Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 34466 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 34466 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5918/2023 R.G. proposto da:
NOME COGNOME elettivamente domiciliato in BENEVENTO INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
NOME COGNOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in COGNOME INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che li rappresenta e difende
-controricorrenti-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO NAPOLI n. 41/2023 depositata il 10/01/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10/12/2024 dal Consigliere dr. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Benevento accolse la domanda di NOME COGNOME proposta nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME condannando questi ultimi a demolire la recinzione, nonché un cancello, edificati nell’area della preesistente via vicinale, tra la particella 289 e la particella 342 del foglio di mappa numero 10, del catasto del Comune di San Leucio del Sannio, con condanna alle spese di lite in favore dell’attore, oltre alle spese di c.t.u.
La Corte di Appello di Napoli, con sentenza n. 41 del 10 gennaio 2023 accoglieva il gravame del COGNOME e della COGNOME rigettando le originarie domande attrici.
Il giudice di secondo grado rilevava che il COGNOME aveva apposto una recinzione sulla strada agraria, riappropriandosi dell’area a suo tempo conferita ex collatione privatorum agrorum e che le controparti successivamente avevano fatto altrettanto. Secondo la Corte di merito, trattandosi di un modo di acquisto della proprietà a titolo originario in virtù del fatto storico della realizzazione della strada, il venir meno di quest’ultima, per fatto di entrambi i proprietari latistanti, aveva comportato il venir meno dello scopo e dell’utilità della communio incidens e di conseguenza il venir meno della medesima, onde ciascuno dei proprietari confinanti aveva riacquistato l’esclusiva proprietà dell’area a suo tempo conferita in comunione. E, data la costruzione in aderenza alla recinzione del muro, la mera rimozione di quest’ultimo neppure avrebbe consentito il ripristino della strada senza la demolizione anche della recinzione del Maio.
Contro la predetta sentenza ricorre per cassazione NOME COGNOME sulla scorta di quattro motivi.
Hanno proposto tempestivo controricorso NOME COGNOME e NOME COGNOME.
A seguito della proposta ex art. 380 bis c.p.c., il ricorrente, con istanza sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale, ha chiesto la
decisione della causa, che è stata portata alla discussione della camera di consiglio, nel corso dell’odierna udienza.
Entrambe le parti hanno depositato memoria nei termini di legge.
RAGIONI DI DIRITTO
Preliminarmente, osserva il Collegio che non sussiste alcuna incompatibilità del presidente della sezione o del consigliere delegato, che abbia formulato la proposta di definizione accelerata, a far parte, ed eventualmente essere nominato relatore, del collegio che definisce il giudizio ai sensi dell’art. 380 -bis. c.p.c., atteso che la proposta non ha funzione decisoria e non è suscettibile di assumere valore di pronuncia definitiva, né la decisione in camera di consiglio conseguente alla richiesta del ricorrente si configura quale fase distinta del giudizio di cassazione, con carattere di autonomia e contenuti e finalità di riesame e di controllo sulla proposta stessa (cfr. Sezioni Unite, sentenza n. 9611 del 10 aprile 2024).
Attraverso la prima censura, il ricorrente deduce la v iolazione dell’art 360 c.1, n 5, cpc, in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c.
Si sostiene che l a Corte d’appello sarebbe incorsa in un palese errore, non avendo correttamente esaminato e valutato tutti i titoli di trasferimento delle proprietà versati in atti dall’odierno ricorrente sin dal primo grado, con conseguente nullità della decisione impugnata. Infatti, la strada non sarebbe stata mai eliminata in nessun atto di trasferimento della proprietà, anzi sarebbe stata addirittura ampliata nel primo tratto ad opera dei danti causa dei coniugi COGNOME–COGNOME e nel tratto antistante la proprietà COGNOME Per converso, l’attività posta in essere dalle controparti sarebbe stata preordinata proprio alla eliminazione della strada in contrasto con i titoli istitutivi della via vicinale e mai modificati, ivi compreso il loro titolo di acquisto della proprietà.
Con il secondo mezzo, il COGNOME si duole della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. in riferimento alla CTU : il consulente officiato aveva accertato che la strada non era più esistente, non a causa della occupazione di parte della medesima operata dal COGNOME, bensì in conseguenza della occupazione della medesima operata dei coniugi COGNOME
COGNOME con l’apposizione del cancello, del muro e della soprastante recinzione : tali circostanze erano però state interpretate in modo erroneo dal giudice di secondo grado.
Il terzo motivo allega la violazione e falsa applicazione degli art. 112 e 113 c.p.c., nonché del l’art. 1362 e ss. c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c .p.c.
La ricostruzione del fatto operata dalla Corte d’Appello non sarebbe stata coerente con il risultato delle CTU. Infatti, il Maio non avrebbe mai modificato lo stato dei luoghi, giacché la recinzione sarebbe stata realizzata dai suoi danti causa al solo scopo di delimitare la porzione di strada dal terreno coltivato e non per eliminare la via vicinale, laddove le controparti , dopo l’acquisto della proprietà avrebbero proditoriamente occupato la parte di strada che ricadeva nella loro proprietà con un muro e con la soprastante rete metallica allo scopo evidente di eliminare la porzione di strada originariamente conferita dal loro danti causa e no n permettere al Maio l’uso della stessa.
I primi tre motivi -che possono essere scrutinati congiuntamente per la loro evidente connessione -sono infondati.
Con riguardo al tracciato oggetto di contestazione, la Corte d’appello ha affermato: ‘ Nel caso di specie è pacifico che entrambe le parti hanno costruito sulla porzione del suolo indivisa; come emerge dagli allegati fotografici, il muro è stato edificato in aderenza alla recinzione e, come rilevato dalle diverse consulenze d’ufficio, esattamente sul confine tra le due proprietà, come se si fosse provveduto a una divisione di fatto della comunione, perpetrata prima da COGNOME e poi dagli appellanti, laddove di fatto la strada vicinale non esiste più. Si crea dunque una apparente discrepanza tra la situazione di fatto, così come accertata in corso di causa dai diversi tecnici nominati, in cui non c’è più la strada e ciascuno ha delimitato, con delle opere, la proprietà sul confine, che una volta era costituito dalla suddetta strada, e la situazione di diritto, in base alla quale ci sarebbe una strada vicinale di circa due metri in comunione tra le parti in mezzo alle due proprietà .’ …’ Non è contestato, e comunque risulta accertato, che la strada non esiste più e, come ammesso da parte appellata, da molti anni COGNOME ha apposto una recinzione sulla strada agraria, modificandone la
conformazione e così determinando il venir meno dello scopo del conferimento del sedime; e si è impossessato di una parte del percorso stradale fino al confine catastale della sua proprietà: in altri termini si è riappropriato dell’area a suo tempo conferita e gli appellanti, successivamente, hanno fatto lo stesso ‘ .
L’accertamento in punto di fatto da parte della sentenza impugnata è preciso, analitico e plausibile e le doglianze si risolvono in una critica alla ricostruzione dei fatti da parte dei giudici di merito, che nel giudizio di legittimità non è ammessa.
D’altronde, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre -come detto – è inammissibile la diversa censura che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Sez. U., n. 20867 del 30 settembre 2020).
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 116 cpc, la deduzione è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Sez. U, n. 20867 del 30 settembre 2020; Sez. 5, n. 16016 del 9 giugno 2021).
E’ inoltre opportuno ricordare che la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione, sicché rimane estranea al presente giudizio qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116, commi 1 e 2, c.p.c., in esito all’esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito.
Per il resto, va ribadito che l’esame dei documenti esibiti e la valutazione degli stessi, come anche il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 1, n. 19011 del 31 luglio 2017; Sez. 1, n. 16056 del 2 agosto 2016).
In altri termini, la differente lettura delle risultanze istruttorie proposta dal ricorrente non tiene conto del principio per il quale la doglianza non può tradursi in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Sez. U, n. 24148 del 25 ottobre 2013).
Più in particolare, occorre considerare che il travisamento della prova, per essere censurabile in Cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c., postula: a) che l’errore del giudice di merito cada non sulla valutazione della prova (” demonstrandum “), ma sulla ricognizione del
contenuto oggettivo della medesima (” demonstratum “), con conseguente, assoluta impossibilità logica di ricavare, dagli elementi acquisiti al giudizio, i contenuti informativi che da essi il giudice di merito ha ritenuto di poter trarre; b) che tale contenuto abbia formato oggetto di discussione nel giudizio; c) che l’errore sia decisivo, in quanto la motivazione sarebbe stata necessariamente diversa se fosse stata correttamente fondata sui contenuti informativi che risultano oggettivamente dal materiale probatorio e che sono inequivocabilmente difformi da quelli erroneamente desunti dal giudice di merito; d) che il giudizio sulla diversità della decisione sia espresso non già in termini di possibilità, ma di assoluta certezza (Sez. 1, n. 9507 del 6 aprile 2023).
Quanto, infine, al rilievo che il giudice di secondo grado non avrebbe tenuto conto delle considerazioni del CTU, basterà osservare che il ricorrente ha omesso di riportare i passi salienti dell’elaborato peritale, asseritamente in contr asto con le affermazioni della Corte d’appello, rendendo cos ì del tutto priva di autosufficienza la censura sul punto.
La quarta doglianza s’impernia sulla v iolazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., in elazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti. La Corte d’Appello -si sostiene – non avrebbe esaminato correttamente le rispettive richieste delle parti sia in primo che in secondo grado, considerato che dagli atti di causa sarebbe emersa in modo inequivocabile la circostanza che il Maio aveva occupato parte della strada vicinale con la recinzione senza che ciò fosse stato mai oggetto di lamentela da parte di tutti i precedenti danti causa dei coniugi COGNOME né dei coniugi medesimi.
Tale motivo risulta infondato.
L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle
previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Sez. U., n. 8053 del 7 aprile 2014; Sez. 2, n. 27415 del 29 ottobre 2018).
Nella specie, il ricorrente invoca il mancato esame delle ‘rispettive richieste delle parti sia in primo che in secondo grado’ e non un particolare fatto storico. In realtà, anche in tal caso, il richiamo agli artt. 115 e 116 c.p.c. è emblematico della volontà inespressa di ottenere una nuova valutazione del materiale probatorio.
Al rigetto del ricorso segue inevitabilmente la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore dei controricorrenti con distrazione a favore del difensore antistatario, che ne ha fatto richiesta.
Al rigetto del ricorso, conforme alla proposta di definizione anticipata, consegue altresì, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ. – vigente l’ art. 96, co. 3 e 4, cod. proc. civ. – la condanna del ricorrente al pagamento in favore della controparte e della cassa delle ammende, delle somme, stimate congrue, di cui in dispositivo (cfr. S.U. n. 27195 del 22 settembre 2023).
La Corte da atto che ricorrono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 per il raddoppio del versamento del contributo unificato, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000,00 (tremila) per compensi, oltre alle
spese forfettarie nella misura del 15 %, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge, con distrazione a favore del difensore antistatario.
Condanna, altresì, il ricorrente al pagamento dell’ulteriore somma di € 3.000,00 (tremila) in favore dei controricorrenti, ai sensi dell’art. 96, co. 3, cod. proc. civ. , nonché della somma di € 2.000,00 (duemila) , ai sensi dell’art. 96, co. 4, cod. proc. civ., in favore della cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 dicembre 2024.