Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 830 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 830 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 13/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 29874/2021 r.g. proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
NOME COGNOME elettivamente domiciliato in RAGIONE_SOCIALE INDIRIZZO domicilio digitale, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende.
-controricorrente-
avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce, depositata in data 4.5.2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/12/2024 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con provvedimento del 17 febbraio 2014 il g.d. nominava, quale coadiutore economico aziendale nella procedura di fallimento dell’Istituto di Vigilanza RAGIONE_SOCIALE di Latorre Caterina, il dott. NOME COGNOME, procedura aperta presso il Tribunale di Brindisi.
La predetta dichiarazione di fallimento veniva tuttavia revocata dalla Corte di appello di Lecce con sentenza del 6 marzo 2014.
A seguito dell ‘ istanza presentata dal dott. NOME COGNOME il predetto G.d., con due distinti provvedimenti del 28 aprile 2014, liquidava in favore dell’istante, per la redazione del piano industriale, la somma di euro 8.500, ponendola ‘carico delle sostanze presenti s ul conto corrente intestato al fallimento e vincolato all’ordine del giudice’, nonché, per la predisposizione del bando per la cessione dell’azienda, la somma di euro 8.000, onerando l’interessato di azionare tale credito ‘nelle forme ord inarie (Cass. 10099/2008)’.
Con sentenza del 16-21 gennaio 2015, il Tribunale di Brindisi dichiarava nuovamente il fallimento dell’Istituto di vigilanza RAGIONE_SOCIALE di Latorre Caterina.
Successivamente alla nuova dichiarazione di fallimento, e più precisamente con atto di citazione notificato in data 21 marzo 2017, il dott. NOME conveniva in giudizio il Ministero della Giustizia – e preliminarmente rappresentando di essere stato ammesso al passivo della predetta procedura fallimentare n. 1/2015, con riferimento all’importo di euro 8.500 – chiedeva al Tribunale di Lecce di condannare, ex art. 147 d.P.R. n. 115/2002, l’anzidetto Ministero al pagamento in suo favore dell’ulteriore importo di euro 8.000, in precedenza liquidato dal g.d.
Il Tribunale di Lecce -nella resistenza del Ministero della Giustizia, che contestava l’applicabilità al caso di specie della normativa di cui al sopra ricordato art. 147, in ragione della nuova dichiarazione di fallimento dell’Istituto di Vigilanza accoglieva la domanda attrice e con sentenza n. 3742/2018 del 9 novembre 2018 condannava la predetta amministrazione al
pagamento in favore del dott. NOME della somma richiesta. A fondamento di tale statuizione il giudice di prime cure poneva tanto la mancata impugnazione del provvedimento di liquidazione di euro 8.000 del 28 aprile 2014 quanto l’ordinanza 5 gennaio 2016, con la quale il Tribunale di Brindisi, nell’ambito della nuova procedura fallimentare, aveva escluso la possibilità di insinuazione al passivo dei crediti liquidati in favore dei professionisti nominati nella precedente procedura, ma posti a carico dell’Era rio.
Avverso la predetta pronuncia proponeva appello il Ministero della Giustizia, chiedendone la riforma, in considerazione, da un lato, della erroneità della motivazione (in quanto il provvedimento del 28 aprile 2014 non sarebbe stato opponibile al Ministero, che peraltro non avrebbe potuto neanche impugnarlo, e perché l’ordinanza del 5 gennaio 2016 confermava, più che smentire, la sua tesi, ammettendo in via generale, la possibilità per il coadiutore di far valere il proprio credito nell’ambito della nuova procedura fallimentare) e, dall’altro, della carenza dei presupposti richiesti per l’applicazione dell’art. 147 d.P.R. n. 115/2002.
Con la sentenza sopra indicata in epigrafe n. 541/2021, pubblicata il 4 maggio 2021, la Corte di appello di Lecce, nella resistenza del Dott. NOME COGNOMEche eccepiva l’inammissibilità dell’appello ai sensi degli artt. 342 e 348bis c.p.c.), pur ritenendo ammissibile l’impugnazione e pur integrando le argomentazioni del giudice di prima istanza, respingeva il gravame. A sostegno della predetta decisione, il Collegio salentino negava l’applicabilità al caso di specie dell’art. 147 d.P.R. n. 115/2002 per effetto della nuova dichiarazione di fallimento dell’Istituto di Vigilanza, in quanto la stessa non avrebbe configurato una riapertura della procedura fallimentare in senso tecnico ai sensi dell’art. 121 l. fall.
La sentenza, pubblicata il 4.5.2021, è stata impugnata dal Ministero della Giustizia con ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, cui il dott. NOME COGNOME ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il Ministero ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art.
147 d.P.R. n. 115/2002 e degli artt. 111 e 121 l. fall., sul rilievo che, per un verso, la Corte di appello avrebbe errato nell’interrogarsi se rico rressero o meno i presupposti di cui all’art. 121 l. fall. (in quanto l’applicazione giurisprudenziale dell’art. 147 l. fall. nei confronti dell’erario persegue il fine ultimo di garantire la presenza di un soggetto che possa remunerare il curatore ovvero il suo a usiliario) e perché, per altro, se davvero l’applicazione del detto art. 147 all ‘Erario potesse essere esclusa solamente in presenza della riapertura del fallimento in senso tecnico, allora si sarebbe finito per applicare in ogni caso l’art. 147 sopra citato, presupponendo la riapertura ex art. 121 l. fall. la ‘chiusura’ della precedente procedura fallimentare che rappresenta un istituto ben diverso dalla sua ‘revoca’. Sostiene, inoltre, il Ministero ricorrent e che la responsabilità dell’erario avrebbe una chiara portata e funzione residuale, di talchè sarebbe irragionevole evocarla anche in presenza di altri soggetti nei cui confronti il creditore potrebbe rivolgere la propria legittima pretesa.
1.1 Secondo il ricorrente, infatti, la nuova dichiarazione di fallimento, a prescindere dalla sua riconducibilità o meno alla riapertura in senso tecnico di cui all’art. 121 l. fall. (che rappresenterebbe invero circostanza irrilevante) farebbe venir meno i presupposti della responsabilità erariale di cui all’art. 147 l. fall., e ciò per la semplice ragione che non vi sarebbe motivo per discostarsi dalla regola di cui all’art. 111 l. fall., secondo cui i crediti ‘sorti in occasione o in funzione delle proce dure concorsuali’ devono essere soddisfatti mediante liquidazione dell’attivo fallimentare.
1.2 L’unico motivo di doglianza presentato dal Ministero ricorrente è infondato.
1.2.1 Occorre in premessa ricordare che l’a
1.2.2 Sul punto qui in discussione la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha chiarito che ‘ in caso d’intervenuta sentenza di revoca del fallimento, in assenza di colpa del creditore istante e di imposizione a carico dell’erario delle spese della procedura, nella vigenza dell’art. 21, secondo comma, legge fall., attualmente abrogato dall’art. 18 del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, l’avvocato che abbia svolto prestazioni professionali in favore della procedura stessa non può richiedere la liquidazione degli onorari agli organi preposti al fallimento, ma deve proporre un’azione ordinaria o avvalersi di rimedi procedimentali speciali previsti dall’ordinamento, per richiedere il pagamento delle proprie spettanze all’Amministrazione dello Stato, tenuta al r imborso’ (Sez. 1, Sentenza n. 10099 del 17/04/2008). È stato altresì precisato, sempre dalla giurisprudenza di questa Corte, che ‘ Nell’ipotesi di revoca della sentenza dichiarativa di fallimento, è onere del curatore, il quale agisca per il pagamento del compenso, individuare sin dall’atto introduttivo il soggetto che reputi gravato del pagamento, mentre è compito del tribunale verificare, illustrandolo, quale sia stato il contributo causale di quel soggetto sull’apertura della procedura; in mancanza, non è possibile porre tale compenso a carico del patrimonio del fallito, dovendo esso essere sopportato, stante il carattere di officiosità della procedura fallimentare, dall’amministrazione dello Stato’ (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 27523 del 28/09/2023).
1.2.3 Ciò posto e chiarito, reputa il Collegio che la regola generale che disciplina la materia in esame è che, in caso di revoca della dichiarazione di fallimento, l’ Erario è tenuto al pagamento se non sussiste responsabilità del creditore istante o del debitore. E questo -diversamente da quanto sostiene l’odierno ricorrente anche se ci sia attivo distribuibile, che in realtà andrebbe restituito al fallito una volta revocata la dichiarazione di fallimento.
Orbene, va osservato che, qualora ricorra (come nel caso di specie) una seconda dichiarazione di fallimento, con attivo capiente, non vengono meno i presupposti applicativi dell’art. 147 , che sono rappresentati dal l’assenza di colpa del creditore istante e del debitore.
1.2.4 Seguendo, invece, la diversa tesi della difesa erariale – secondo la quale se esiste attivo nel secondo fallimento dovrebbe pagare quest’ultimo le spese della procedura revocata – si rischia di trascurare il fatto dirimente che, come anche sottolineato dalla Corte di appello, si tratterebbe di due procedure diverse, in quanto la seconda non avrebbe configurato, in realtà, una riapertura della procedura fallimentare in senso tecnico, ai sensi dell’art. 121 l. fall., ma una procedura diversa ed autonoma dalla prima. Detto altrimenti, sarebbe come imputare, sempre e comunque, al fallito tornato in bonis le spese del fallimento revocato, a prescindere dal fatto che vi abbia dato causa; interpretazione, quest’ultima , che contrasta palesemente con la lettera della legge sopra ricordata e con la sentenza della Corte Cost. n. 46/1975.
Ne consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13 (Cass. Sez. Un. 23535 del 2019).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il Ministero ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 2.400 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, il 19.12.2024