Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 11942 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 11942 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 07/05/2025
SENTENZA
sul ricorso 17033-2021 proposto da:
NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 282/2021 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 02/02/2021 R.G.N. 3402/2016;
Oggetto
Direttore generale ENAM Soppressione dell’ente Conseguenze
R.G.N. 17033/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 18/03/2025
PU
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/03/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME per delega verbale avvocato NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale che aveva parzialmente accolto il ricorso, ha rigettato tutte le domande proposte da NOME COGNOME nei confronti dell’ INPS (subentrato ex lege all’ INPDAP ai sensi del d.l. n. 201 del 2011), volte ad ottenere l’accertamento dell’illegittimità della revoca dell’incarico di direttore generale di ENAM e la condanna dell’Istituto al risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, derivati dalla cessazione anticipata nonché dal sostanziale svuotamento delle funzioni subito a partire dal mese di agosto 2010.
La Corte territoriale, nel riassumere i termini della vicenda processuale, ha premesso in punto di fatto che il COGNOME, magistrato ordinario collocato fuori ruolo, era stato nominato Direttore Generale di RAGIONE_SOCIALE per la durata di anni due, con decorrenza dal 18 novembre 2008, e con delibera del 12 maggio 2010 l’Istituto aveva disposto la proroga dell’incarico per ulteriori due anni.
Con l’art. 7, comma 3 bis, del d.l. 31 maggio 2010 n. 78, il legislatore aveva disposto la soppressione dell’Istituto ed il trasferimento delle funzioni e delle risorse umane e finanziarie all’ INPDAP, sicché, inizialmente, al Di Maio era stato richiesto di
occuparsi della chiusura del bilancio e della gestione ordinaria. Peraltro, secondo l’assunto del ricorrente, queste competenze gli erano state subito dopo sottratte, perché l’ INPDAP aveva assunto tutti i poteri direttivi e gestori inerenti all’ente disciolto ed inoltre, con nota del 1° ottobre 2010, gli aveva comunicato che l’incarico sarebbe cessato il successivo 18 ottobre, essendo venuto meno l’interesse dell’ente alla prosecuzion e dello stesso. 3. Il giudice d’appello, respinta l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione, l’ha ritenuta fondata e in premessa ha evidenziato che il contratto individuale, in conformità alla disciplina dettata dall’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, consentiva il rinnovo alla scadenza, non il mero differimento del termine finale che caratterizza la proroga. Ha aggiunto che al provvedimento di conferimento dell’incarico accede un contratto individuale, nel quale devono essere specificati l’oggetto, la durata, gli obiettivi prefissati, e, pertanto, nella fattispecie occorreva che alla delibera adottata dalla Giunta Esecutiva di RAGIONE_SOCIALE facesse seguito la proroga del contratto individuale accessorio, mai stipulata a causa della sopravvenuta soppressione dell’ente. Ha richiamato giurisprudenza di questa Corte per evidenziare che all’atto di conferimento, unilaterale ed espressione di poteri propri del datore di lavoro privato, deve fare seguito la stipulazione del contratto e, pertanto, finché questa non avvenga il conferimento può essere modificato o ritirato. In tal caso il diritto al risarcimento del danno può sorgere solo qualora venga leso l’interesse legittimo dell’aspirante alla corretta attribuzione dell’incarico ed emerga una responsabilità dell’amministrazione, non r avvisabile nella fattispecie in quanto l’intervenuta soppressione dell’ente, costituente factum principis , aveva impedito che alla proroga si potesse dare corso. Ha aggiunto che l’incarico di Direttore
Generale era proseguito sino alla scadenza perché, come statuito dall’art. 3 del d.i. del 2 ottobre 2013, l’ INPS era subentrato, nonostante l’estinzione dell’ente, nel contratto che, altrimenti, poteva essere risolto ex art. 1463 cod. civ. per impossibilità sopravvenuta della prestazione, evidentemente connessa alla struttura organizzativa dell’ente preesistente.
Quanto, poi, alla domanda risarcitoria fondata sull’asserito svuotamento delle funzioni, la Corte territoriale ha richiamato il principio della «ragione più liquida» e ha ritenuto assorbente la mancanza di allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio subito, perché il ricorrente aveva chiesto il risarcimento del danno professionale senza specificare quali capacità lavorative avesse perduto nel limitatissimo periodo temporale agosto /ottobre 2010, quali vantaggi avrebbe potuto trarre dal mantenimento delle sue prerogative, quali effetti negativi avesse avuto nella vita sociale e di relazione nonché all’immagine professionale.
Per la cassazione della sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi, ai quali ha opposto difese con controricorso l’ INPS.
L’Ufficio della Procura Generale ha depositato conclusioni scritte, ulteriormente illustrate nel corso della discussione orale, ed ha chiesto il rigetto del ricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 7, commi 3 bis e 4, del d.l. n. 78/2010, convertito dalla l. n. 122/2010, dell’art. 3 d.m. 2 ottobre 2013, dell’art. 31 del
d.lgs. n. 165/2001, dell’art. 2112 cod. civ. Sostiene, in sintesi, che, avendo il legislatore espressamente previsto la successione dell’ INPDAP e poi dell’ INPS in tutti i rapporti attivi e passivi che facevano capo all’ ENAM , la soppressione di quest’ultimo non ha determinato l’estinzione della posizione dirigenziale attribuita né ha reso inefficace la delibera di proroga dell’incarico adottata dalla Giunta Esecutiva e ratificata dal Consiglio di Amministrazione. Richiama le linee guida diramate dal Ministero del Lavoro e la nota del Direttore Generale dell’ INPDAP, che fanno entrambe riferimento alla successione in tutti i rapporti in essere, ed invoca anche l’applicazione degli artt. 2558 e 2112 cod.civ. nonché della disciplina dettata per l’impiego pubblico contrattualizzato dall’art. 31 del d.lgs. n. 165/2001 e deduce che sulla base di tali disposizioni il giudice del merito avrebbe dovuto ritenere non giustificato il recesso ante tempus dal contratto già prorogato.
2. La seconda critica, egualmente ricondotta al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ., addebita alla sentenza impugnata «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 19 d.lgs. 165/2001 con riferimento al travisamento ed erronea ricognizione della fattispecie astratta individuata dalla citata disposizione». Premesso che in tema di conferimento di incarichi dirigenziali il datore di lavoro pubblico esercita poteri di diritto privato, il ricorrente evidenzia che l’atto con il quale l’incarico medes imo è conferito assume un ruolo centrale, mentre il contratto opera su «un piano accessivo e ausiliario» con la conseguenza che, nella fattispecie, doveva essere attribuita rilevanza agli atti (richiesta di attribuzione di competenze e offerta delle prestazioni lavorative) con i quali era stata manifestata la volontà di accettare la proroga e di proseguire n ell’incarico, che non richiedeva ulteriore atto scritto perché già formalizzato nel
dicembre 2008. Richiama al riguardo la stessa sentenza impugnata nella parte in cui sottolinea che la proroga, a differenza del rinnovo, consiste in un mero differimento temporale del termine di scadenza apposto all’originario contratto.
Con il terzo motivo è eccepita, ex art. 360 n. 4 cod. proc. civ., la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 416 cod. proc. civ. Deduce il Di COGNOME che nell’atto introduttivo erano state specificamente allegate le «reiterate e concludenti iniziative» assunte dal Direttore Generale dell’ente accorpante per estrometterlo da ogni attività e richiama a tal fine la documentazione prodotta nel giudizio di primo grado ed indicata nell’atto introduttivo. Aggiunge che l’ INPS nel costituirsi in giudizio non aveva contestato specificamente le circostanze allegate, dalle quali emergeva con evidenza che i poteri direttivi e gestori sulle risorse finanziarie e strumentali dell’ ENAM erano stati assunti dagli organi dell’ INPDAP, a totale discapito delle funzioni di cui egli era ancora titolare. Addebita alla Corte territoriale di avere violato il principio di non contestazione e asserisce che ove fossero state considerate quelle condotte, non si sarebbe potuto escludere l’evidente pregiudizio subito all’immagine, alla dignità e alla professionalità.
Infine con la quarta critica è denunciata ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 2087 cod. civ. che tutela, oltre alla salute fisica, anche la personalità morale del lavoratore, nella specie mortificata dalle iniziative assunte dal Direttore Generale di RAGIONE_SOCIALE finalizzate ad estromettere il ricorrente da ogni attività. Richiama poi giurisprudenza di questa Corte e contributi dottrinari per sostenere che il diritto all ‘ immagine e alla dignità professionale del lavoratore rientra tra quelli
fondamentali tutelati dall’art. 2 Cost. e va risarcito anche in presenza di lesioni di breve durata.
5. I primi due motivi di ricorso, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logica e giuridica, sono infondati. La legge 30 luglio 2010 n. 122, di conversione del d.l. 31 maggio 2010 n. 78, ha inserito nel testo dell’art. 7 dello stesso decreto il comma 3 bis, con il quale è stata disposta la soppressione dell’ ENAM a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge, ossia dal giorno successivo a quello della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (art. 1 della legge di conversione) e, quindi, dal 31 luglio 2010.
Il legislatore ha espressamente previsto il passaggio delle competenze all’INPDAP e la successione dell’ente subentrante nei rapporti attivi e passivi in essere ( …. Con effetto dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, al fine di assicurare la piena integrazione delle funzioni in materia di previdenza e assistenza, l’Ente nazionale di assistenza magistrale (ENAM), istituito in base al decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 21 ottobre 1947, n. 1346 D.Lgs.C.P.S. 21/10/1947, n. 1346, ratificato dalla legge 21 marzo 1953, n. 90, e successive modificazioni, è soppresso e le relative funzioni sono attribuite all’INPDAP che succede in tutti i rapporti attivi e passivi. ).
Ha, poi, precisato che con un successivo decreto di natura non regolamentare sarebbero state trasferite le risorse strumentali, umane e finanziarie dell’ente soppresso, da individuare sulla base del bilancio di chiusura della gestione, da redigere in relazione alla situazione esistente alla data di entrata in vigore della legge di conversione (…. Con decreti di natura non regolamentare del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il
Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, nonché, per quanto concerne la soppressione dell’ISPESL, con il Ministro della salute, da adottarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto ovvero, per l’ ENAM , di concerto con il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono trasferite le risorse strumentali, umane e finanziarie degli enti soppressi, sulla base delle risultanze dei bilanci di chiusura delle relative gestioni alla data di entrata in vigore del presente decretolegge ovvero, per l’ ENAM, alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.).
Il D.M. 2 ottobre 2013, pubblicato sulla G.U. n. 19 del 24 gennaio 2014, ribadito l’avvenuto trasferimento delle funzioni con la decorrenza sopra indicata (art.1), quanto al personale del soppresso ENAM, ha previsto, all’art. 3, il trasferimento alle dipen denze dell’INPDAP degli assunti a tempo indeterminato in servizio alla data della soppressione ed ha aggiunto che « per i restanti rapporti di lavoro diversi da quelli di cui al comma 1, in corso con il soppresso ENAM alla data del 31 luglio 2010, l’INPS gestione ex INPDAP subentra nella titolarità dei relativi contratti fino alla data di scadenza di ciascuno di essi ».
Emerge, quindi, dal chiaro quadro normativo che la successione, quanto al personale, è stata limitata ai rapporti di lavoro già in essere, non a quelli in fieri , ed inoltre è stata accompagnata dalle modifiche della dotazione organica dell’ente subentrante , in modo da garantire il necessario rispetto delle prescrizioni di carattere generale di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 165/2001.
5.1. La pretesa del ricorrente di ritenere che il contratto stipulato con RAGIONE_SOCIALE per lo svolgimento delle funzioni di direttore generale obbligasse l’INPAD a garantire la prosecuzione del
rapporto sino alla data del 18 novembre 2012 è destituita di fondamento per un duplice ordine di considerazioni.
Innanzitutto non merita censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che alla data di entrata in vigore della legge di soppressione il contratto non fosse stato ancora rinnovato, di talché le obbligazioni gravanti sull’ente disciolto, trasferite in capo all’INPDAP, potevano essere solo quelle previste dal contratto individuale del 18 dicembre 2008, prossimo alla scadenza ma ancora efficace.
Questa Corte da tempo (cfr. Cass. n. 5659/2004) ha affermato che nell’impiego pubblico contrattualizzato il rapporto dirigenziale sorge solo a seguito della stipulazione del contratto e l’atto unilaterale di conferimento dell’incarico, che l’amministrazione adotta nell’esercizio del potere privatistico di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, rileva unicamente sul piano dell’organizzazione ed ai fini dei controlli interni richiamati dallo stesso art. 5, ma non è idoneo a determinare l’instaurazio ne del rapporto medesimo né equivale ad una proposta contrattuale, della quale non possiede i requisiti, perché è solo con il contratto che il trattamento economico viene definito nel rispetto dell’art. 24 del d.lgs. n. 165/2001, ossia tenendo conto delle previsioni della contrattazione collettiva, delle responsabilità attribuite, degli obiettivi fissati, dei risultati da conseguire.
