificherebbe, quindi, con l’esigenza di coprire i maggiori costi derivanti dalla predetta esigenza.
La Corte di Appello ha ritenuto che il contratto scritto depositato agli atti del giudizio di merito, in quanto non sottoscritto da RAGIONE_SOCIALE fosse giuridicamente inesistente, ed ha considerato quindi superflua la prova orale, sul presupposto che le parti avessero prescelto una forma per il loro accordo, senza poi darvi seguito. La sentenza impugnata, inoltre, inferisce l’inesistenza del predetto accordo dalle seguenti considerazioni:
-sarebbe stato illogico, dal punto di vista di RAGIONE_SOCIALE, acquistare da terzi banche dati destinate, poi, ad essere distrutte, una volta terminato il rapporto contrattuale che detta società aveva concluso con Telecom Italia S.p.a., sulla base degli accordi con quest’ultima sottoscritti ;
-nel settore informatico, nel quale operano entrambe le società parti del presente giudizio, la parola ‘acquisire’ non è sinonimo di ‘acquistare’ , poiché la prima allude all’estrapolazione di dati da banche dati, mentre la seconda al conseguimento della proprietà di queste ultime;
-il teste COGNOME aveva escluso che RAGIONE_SOCIALE avesse acquistato dati da terzi.
Sulla base di tali elementi, il giudice di seconde cure è pervenuto alla conclusione che, con l’offerta del 9.6.2015, RAGIONE_SOCIALE si fosse obbligata soltanto ad acquisire dati per meglio realizzare la propria prestazione, nell’ambito del progetto denominato ‘MIAPI’ , e non anche (come sostiene la parte ricorrente) ad acquistare la proprietà di banche dati di terzi.
La ricostruzione prescelta dalla Corte territoriale trascura di considerare che il rapporto principale, corrente tra Ministero dell’Ambiente e R.T.I. RAGIONE_SOCIALE (la quale aveva affidato parte delle opere a RAGIONE_SOCIALE, che a sua volta le aveva subappaltate a RAGIONE_SOCIALE) era un contratto di appalto pubblico, che, in quanto tale, è asservito alla forma scritta ad substantiam . Tale requisite, s econdo l’insegnamento di questa Corte, si estende anche ai contratti derivati, che pertanto devono essere conclusi nel rispetto del medesimo requisite formale previsto per il contratto principale. Va data infatti continuità, sul punto, al principio secondo cui ‘ Nel caso di collegamento negoziale tra un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam (nella specie, un appalto pubblico) ed uno a forma libera (nella specie, un contratto di subappalto privatistico), deve ritenersi necessario che anche il secondo negozio rivesta la forma prescritta per la validità del primo, sebbene
non occorra che il requisito della forma scritta sia assicurato in un unico contesto, ben potendo la volontà negoziale esprimersi in diversi documenti o negozi, dovendo comunque assicurarsi che tutte le obbligazioni che formano il sinallagma siano documentate per iscritto ‘ (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 7323 del 19/03/2024, Rv. 670647; in senso conforme, relativamente al rapporto intercorrente tra compravendita immobiliare ed appalto, cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26693 del 24/11/2020, Rv. 659686).
Il principio appena richiamato implica che nella fattispecie l’esistenza di un contratto non avrebbe comunque potuto essere dimostrata mediante il ricorso alla prova orale, stante la necessità della prova scritta . Dal che deriva l’infondatezza delle censure in esame, sia pure con motivazione in parte difforme da quella contenuta nella sentenza impugnata.
Con il quarto motivo del ricorso, la società ricorrente denunzia altresì la violazione o falsa applicazione degli artt. 1324, 1362, 1363, 1366 e 1369 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente interpretato il contenuto degli accordi raggiunti tra le parti.
La censura è infondata, sulla scorta delle stesse considerazioni esposte in relazione allo scrutinio della seconda e terza doglianza; mancando infatti la prova dell’esistenza stessa del contratto asseritamente concluso tra le parti (che avrebbe, come detto, dovuto avere la forma scritta, trattandosi di subappalto collegato ad un contratto di appalto pubblico) non possono avere ingresso doglianze concernenti l’interpretazione del contenuto di accordi che, comunque, proprio in quanto privi del richiesto requisito formale, sono nulli.
Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 1477 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte territoriale avrebbe dovuto ravvisare l’inadempimento di RAGIONE_SOCIALE per non aver consegnato all’acquirente i titoli e documenti relativi alla proprietà e all’uso della cosa venduta.
La doglianza è inammissibile, poiché con essa si introduce una questione che non è stata affrontata dalla sentenza impugnata. Quest’ultima, infatti, non contiene alcun riferimento al profilo della mancata consegna dei titoli e documenti concernenti la proprietà della cosa, e la parte ricorrente non indica in quale momento del giudizio di merito, e con quale strumento processuale, essa sarebbe stata prospettata , onde l’argomento va ritenuto nuovo, perché formulato per la prima volta in sede di legittimità. Inoltre, nella specie si controverte di un contratto di prestazione di servizi, e non di una vendita, onde la disposizione neppure sarebbe applicabile al caso specifico.
Con il sesto motivo, RAGIONE_SOCIALE contesta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1656 e 1362 e ss. c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché il giudice di seconde cure avrebbe erroneamente ravvisato l’adempimento di RAGIONE_SOCIALE alle sue obbligazioni, valorizzando la circostanza che la stazione committente, Ministero dell’Ambiente, aveva positivamente collaudato la prestazione fornita dalla R.T.RAGIONE_SOCIALE. RAGIONE_SOCIALE Ad avviso della parte ricorrente, poiché tale atto è intercorso tra soggetti diversi dalle parti del presente giudizio, da esso non sarebbe possibile ricavare la prova dell’esatto adempimento d ei servizi forniti da RAGIONE_SOCIALE
La censura è infondata.
La Corte distrettuale ha ritenuto che il collaudo positivo delle opere dimostrasse che le stesse -nell’ambito delle quali erano anche comprese le prestazioni svolte da RAGIONE_SOCIALE in regime di subappalto -erano state regolarmente svolte, poichè nessuna osservazione sulla loro effettiva esecuzione e sulla loro congruità era stata sollevata dalla stazione appaltante. Trattasi di motivazione non implausibile, fondata su un ragionamento logico -deduttivo che appare coerente con i dati emergenti dall’istruttoria , non viziata da apparenza, né manifestamente illogica, idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico -argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830, nonché, in motivazione, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639).
Infine, con il settimo ed ultimo motivo la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente condannato l’odierna ricorrente anche al pagamento di € 10.000 per aver prodotto in modo irrituale un documento.
La censura è infondata, in quanto la Corte distrettuale ha ravvisato la responsabilità ex art. 96 c.p.c. perché l’odierna ricorrente aveva prodotto in modo ‘assolutamente irregolare un documento non firmato posto temerariamente a base dell’intero giudizio’ (cfr. pagina della sentenza impugnata). La ratio della condanna in esame, dunque, non risiede soltanto nell’irritualità della produzione del documento, ma anche nella temerarietà della lite, ravvisata dal giudice di merito. Sul punto, va data continuità al più che consolidato principio secondo cui l’accertamento della sussistenza della mala fede o colpa grave di una delle parti che abbia agito o resistito in giudizio in modo temerario
involge un’indagine di fatto i cui risultati sono sottratti al sindacato di legittimità, se non inficiati da errori di diritto o vizi logici e sorretti da adeguata motivazione (cfr. Cas. Sez. 3, Sentenza n. 3950 del 11/12/1968, Rv. 337492; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1808 del 06/10/1970, Rv. 347787). Negli stessi termini, più di recente, è stata enfatizzata la finalità dell’istituto alla salvaguardia di ‘… finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della potestas agendi con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell’infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza), venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazio ne’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 22405 del 13/09/2018, Rv. 650452; conf. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 4430 del 11/02/2022, Rv. 663925; Cass. Sez. U, Ordinanza n. 32001 del 28/10/2022, Rv. 666062 e Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 36591 del 30/12/2023, Rv. 669749).
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di quella controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 12.200, di cui € 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda