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Spese di lite per frasi offensive: la decisione

Un sindacato era intervenuto in una causa di lavoro, chiedendo anche un risarcimento per frasi offensive usate dalla società datrice di lavoro. Pur avendo vinto la causa principale in primo grado, la richiesta di risarcimento è stata respinta in appello, con condanna del sindacato al pagamento delle spese legali. La Cassazione ha confermato questa decisione, stabilendo che la domanda di risarcimento per espressioni offensive è autonoma rispetto alla causa principale. Di conseguenza, le relative spese di lite seguono l’esito di questa specifica domanda, applicando il principio della soccombenza.

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Spese di lite per frasi offensive: quando la domanda accessoria diventa autonoma

In un processo, anche le questioni apparentemente secondarie possono avere un impatto decisivo sulla ripartizione finale delle spese di lite. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce come una domanda di risarcimento per frasi offensive, presentata ai sensi dell’art. 89 c.p.c., debba essere considerata autonoma rispetto alla causa principale, con importanti conseguenze sulla condanna ai costi processuali.

Il caso: un sindacato, una lavoratrice e una controversia sulle parole

La vicenda trae origine da una causa di lavoro intentata da una grande azienda nazionale contro una propria dipendente per accertare la legittimità di una sanzione disciplinare. Nel corso del giudizio, un’organizzazione sindacale è intervenuta a sostegno della lavoratrice.

Il sindacato, ritenendo che gli atti difensivi della società contenessero espressioni offensive e sconvenienti lesive della propria reputazione, ha avanzato una domanda specifica: la cancellazione di tali frasi e il risarcimento del danno, come previsto dall’articolo 89 del codice di procedura civile.

Il tribunale di primo grado ha dato ragione sia alla lavoratrice, annullando la sanzione, sia al sindacato, condannando l’azienda al risarcimento del danno per le frasi offensive. L’azienda ha quindi presentato appello, ma limitatamente alla condanna al risarcimento ottenuta dal sindacato. La Corte d’Appello ha ribaltato la decisione, respingendo la richiesta del sindacato e, di conseguenza, condannandolo a pagare tutte le spese di lite dei due gradi di giudizio. A questo punto, il sindacato ha proposto ricorso in Cassazione.

La decisione della Cassazione sulla ripartizione delle spese di lite

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del sindacato, confermando la decisione della Corte d’Appello. I giudici supremi hanno stabilito un principio fondamentale: la domanda di risarcimento del danno per espressioni offensive ex art. 89 c.p.c. costituisce una questione autonoma e distinta rispetto all’oggetto principale della controversia.

Di conseguenza, quando l’appello riguarda unicamente questa domanda, l’esito del gravame determina una specifica soccombenza. In altre parole, anche se il sindacato era risultato vittorioso sulla questione principale (la sanzione disciplinare) nel primo grado di giudizio, è risultato soccombente in appello sulla sua autonoma domanda risarcitoria. Pertanto, è stato correttamente condannato a rimborsare le spese di lite relative a quella specifica parte del contenzioso.

Le motivazioni: autonomia della domanda e principio di soccombenza

La Corte ha spiegato che l’articolo 89 c.p.c. prevede due sanzioni diverse e indipendenti:
1. La cancellazione delle espressioni offensive: un provvedimento di “polizia processuale” con fine preventivo, affidato al potere discrezionale del giudice.
2. Il risarcimento del danno: una sanzione con finalità risarcitoria, che dà vita a una domanda con una propria individualità e autonomia.

Questa autonomia implica che la domanda risarcitoria può formare oggetto di una decisione indipendente, suscettibile persino di passare in giudicato (diventare definitiva) se non specificamente impugnata. Nel caso di specie, l’appello della società era mirato esclusivamente a contestare la condanna al risarcimento. La Corte d’Appello, quindi, si è occupata solo di quella questione, e la sua decisione ha generato un nuovo rapporto di vittoria/sconfitta limitato a quel punto.

La Cassazione ha concluso che la Corte territoriale ha applicato correttamente il principio della soccombenza (art. 91 c.p.c.), valutando l’esito complessivo della causa alla luce del fatto che l’unica questione dibattuta in appello era la domanda risarcitoria del sindacato, sulla quale quest’ultimo è risultato perdente.

Conclusioni: implicazioni pratiche per le strategie processuali

Questa ordinanza offre un’importante lezione sulla strategia processuale. Dimostra che le domande accessorie, come quella per frasi offensive, non sono semplici appendici della causa principale, ma possono avere vita propria, soprattutto in fase di impugnazione. Le parti devono considerare attentamente che avanzare tali richieste apre un fronte processuale autonomo, il cui esito negativo può comportare una condanna alle spese di lite, indipendentemente dal risultato della controversia principale. È quindi essenziale valutare con prudenza non solo le probabilità di successo della domanda principale, ma anche di quelle ancillari, per evitare amare sorprese al momento della liquidazione dei costi del giudizio.

Una domanda per risarcimento danni da frasi offensive è considerata parte della causa principale?
No, la Corte di Cassazione chiarisce che la richiesta di risarcimento del danno ex art. 89 c.p.c. è una domanda autonoma e distinta dall’oggetto principale del contendere, con una propria individualità processuale.

Chi paga le spese di lite se si vince la causa principale ma si perde in appello sulla domanda per frasi offensive?
La parte che risulta perdente (soccombente) sulla specifica e autonoma domanda per frasi offensive in un grado di giudizio deve pagare le spese di lite relative a quella parte del processo, anche se era risultata vittoriosa sulla questione principale nel grado precedente.

La richiesta di cancellare frasi offensive e quella di risarcimento del danno sono la stessa cosa?
No, l’art. 89 c.p.c. prevede due sanzioni distinte e autonome: la cancellazione delle espressioni, che ha un fine preventivo, e il risarcimento del danno, che ha una funzione risarcitoria quando le frasi non riguardano l’oggetto della causa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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