Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 12775 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 12775 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 13/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13796/2023 R.G. proposto da
NOME COGNOME, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato presso il loro studio in Olevano Romano (RM), INDIRIZZO nonché presso il domicilio digitale
-ricorrente – contro
NOME
– intimati
–
Avverso la sentenza n. 3091/2023, resa dalla Corte d’ Appello di Roma, depositata in data 03/05/2023 e notificata il 05/05/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’8 maggio 2025 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
1. Con ricorso depositato il 6/3/2012, NOME adì il Tribunale di Tivoli onde ottenere la reintegra del possesso di una cantina in Cave, INDIRIZZO della quale era divenuto proprietario a seguito di decreto di trasferimento del Tribunale di Roma n. 174/10 e nel cui possesso era stato immesso dall’ufficiale giudiziario in data 8.3.2011, lamentando che COGNOME NOME, quale autore materiale, e NOME COGNOME quale autore morale, avevano rimosso e sostituito il lucchetto apposto dall’ufficiale giudiziario, come constatato nel settembre 2011, impedendogli l’uso del bene.
Il Tribunale dispose l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’autore morale.
Costituitisi in giudizio, COGNOME NOME e NOME COGNOME si difesero affermando di non avere voluto spogliare nessuno del possesso del bene, posto che il primo era stato autorizzato dal secondo in qualità di proprietario, mentre il secondo, che confermò di avere autorizzato il primo, non sapeva dell’impossessamento da parte del ricorrente.
L’interdetto possessorio fu negato sia in prima, che in seconda istanza, in ragione del difetto dell’ animus spoliandi .
All’esito della prosecuzione nel merito, il Tribunale di Tivoli rigettò la domanda con sentenza n. 1238/2018 del 05/09/2018, con compensazione delle spese.
Il giudizio di gravame, instaurato da NOME NOME si concluse, nella resistenza del solo NOME COGNOME, con la sentenza n. 3091/2023 del 3 maggio 2023, con la quale la Corte d’Appello di Roma, in totale riforma della sentenza impugnata, condannò NOME COGNOME e NOME COGNOME al rilascio della cantina in favore di NOME COGNOME previa rimozione del lucchetto apposto, nonché al rimborso integrale delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio.
Per quel che rileva in questa sede, la Corte d’appello ritenne che il Romano non vantasse alcun titolo idoneo a legittimare il possesso della cantina e ritenne, pertanto, connotato quanto meno da colpa lo spoglio perpetrato materialmente dal Maggi e moralmente dal Romano, data la superficialità con la quale essi avevano agito nel distruggere e sostituire il lucchetto preesistente (impiantato dal Romano in qualità di asserito possessore del bene), senza avvedersi del fatto che si trattava di un lucchetto diverso.
Avverso la suddetta sentenza, NOME COGNOME propone ricorso per cassazione affidato a due motivi. NOME e COGNOME NOME rimangono intimati.
Il consigliere delegato ha formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., ritualmente comunicata alle parti.
In seguito a tale comunicazione, il ricorrente, a mezzo del difensore munito di nuova procura speciale, ha chiesto la decisione del ricorso.
Fissata l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ., il ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che :
Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1168 e 2697 cod. civ. e degli artt. 116, 132, secondo comma, n. 4), e 156, secondo comma, cod. proc. civ., nonché dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ..
Con il secondo motivo, si lamenta l’invalidità della sentenza ex art. 132 cod. proc. civ. per manifesta illogicità della motivazione, in relazione al fatto discusso e decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 4 -5, cod. proc. civ..
Ad avviso del ricorrente, i giudici di merito, che avrebbero dovuto verificare la sussistenza dei due elementi, oggettivo e soggettivo, dello spoglio, avevano ritenuto sussistente l’atteggiamento colposo dei resistenti, proponendo una motivazione illogica perché fondata sull’intervenuta sostituzione del lucchetto, senza la previa verifica della ragione effettiva per la quale la chiave dello stesso non funzionava. I giudici non avevano considerato, infatti, che il ricorrente non aveva dimostrato la consapevolezza dello spoglio in capo ai resistenti, ossia che questi sapessero della sua immissione nel possesso del bene ad opera dell’ufficiale giudiziario e che intendessero sostituirsi a lui nel godimento del bene, né la conoscenza, in capo ai medesimi resistenti, dell’avvenuta sostituzione del lucchetto.
La motivazione era, dunque, affetta da illogicità, rientrando il comportamento tenuto dai due autori nella comune esperienza, posto che gli stessi, in possesso della chiave, potevano avere pensato che la serratura si fosse guastata o che ignoti l’avessero alterata o forzata.
3.1 I due motivi, già resi difettosi dalla commistione tra critiche motivazionali e vizi di violazione di legge, neppure descritti autonomamente se non nella rubrica, sono infondati.
E’, innanzitutto, inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni
concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 cod. proc. civ., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass., Sez. 1, 23/10/2018, n. 26874). 3.2 Ciò premesso e venendo al secondo motivo, da trattare per primo per motivi di priorità logica, va rilevato che, dopo la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost., individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, e dunque di totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di
discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. 5, 6/5/2020, n. 8487; Cass., Sez. 6 – 3, 08/10/2014, n. 21257; Cass., Sez. 6 – 3, 20/11/2015, n. 23828; Cass., Sez. 2, 13/08/2018, n. 20721; Cass., Sez . 3, 12/10/2017, n. 23940).
Nella specie, i giudici di merito hanno adeguatamente motivato sulle ragioni per le quali hanno ritenuto di accogliere il gravame, evidenziando che il COGNOME non vantava alcun titolo idoneo a legittimare il possesso della cantina, pur se esercitato in via di fatto prima dell’immissione in possesso del ricorrente nel 2011, quale nuovo proprietario, da parte dell’ufficiale giudiziario; che era pacifica la diversità del lucchetto apposto dal COGNOME nel 2011 in sede di immissione nel possesso; che la colpa andava ricercata nella consapevolezza, in capo al Romano, di non vantare alcun diritto sul locale e, conseguentemente, nel fatto che egli avrebbe dovuto astenersi dall’autorizzare il COGNOME a distruggere il lucchetto una volta appreso il mancato funzionamento della chiave da lui stesso consegnata, oltre a dover verificare la ragione effettiva di tale mancato funzionamento; che questi aveva citato in giudizio il COGNOME vantando una pretesa usucapione della proprietà della cantina.
Di qui l’infondatezza della censura.
3.3 Il primo motivo è parimenti infondato.
Si premette che lo spoglio costituisce atto illecito che lede il diritto del possessore alla conservazione della disponibilità della cosa e obbliga chi lo commette al risarcimento del danno, sicché la relativa condotta materiale deve essere sorretta da dolo o colpa, la cui prova incombe, secondo i principi generali in tema di ripartizione dell’onere probatorio, su chi propone la domanda di reintegrazione (Cass., Sez. 2, 31/8/2018, n. 21475), costituendo l’accertamento della sussistenza dell’elemento soggettivo un
apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione logica e sufficiente (Cass., Sez. 2, 22/2/2011, n. 4279; Cass., Sez. 2, 20/8/2002, n. 12258).
Il ricorrente pretende, invece, con la censura di ottenere un nuovo pronunciamento sul compendio probatorio acquisito, senza avvedersi che la valutazione delle prove raccolte costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili con il ricorso per cassazione (Cass., Sez. 1, 3/7/2023, n. 18857; Cass. 19/07/2021, n. 20553; Cass. 29/10/2018, n. 27415).
Né il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito può dar luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 n. 4, cod. proc. civ., -dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass., Sez. 1, 26/9/2018, n. 23153; Cass., Sez. 3, 10/6/2016, n. 11892), sia perché la contestazione della persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie attiene alla sufficienza della motivazione, non più censurabile secondo il nuovo parametro di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., sia perché con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, contrapponendovi le proprie, la valutazione delle risultanze
processuali e la ricostruzione della fattispecie concreta operate dai giudici del merito, trattandosi di accertamento di fatto, precluso in sede di legittimità ( ex plurimis Cass., Sez. 1, 6/11/2023, n. 30844; Cass., Sez. 5, 15/5/2018, n. 11863, Cass., Sez. 6-5, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. 1, 2/8/2016, n. 16056).
Consegue da quanto detto l’infondatezza della censura.
In conclusione, dichiarata l’infondatezza della censura, il ricorso deve essere rigettato. Nulla deve disporsi in ordine alle spese del giudizio, non avendo gli intimati spiegato difesa.
Poiché il ricorso è deciso in conformità alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022), vanno applicati -come previsto dal terzo comma, ultima parte, dello stesso art. 380bis cod. proc. civ. -il terzo e il quarto comma dell’art. 96 cod. proc. civ., da interpretarsi alla stregua del principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con l’ordinanza n. 27195 del 22/09/2023, secondo cui la condanna del ricorrente al pagamento della somma di cui all’art. 96, quarto comma, cod. proc. civ. in favore della cassa delle ammende deve essere pronunciata anche qualora nessuno dei soggetti intimati abbia svolto attività difensiva, avendo essa una funzione deterrente e, allo stesso tempo, sanzionatoria rispetto al compimento di atti processuali meramente defatigatori.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente, ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., al pagamento della somma di euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende;
dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 08/05/2025.