E’ stato anche precisato (cfr. Cass. n. 11376/2022) che, in ragione della particolare natura e struttura del rapporto dirigenziale intercorrente con le Pubbliche Amministrazioni, alla scadenza l’incarico può essere rinnovato , ma a condizione che il potere datoriale si manifesti ex novo , nel rispetto delle medesime condizioni e con l’osservanza dello stesso procedimento previsto per la prima stipulazione, giacché il
potere datoriale afferisce «ad ineludibili scelte che attengono alla struttura e ai fini dell’organizzazione pubblica », scelte da effettuare tenendo conto dei risultati pregressi e degli obiettivi futuri da assegnare.
Dall’applicazione congiunta dei principi sopra richiamati si ricava che, così come non è sufficiente a determinare l’instaurazione del rapporto la sola delibera di conferimento, parimenti il rinnovo postula che alla determinazione dell’ente faccia seguito la stipulazione del contratto, sicché, sino a quando questa non intervenga, la posizione giuridica soggettiva del designato è di mera aspettativa, tutelata nei soli casi in cui l’affidamento riposto nel nuovo conferimento venga leso da una condotta che l’a mministrazione tenga in violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede.
5.2. Detta lesione non si può certo ravvisare nella fattispecie, giacché la determinazione dell’ente subentrante di non dare seguito al rinnovo è stata determinata dall’intervento legislativo che, sopprimendo l’ente e, conseguentemente, la funzione oggetto di conferimento, ha reso giuridicamente impossibile la prosecuzione del rapporto.
La condotta tenuta dall’INPDAP va esente da profili di illegittimità perché al principio generale secondo cui, in caso di successione d’azienda, alla quale è equiparato il trasferimento di attività ex art. 31 d.lgs. n. 165/2001, sono salvaguardati i diritti, non le aspettative, del personale ceduto, si affianca quello, più volte enunciato da questa Corte, secondo cui la Pubblica Amministrazione non può adottare atti che risultino in contrasto con sopravvenuti interventi normativi o con un mutato assetto org anizzativo, che impone, nel rispetto dell’art. 97 Cost., di non dare seguito alle determinazioni adottate in
relazione al previgente assetto ( cfr. fra le tante Cass. S.U. 16728/2012).
I richiamati principi, affermati in relazione a procedure concorsuali o selettive di progressione verticale, a maggior ragione valgono nella fattispecie nella quale, oltre a venire in rilievo un conferimento di incarico dirigenziale, ossia una fattispecie a formazione progressiva avviata ma non conclusa al momento della soppressione dell’ente, si discute di una funzione, quella di direttore generale dell’ente soppresso, che necessariamente presuppone l’esistenza e la piena operatività dell’ente medesimo, no n essendo assimilabile, per le sue peculiarità derivanti dal ruolo apicale che il direttore generale riveste, ad un qualsivoglia altro incarico direttivo espletabile anche nella diversa organizzazione dell’amministrazione subentrante.
5.3. Valgono, quindi, mutatis mutandis , i medesimi principi affermati da Cass. n. 33355/2024 in relazione all’incarico di direttore generale del soppresso ICE, nonché da Cass. 25517/2024 e da Cass. n. 29983/2024 quanto alla risoluzione anticipata dell’incarico di direttore generale della ASL, conseguente alla soppressione dell’azienda . Le pronunce citate hanno tutte evidenziato, pur nella diversità degli enti e delle vicende successorie, che il venir meno della funzione apicale oggetto del contratto determ ina l’impossibilità giuridica sopravvenuta della prestazione e giustifica la risoluzione anticipata del rapporto, sicché a maggior ragione quei principi rendono infondata la pretesa del ricorrente di ritenere l’ente subentrato vincolato al rispetto della deliberazione di rinnovazione dell’incarico, adottata dall’ENAM in epoca antecedente alla soppressione.
La fattispecie oggetto di causa non si presta ad essere assimilata a quella verificatasi in occasione della soppressione del SECIT, evocata dalla difesa del ricorrente, perché in quel caso si discuteva, come evidenziato nella motivazione di Cass. n. 16753/2019, di attività ispettive e di consulenza che gli esperti inseriti nell’organico del Servizio soppresso avrebbero potuto rendere anche in un diverso contesto, diversamente da quanto accade per le funzioni di direttore generale, che presuppongono la perma nenza dell’ente da dirigere e non sono compatibili con il trasferimento delle funzioni ad una diversa amministrazione, nella quale risulta già in carica altro direttore generale, incaricato dell’ organizzazione e del la direzione dell’intero ente accorpante, ivi compresi gli uffici ed i servizi, previsti a seguito della modificazione della dotazione organica, destinati a curare le attività trasferite.
In via conclusiva, quindi, i primi due motivi di ricorso vanno rigettati in primis perché il rinnovo dell’incarico non si era ancora perfezionato alla data della legge di soppressione, impeditiva della prosecuzione della procedura di rinnovo avviata ma non ancora conclusa, e comunque perché, in relazione alla natura dell’incarico medesi mo, la legge sopravvenuta, determinando la giuridica impossibilità di rendere la prestazione oggetto del contratto, ne avrebbe giustificato la risoluzione.
6. Il terzo ed il quarto motivo sono inammissibili, in quanto svolgono considerazioni che, oltre a sollecitare un giudizio di merito non consentito in sede di legittimità, non si confrontano pienamente con la ratio decidendi della sentenza impugnata che, come evidenziato nello storico di lite, ha ritenuto assorbente, per escludere la domanda di risarcimento dei danni derivati dall’asserito demansionamento, la mancanza di allegazione e prova del danno medesimo.
Le circostanze sulle quali il ricorrente fa leva, invocando il principio di non contestazione, attengono tutte, non al danno conseguenza, che è quello ritenuto indimostrato dal giudice d’appello , bensì all’inadempimento asseritamente commesso dall’amministrazione e si rivelano, quindi, prive di decisività , poiché la Corte territoriale non ha escluso l’asserito svuotamento delle funzioni, sul quale non si è pronunciata, avendolo ritenuto non sufficiente a fondare una pronuncia di accoglimento della domanda risarcitoria, in assenza di specifica dimostrazione del pregiudizio subito.
Poiché il ricorso, nella parte in cui insiste sulla privazione delle mansioni, è privo della necessaria correlazione con il decisum , opera il principio secondo cui nel giudizio di cassazione, a critica vincolata, la proposizione di censure che non attengono alla effettiva ratio decidendi della pronuncia è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi, richiesta dall’art. 366 n.4 cod. proc. civ., e determina l’inammissibilità, in tutto o in parte dell’impugnazione , rilevabile anche d’ufficio (cfr. fra le tante Cass. n. 9450/2024, Cass. 15517/2020, Cass. n. 20910/2017, Cass. n. 17125/2007, Cass. S.U. n. 14385/2007).
6.1. Si aggiunga che i motivi, oltre a non assolvere pienamente all’onere di specifica indicazione degli atti processuali imposto dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ., non considera no che « l’accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero d’una non contestazione, rientrando nel quadro dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto della parte, è funzione del giudice di merito, per cui non è sindacabile in cassazione per violazione o falsa applicazione della legge» (Cass. n. 10075/2025 e negli stessi termini fra le tante Cass. n. 9580/2025, Cass.9515/2025).
6.2. Infine va detto che il quarto motivo, che diffusamente argomenta sul diritto all’immagine ed alla dignità professionale, tutelati dall’art. 2 Cost. in quanto diritti fondamentali, muove dal presupposto, che la Corte territoriale ha escluso con accertamento di merito non sindacabile in questa sede, della dimostrazione della lesione e addebita al giudice d’appello una violazione di legge in realtà insussistente.
Il giudice d’appello, infatti, non si è discostato dall’orientamento, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il danno non patrimoniale conseguente al demansionamento o allo svuotamento delle mansioni deve essere oggetto di prova ex art. 2697 cod. civ., che va fornita dal lavoratore con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, ivi compreso il ricorso al ragionamento presuntivo. A tal fine, però, è necessario che vengano dedotti specifici elementi attinenti alla singola vicenda lavorativa (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) a partire dai quali il giudice possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno. « In definitiva escluso che il pregiudizio sia in re ipsa collegato all’esistenza della dequalificazione, il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto
indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa (cfr. Cass. 23/01/2011 n.1248 e comunque già Cass. Sez. U., Sentenza n. 6572 del 24/03/2006). » ( Cass. n. 28810/2020 e negli stessi termini, quanto al conferimento di incarichi dirigenziali, Cass. n. 5546/2020).
Esclusa, quindi, la denunciata violazione di legge, il motivo si risolve nella sollecitazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali, ed è, pertanto, inammissibile giacché l’accertamento in merito alla idoneità a fini di prova della circostanze dedotte attiene ad una quaestio facti ( cfr. fra le tante Cass. n. 10267/2024).
In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in € 200,00 per esborsi ed € 8000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto