Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 6324 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 6324 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 28723-2020 proposto da:
COGNOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
ISPETTORATO RAGIONE_SOCIALE MILANO – LODI, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 422/2020 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 08/04/2020 R.G.N. 1125/2019;
Oggetto
Opposizione ordinanza ingiunzione
R.G.N. 28723/2020
COGNOME
Rep.
Ud. 28/01/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/01/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
Rilevato che:
La Corte d’appello di Milano ha accolto l’appello dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Milano -Lodi e, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto il ricorso proposto da NOME COGNOME in opposizione all’ordinanza ingiunzione n. 413/2017 con cui gli erano state irrogate, nella veste di amministratore unico della RAGIONE_SOCIALE, sanzioni amministrative per la irregolare somministrazione di 87 lavoratori alla RAGIONE_SOCIALE nel periodo dall’1.2.2014 al 2.10.2014.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi. La causa, originariamente fissata per l’udienza del 29.5.2024, è stata rinviata a nuovo ruolo per il rinnovo della notifica in favore dell’Avvocatura Genera le dello Stato. L’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Milano-Lodi si è costituito con controricorso.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Considerato che:
Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione del termine di contestazione di cui all’art. 14, L. 689/1981: omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 14, L. 689/1981 in relazione all’art. 33, L. 183/1980, all’art. 15, d.lgs. 124/2004, all’art. 9 d.lgs. 8/2016 e all’art. 24 Cost.
Con i primi due motivi si censura, sotto diverse angolazioni, la sentenza d’appello nella parte in cui ha respinto l’eccezione di mancato rispetto del termine stabilito dal citato art. 14 individuando quale dies a quo dello stesso la data (26.1.2017) di trasmissione degli atti dalla Procura della Repubblica all’Ispettorato per intervenuta depenalizzazione dell’illecito, con conseguente tempestività della contestazione eseguita il 27.2.2017. Col primo motivo, per omesso esame del fatto decisivo rappresentato dalla indicazione, nel medesimo verbale ispettivo (trascritto per estratto nel ricorso a p. 11 e depositato come doc. 2), della conclusione degli accertamenti in data 9.2.2015, con dichiarazione del verbalizzante facente prova fino a querela di falso. Col secondo motivo, per avere la Corte d’appello male interpretato le citate disposizioni di legge, in violazione peraltro, del diritto di difesa.
Il primo motivo, che denuncia il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., è inammissibile in quanto investe non un fatto in senso storico, come necessario ai fini del vizio dedotto (v. Cass. S.U. n. 8053 e n. 8054 del 2014), ed inoltre un fatto già in astratto non decisivo alla luce del rilievo attribuito dal giudice di merito alla vicenda della trasmissione e successiva restituzione degli atti alla Procura della Repubblica, vicenda implicante valutazione in diritto della interpretazione delle disposizioni in materia di decorrenza del termine per la contestazione dell’illecito amministrativo.
Il secondo motivo è infondato.
Come allegato e documentato dal ricorrente, l’accertamento ispettivo ha avuto inizio l’8.8.2014 e si è concluso nel febbraio 2015; in data 22.6.2015 l’Ispettorato ha provveduto alla trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano (v. ricorso, p. 14). A seguito della
depenalizzazione degli illeciti penali di cui al d.lgs. 276 del 2003 (art. 28), la Procura ha trasmesso gli atti all’Ispettorato (art. 9, comma 1, d.lgs. n. 8/2016) e quest’ultimo ha notificato gli estremi della violazione, divenuta di rilievo amministrativo, all’interessato nel termine di novanta giorni dalla ricezione (art. 9, comma 4, d.lgs. cit.).
La Corte d’appello ha deciso in conformità alle citate disposizioni e ai principi espressi da questa S.C. secondo cui, in ipotesi di trasformazione di illeciti penali in illeciti amministrativi, il termine previsto dall’art. 14, L. 689/1981, entro cui deve avvenire la contestazione dell’illecito, decorre dalla trasmissione degli atti all’autorità amministrativa (Cass. n. 27595 del 2008; n. 9643 del 2016).
Nel caso in esame, l’originario rilievo penale delle condotte oggetto di accertamento ispettivo ha reso inoperante l’art. 14, L. 689/1981, applicabile ai soli illeciti amministrativi, essendo tenuti i verbalizzanti unicamente all’obbligo di informativa verso l’autorità giudiziaria. Subentrata la depenalizzazione, gli atti sono stati trasmessi dall’autorità giudiziaria a quella amministrativa competente ad irrogare le sanzioni e da questo momento è iniziato il decorso del termine di legge per procedere alla relativa contestazione.
