Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 10964 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 10964 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 26/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 19752-2020 proposto da:
COBAS RAGIONE_SOCIALE COORDINAMENTO DI BASE DEI DELEGATI PT, aderente alla Confederazione Unitaria di Base, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME;
– controricorrente –
nonchè contro
NOME COGNOME;
Oggetto
SPESE DI LITE
R.G.N. 19752/2020
COGNOME
Rep.
Ud. 27/03/2025
CC
– intimata –
avverso la sentenza n. 1788/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 10/01/2020 R.G.N. 1239/2017; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/03/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma del provvedimento del giudice di primo grado, ha respinto l’istanza dell’organizzazione sindacale RAGIONE_SOCIALE per la cancellazione, ex art. 89, comma 2, c.p.c. delle frasi contenute nel ricorso proposto, innanzi al Tribunale, dalla società RAGIONE_SOCIALE nei confronti di NOME COGNOME dichiarando che nulla era dovuto per tale titolo risarcitorio dalla società e condannando l’organiz zazione sindacale in prime cure intervenuta a rifondere le spese di lite del primo e del secondo grado.
La Corte territoriale ha rilevato che gli atti giudiziari della società (la quale aveva promosso l’azione nei confronti della dipendente per accertare la legittimità della sanzione disciplinare conservativa intimata) non contenevano nessuna accusa rivolta all’organizzazione sindacale intervenuta nel processo e, inoltre, che le espressioni utilizzate non prevedevano nessun intendimento ingiurioso o parole dalle quali potesse trarsi una offensiva rappresentazione del sindacato.
Avverso tale sentenza il sindacato ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. La società ha resistito con controricorso.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione e/o falsa
applicazione dell’art. 91 c.p.c. avendo, la Corte del merito, erroneamente condannato la parte totalmente vittoriosa (ossia l’organizzazione sindacale) al rimborso delle spese di lite nei confronti della controparte totalmente soccombente (in considerazion e dell’accertata illegittimità, da parte del giudice di primo grado, della sanzione disciplinare conservativa intimata alla lavoratrice).
Con il secondo motivo di ricorso, si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. in relazione all’art. 89 c.p.c. nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto che la pronuncia ex art. 89 c.p.c. fosse oggetto della controversia tra le parti e, quindi, determinando conseguentemente le spese di lite: invero, il procedimento di cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive presenta carattere non riconducibile all’amb ito decisorio della lite ma indole ordinatoria.
I due motivi di ricorso, da valutare congiuntamente in quanto strettamente connessi, non sono fondati.
L’organizzazione sindacale intervenuta volontariamente nel processo instaurato tra il datore di lavoro e la lavoratrice (per l’accertamento della legittimità della sanzione disciplinare conservativa irrogata) ha assunto anche una posizione autonoma nei confronti della società Poste Italiane nella misura in cui ha lamentato la lesione del proprio diritto alla reputazione attuata attraverso frasi (ritenute offensive e sconvenienti) contenute negli scritti difensivi della società ed ha avanzato domanda di risarcimento del danno ex art. 89 c.p.c.; a seguito di soccombenza, in primo grado, del datore di lavoro sull’anzidetta domanda (nonché sulla ulteriore domanda di accertamento della legittimità della sanzione disciplinare conservativa), la società ha
proposto appello con esclusivo riguardo alla condanna al pagamento del danno ottenuto dall’organizzazione sindacale.
Questa Corte ha affermato che la censura relativa alla cancellazione di frasi offensive non può formare oggetto di impugnazione (Cass. n. 12162 del 2021, Cass. n. 1716 del 2024), trattandosi di domanda marginale ed estranea alla materia del contendere, il cui esame è affidato al potere discrezionale del giudice (che può provvedere anche d’ufficio). Recentemente è stato, peraltro, precisato che, nonostante si tratti di esercizio del potere discrezionale del giudice insindacabile in sede di legittimità, costituisce vizio di omessa pronuncia, denunciabile in cassazione, la mancata decisione su detta istanza (Cass. n. 17914 del 2022, Cass. n. 28803 del 2023).
L’art. 89 c.p.c. contiene due sanzioni diverse, consistenti, l’una, nella cancellazione delle espressioni offensive (espressioni dettate da un passionale e incomposto intento dispregiativo che non hanno un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, cfr. Cass. n. 21031 del 2016; Cass. n. 26195 del 2011; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10288 del 05/05/2009) e, l’altra, nel risarcimento del danno: si tratta di due distinte ed autonome sanzioni in quanto la prima attua un fine preventivo, di polizia generale, impedendo l’immanenza di una causa di danno, la seconda prevede l’assegnazione di una somma a titolo risarcitorio “quando le espressioni offensive non riguardano l’oggetto della causa”.
Ebbene, in continuità con l’orientamento sinora affermato da questa Corte, deve rilevarsi che l’istanza di cancellazione di frasi offensive e l’ulteriore (eventuale) richiesta di condanna al risarcimento del danno ex art. 89 c.p.c. configurano questioni aventi una propria individualità e autonomia rispetto all’oggetto del contendere, tali da integrare una decisione del tutto indipendente, anche suscettibile di formare giudicato interno, in
quanto pur se presuppongono la proposizione di un’azione giudiziaria avente un preciso petitum ed attengono al generale dovere, strumentale al corretto svolgimento delle attività giudiziarie, di lealtà e probità richiesto alle parti e ai difensori -configurano un questione accessoria ma del tutto distinta dall’oggetto della causa; invero, la relati va pronunzia non può considerarsi implicitamente impugnata allorché il gravame sia proposto in riferimento alla questione principale, e rappresenta una statuizione ulteriore ed eventuale e, comunque, assolutamente distinta (la cui omissione legittima la parte interessata a proporre il vizio di error in procedendo).
Dalla configurazione autonoma della domanda proposta ex art. 89 c.p.c. deriva la valutazione, distinta rispetto all’oggetto principale della causa, del profilo della soccombenza ai fini della regolazione delle spese di lite.
La Corte territoriale, investita del ricorso in appello unicamente sulle statuizioni richieste dall’organizzazione sindacale ai sensi del citato art. 89 c.p.c., si è correttamente conformata ai principi innanzi esposti nella misura in cui ha valutato la domanda quale questione autonoma ed ha applicato il principio (ampiamente consolidato, cfr. Cass. n. 16526 del 2024) della valutazione dell’esito complessivo della causa.
In conclusione, la Corte rigetta il ricorso, con regolazione delle spese di lite secondo il criterio della soccombenza.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 1.800,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 27 marzo 2025.