Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 14908 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 14908 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 04/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 10361 R.G. anno 2021 proposto da:
Intesa Sanpaolo s.p.a. , rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME;
NOME ricorrente
contro
NOME NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME, domiciliat o presso l’avvocato NOME COGNOME;
contro
ricorrente
nonché contro
COGNOME NOME, NOME, COGNOME NOME e COGNOME Santa ;
intimati avverso la sentenza n. 209/2021 depositata il 2 febbraio 2021 della Corte di appello di Bari.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 aprile 2025 dal consigliere relatore NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
─ RAGIONE_SOCIALE, quale procuratrice di Mediocredito s.p.a., successivamente fusa per incorporazione con Intesa Sanpaolo s.p.a., ha chiesto e ottenuto un decreto ingiuntivo nei confronti di NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME e NOME COGNOME oltre che di Santa Refolo, fideiussori di RAGIONE_SOCIALE, società alla quale era stato erogato un finanziamento di euro 748.862,50 e che era stata dichiarata fallita in data 12 dicembre 2003.
I predetti garanti hanno proposto opposizione, assumendo, sotto diversi profili, l’infondatezza della pretesa azionata in via monitoria nei loro confronti.
Nella resistenza della banca ingiungente il Tribunale di Bari, a seguito dell’esperimento di c onsulenza tecnica d ‘ ufficio, ha accolto l’opposizione e revocato il provvedimento monitorio.
2 . ─ La Corte di appello di Bari ha respinto il gravame proposto da Mediocredito Italiano. Ha ritenuto, in sintesi, che, in considerazione dell’acquisto, da parte della banca , di titoli costituiti in pegno per lire 501.778.480 in favore dell’istituto di credito e della imputazione, a titolo di preammortamento, della somma introitata di lire 4.028.416, l’importo effettivamente erogato alla società mutuataria ammontava, secondo quanto rilevato dal consulente tecnico, a lire 927.764.604, pari ad euro 479.150,43; ha inoltre precisato che la banca aveva beneficiato di quattro assegnazioni in sede di riparto per complessivi euro 427.369,23, somma che, almeno in parte, avrebbe dovuto essere decurtata da quella azionata in via ingiuntiva a fronte dell’incasso di due acconti percepiti rispettivamente in data 15 novembre 2005 e 12 luglio 2006, precedentemente al deposito del ricorso monitorio.
Ricorre per cassazione, con tre motivi, Intesa Sanpaolo.
Resiste con controricorso il solo NOME COGNOME Le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. -Col primo motivo si lamenta la violazione degli artt. 633, 634, 642 c.p.c., nonché la violazione dell’art. 474 c.p.c., la violazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. . Si imputa alla Corte di appello di aver erroneamente sottratto dal capitale richiesto e finanziato (euro 748.862,50) non solo tre importi relativi ai costi che avrebbe dovuto sostenere parte mutuataria contestualmente all’erogazione (commissione una tantum , interessi di preammortamento tecnico e imposta sostitutiva), ma anche il valore nominale di emissione dei titoli concessi in pegno dalla medesima (euro 261.227,46). Si rileva, in proposito, che poiché il contratto di mutuo prevedeva, oltre alla concessione delle consuete garanzie ipotecarie, la costituzione in favore della banca di un pegno in titoli aventi valore corrente non inferiore a lire 500.000.000, il debitore aveva provveduto ad acquistare titoli obbligazionari per un valore complessivo pari a euro 261.227,46, che aveva poi concesso in pegno alla banca: è dedotto che, nonostante le due operazioni fossero contestuali e coordinate nell’interesse dei mutuatari, ciò non comportava che la banca fosse creditrice di un importo pari alla differenza tra il capitale richiesto a prestito e il valore dei titoli concessi in pegno.
Col secondo mezzo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 634, 642 e 645 c.p.c., nonché la violazione degli artt. 113 e 116 c.p.c.. La censura investe la sentenza impugnata dalla parte in cui la Corte di appello ha dato atto dell’omessa considerazione, da parte della banca, nella determinazione del credito, delle somme già incassate «in molteplici riparti concorsuali, circostanza immotivatamente obliterata nella premessa del ricorso monitorio». Si rileva che nella domanda di ingiunzione si era dato atto che «nel corso della pendente procedura concorsuale, in esecuzione di due riparti parziali predisposti
dal curatore del fallimento all’esito delle operazioni di vendita stati assegnati alla banca creditrice rispettivamente le somme di euro 76.719,37 ed euro 32.797,10, dalla medesima imputate per legge».
Il terzo motivo oppone la violazione e falsa applicazione degli artt. 633, 634, 642, 645 c.p.c., nonché la violazione degli artt. 113 e 116 c.p.c. , la violazione degli artt. 1282, 1815 c.c. dell’art . 644 c.p. e l’omessa pronuncia . Si rileva che la Corte di appello, sull ‘ errato presupposto che il capitale effettivamente erogato fosse inferiore a quanto dichiarato nel contratto di finanziamento, avrebbe omesso di pronunciarsi sulla quantificazione degli interessi «per come determinata dal c.t.u. e condiviso dal Tribunale». Si rileva che tra le somme che la banca avrebbe diritto di percepire «non c’è traccia né degli interessi di mora né della penale prevista per la risoluzione contrattuale a seguito della decadenza dal beneficio del termine» e si denunciano gli errori di metodo in cui sarebbe incorso il c.t.u. nella quantificazione del tasso effettivo globale ai fini della verifica dell’usura.
I tre motivi sono inammissibili.
La ricorrente ha denunciato la violazione e la falsa applicazione di diverse norme processuali (artt. 633, 634, 642, 645, 474 c.p.c.), laddove, come è noto, il vizio di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c. si riferisce alle disposizioni sostanziali; né la ricorrente ha spiegato quale fosse la precisa rilevanza di tali norme su di un piano diverso da quello dell’ error in procedendo. Si rammenta, in proposito, che l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, n. 4, c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendos i demandare alla Corte il compito di individuare – con una
ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. Sez. U. 28 ottobre 2020, n. 23745; Cass. 6 luglio 2021, n. 18998).
Col secondo e il terzo motivo si invoca pure la cassazione a norma dell’art. 360, n. 5, c.p.c.: ma i due motivi mancano dell’indicazione del «fatto storico», il cui esame sarebbe stato omesso, del «dato», testuale o extratestuale, da cui esso risulterebbe esistente, del «come» e del «quando» tale fatto sarebbe stato oggetto di discussione processuale tra le parti, oltre che della sua «decisività» (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054).
– E’ inoltre impropriamente lamentata, da parte della ricorrente, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c. per confutare l’accertamento di fatto della Corte di merito. Si ricorda, in proposito, che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 31 agosto 2020, n. 18092; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395). Per dedurre, poi, la violazione dell’art. 115 c.p.c. occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che
ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.. La doglianza circa la violazione di quest’ultima norma è poi ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. Sez. U. 30 settembre 2020, n. 20867; Cass.9 giugno 2021, n. 16016).
6. Con riguardo alle censure contenute nel terzo motivo, e afferenti il tema dell’usurarietà -usurarietà che la Corte di appello ha ritenuto esistente, avendo riguardo al rapporto tra il capitale effettivamente erogato e gli interessi percepiti (posto che il primo risultava inferiore a quello nominalmente mutuato) -, va in più evidenziato che la ricorrente ha denunciato, contraddittoriamente, senza fornire adeguati chiarimenti al riguardo, la violazione e falsa applicazione di norme in tema di interessi (artt. 1282, 1815 c.c. e 644 c.p.) e l’omessa pronuncia. Come è del tutto evidente, non può sostenersi che la Corte di appello abbia mancato di pronunciare su di una domanda o un’eccezione, e assumersi, al contempo, che tale domanda o eccezione sia stata decisa incorrendo in una violazione o falsa applicazione di legge, perché l ‘ una evenienza esclude l’altra : e non è consentita la deduzione, in sede di legittimità, di una medesima questione sotto profili incompatibili (così, con riferimento alla prospettazione della violazione di legge e dell’omesso esame di fatto
decisivo per il giudizio: Cass. 6 febbraio 2024, n. 3397; Cass. 23 ottobre 2018, n. 26874).
7. – Da ultimo, occorre osservare che il ricorso risulta essere pure carente di autosufficienza, in quanto contiene generici rinvii alla consulenza tecnica, senza che ne venga comprensibilmente riassunto il contenuto o ne siano altrimenti trascritti i passaggi essenziali (cfr. in tema Cass. 19 aprile 2022, n. 12481).
– Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.
– Le spese del giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte
dichiara inammissibile il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 15.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione