Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 17050 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 17050 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 25/06/2025
La Corte di Appello di Bologna ha rigettato l’appello proposto da NOME COGNOME avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva respinto le sue domande, volte ad ottenere l’accertamento del suo diritto a partecipare alla procedura di stabiliz zazione prevista dall’art. 20, comma 1, d.lgs. n. 75/2017 bandita dal Consiglio per la ricerca in agricoltura (di seguito C.R.E.A. ) e l’analisi dell’economia agraria con l’Avviso n. 1 -2018 ‘Stabilizzazione C1’ del 1° giugno 2018, per il profilo di Collaboratore tecnico.
La COGNOME aveva beneficiato dell’assunzione a tempo indeterminato all’esito di tale procedura, con inquadramento nel profilo di Operatore tecnico ed aveva lamentato l’illegittimità della clausola del bando secondo cui non sarebbe stata valutata l’eventuale in dicazione della categoria professionale di stabilizzazione nella domanda di partecipazione da parte del candidato; aveva lamentato che tale clausola consentiva all’Amministrazione di decidere discrezionalmente per quali posizioni il candidato potesse concorrere.
La Corte territoriale ha considerato la suddetta procedura priva di discrezionalità, in quanto caratterizzata dall’assenza di valutazione di titoli, dall’assenza di prove selettive e della conseguente attribuzione di punteggi.
Ha inoltre evidenziato che il bando aveva previsto i ‘Criteri e formazione degli elenchi degli ammessi alla stabilizzazione’ e le ‘Esclusioni dall’applicazione dell’art. 20 d.lgs. n. 75/2017’ e che tali criteri, predeterminati e conformi alle previsioni del legislatore nazionale, erano stati seguiti alla lettera nell’individuazione dei profili nei quali stabilizzare i precari.
A vendo rilevato che la COGNOME nell’arco temporale dal 1.1.2010 al 31.12.2017 aveva stipulato 9 contratti di lavoro a tempo determinato con mansioni di Operatore Tecnico per 1143 giorni ed un solo contratto a tempo determinato per il profilo di Collaboratore tecnico di soli 11 giorni, ha ritenuto che la stipula di quest’ultimo contratto fosse insufficiente ai fini della maturazione dei requisiti per la stabilizzazione, con riferimento al criterio del formale inquadramento contrattuale, conforme alla previsione legislativa e alla sua ratio .
Ha evidenziato che alla Commissione esaminatrice erano precluse le valutazioni discrezionali ed ha poi rilevato che l’Amministrazione aveva contestato lo svolgimento di mansioni superiori di Collaboratore Tecnico, da parte della COGNOME, anche nel giudizio pendente innanzi al Tribunale di Bologna e proposto dalla COGNOME per il riconoscimento di mansioni superiori.
Ha comunque escluso che lo svolgimento di mansioni superiori potesse essere rivendicato nel presente giudizio, che avendo ad oggetto l’accertamento del diritto della COGNOME a partecipare alla procedura di stabilizzazione per il profilo di Collaboratore Tecnico, poteva fare riferimento solo a circostanze oggettive (ed in particolare alla stipula di contratti a tempo determinato).
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi, illustrati da memoria.
RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
DIRITTO
Con il primo motivo il ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 20 d.lgs. n. 75/2017, nonché delle Circolari del Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione n. 3 del 23.11.2017 e n. 1 del 9.1.2018.
Evidenzia che con l’Avviso l’Amministrazione aveva discrezionalmente deciso le posizioni per le quali il candidato poteva concorrere (1095 giorni con contratto a tempo determinato).
Sostiene che ai fini dell’applicazione dell’art. 20 d.lgs. n. 75/2017 è sufficiente una sola giornata di lavoro a tempo determinato e con contratti flessibili relativi al profilo professionale secondo le medesime attività svolte.
Argomenta che secondo la giurisprudenza costituzionale, la ragione giustificatrice della deroga alle forme normali di reclutamento mediante concorso pubblico risponde all’esigenza di consolidare specifiche esperienze professionali maturate all’interno dell’Amministrazione; evidenzia che le Circolari del Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione n. 3 del 23.11.2017 e n. 1 del 9.1.2018 avevano valorizzato le attività concretamente svolte e la loro riconducibilità alla medesima area o categoria professionale.
Richiama la documentazione prodotta, evidenziando che dalla medesima risulta che era inquadrata come ‘Analista Chimico’ e che aveva svolto mansioni di Collaboratore Tecnico.
Aggiunge che la Commissione aveva a disposizione gli strumenti per verificare le attività svolte dai dipendenti.
Con il secondo motivo il ricorso denuncia violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., degli artt.2222 e 2094 cod. civ., dell’art. 67, comma 1 lett. M) del TUIR, dell’art. 35, comma 5, del d.l. n. 207/2008, dell’interpello n. 22/2010 del Ministero del Lavoro, della Circolare 1.12.2016 dell’Ispettorat o Nazionale del Lavoro, della Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 21.2.2014 n. 37, della Circolare Agenzia Entrate n. 21/E del 22.4.2003, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto contestato lo svolgimento, da parte della COGNOME, di mansioni ascrivibili al profilo di Collaboratore Tecnico.
Sostiene che lo svolgimento di mansioni superiori da parte della COGNOME era pacifico, non avendo l’Amministrazione sollevato alcuna specifica contestazione; richiama la memoria di costituzione dell’Amministrazione.
Insiste nel richiamare la documentazione prodotta, evidenziando che la medesima attesta lo svolgimento, da parte della COGNOME, delle mansioni di Collaboratore Tecnico.
Aggiunge che all’udienza del 11.3.2021 era stata depositata in giudizio la sentenza del Tribunale di Bologna che aveva accertato lo svolgimento di mansioni superiori da parte della COGNOME.
I motivi, che vanno trattati congiuntamente per la loro connessione logica, sono inammissibili.
Le censure non assolvono agli oneri previsti dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ., in quanto non riportano in modo completo le Circolari e non sintetizzano né localizzano la sentenza del Tribunale di Bologna che avrebbe accertato lo svolgimento di mansioni superiori da parte della COGNOME.
Inoltre le censure, nel prospettare la rilettura della documentazione prodotta e nel denunciare la violazione del principio di non contestazione, sollecitano un giudizio di merito.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio o di omessa pronuncia miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (vedi, per tutte: Cass. S.U. 27 dicembre 2019, n. 34476 e Cass. 14 aprile 2017, n. 8758).
Deve rammentarsi che spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte» (Cass. n. 3680/2019 e negli stessi termini Cass. n. 27490/2019).
La violazione di Circolari ministeriali non costituisce motivo di ricorso per cassazione sotto il profilo della violazione di legge, atteso che le medesime costituiscono meri atti amministrativi non provvedimentali che non contengono norme di diritto, ma disposizioni di indirizzo uniforme interno all’Amministrazione da cui promanano (v. Cass. n. 16644/2015; Cass. n. 19697/2018 e Cass. n. 23524/2024).
Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art.13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, dell’obbligo, per parte ricorrente, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per esborsi ed in € 2.200,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali nella misura del 15% e accessori di legge;
dà atto della sussistenza dell’obbligo per parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della