Le residue censure mosse con il motivo in esame e basate sul richiamo all’art. 33, L. 183/1980, all’art. 15, d.lgs. 124/2004, all’art. 9 d.lgs. 8/2016 e all’art. 24 Cost. sono inammissibili per novità delle stesse atteso che la parte ricorrente non ha allegato e documentato in quali atti processuali e in che termini tali questioni, non trattate nella sentenza d’appello, siano state poste dinanzi ai giudici di merito (v. Cass. n. 23675 del 2013; n. 20703 del 2015; n. 18795 del 2015; n. 11166 del 2018; n. 20694 del 2018).
Con il terzo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4 c.p.c., l’omessa pronuncia sull’eccezione, ritualmente proposta, di giudicato riflesso delle sentenze n. 1589/2016 del Tribunale di Milano sezione lavoro e n. 11077/2018 del medesimo Tribunale sezione penale, in violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 113 c.p.c. e 2909 c.c.
Il motivo non è fondato.
Questa Corte ha chiarito che ad integrare il vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto; ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logicogiuridica della pronuncia (cfr. Cass. n. 24155 del 2017; n. 17956 del 2015; n. 20311 del 2011).
La sentenza impugnata dà atto del motivo di appello dell’Ispettorato con cui si criticava il rilievo dato dal primo giudice ‘ad accertamenti e decisioni, effettuati in diversi procedimenti, allo stesso non opponibili oltre che basati su differenti prin cipi, come quelli tipici del procedimento penale’ (sentenza, p. 3, ultimo cpv.) e l’accoglimento integrale del ricorso dell’Ispettorato reca logicamente con sé il rigetto implicito, per adesione ai rilievi dell’appellante, dell’eccezione di giudicato rifle sso in quanto non inopponibile all’Ispettorato che non era stato parte dei procedimenti nei quali il giudicato si era formato. Con specifico riferimento al tema delle sanzioni
amministrative, si è precisato che, ai sensi dell’art. 654 cod. proc. pen., nei giudizi civili o amministrativi non di danno, come quello di opposizione a ordinanza sanzionatoria di illecito amministrativo, il giudicato penale di assoluzione, nella specie del trasgressore per non aver commesso il fatto, non è opponibile a soggetti, quale l’ente impositore, non intervenuti nel relativo processo (Cass. n. 11352 del 2014; n. 15344 del 2020). Risulta di conseguenza infondata la censura di violazione dell’art. 2 909 c.c.
Con il quarto motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4 c.p.c., l’inattendibilità delle testimonianze e delle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva: violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 345 c.p.c. ed error in procedendo, per avere la Corte d’appello utilizzato ai fini del decidere (esattamente per escludere l’interesse in causa dei testimoni COGNOME e COGNOME) la sentenza n. 491/2018, pronunciata dal tribunale di Milano nella causa tra l’Inps e la committe nte COGNOME, prodotta dall’Ispettorato solo nel giudizio dinanzi alla Corte territoriale (anziché all’udienza del 25.1.2019 fissata dinanzi al tribunale per l’escussione dei citati testimoni), in violazione del divieto di nova in appello
Premesso che l’art. 345 c.p.c., invocato dal ricorrente, consente l’ammissione in appello di nuovi mezzi di prova ove ritenuti indispensabili, il motivo è inammissibile sia perché non trascrive il provvedimento di ammissione della prova adottato in appello e le relative motivazioni e sia per difetto di decisività della censura rispetto al tema della capacità ed attendibilità dei testi. In proposito deve ribadirsi (Cass. n. 9353 del 2012; n. 167 del 2018) che l’incapacità a deporre prevista dall’art 246 c.p.c. si verifica solo quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto
contro
verso, alla stregua dell’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., tale da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia in discussione, non avendo, invece, rilevanza l’interesse di fatto a un determinato esito del processo – salva la considerazione che di ciò il giudice è tenuto a fare nella valutazione dell’attendibilità del teste. Inoltre, la valutazione di attendibilità dei testimoni è di esclusiva competenza del giudice di merito e, nella specie, è stata eseguita sulla base di plurimi criteri, in nessun modo contestati, tra cui la conformità della deposizione alle dichiarazioni rese in sede ispettiva.
19. Con il quinto motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c., l’inattendibilità delle testimonianze e delle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva: omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti con conseguente violazione o falsa applicazione degli artt. 2700 e 2697 c.c., per non avere i giudici di appello considerato le conseguenze a cui i lavoratori sarebbero stati esposti in ipotesi di ritrattazione delle dichiarazioni rese in sede ispettiva e la rilevanza di ciò nel giudizio sulla loro attendibilità.
Il motivo è inammissibile in quanto la censura risulta estranea al perimetro dell’art. 360 n. 5 c.p.c. Si denuncia non l’omesso esame di un fatto storico (v. Cass., S.U. n. 5083 e n. 5084 del 2014 cit.) bensì una possibile interferenza sulla genuinità delle deposizioni testimoniali e così, ancora una volta, si critica la valutazione compiuta dai giudici di appello sulla attendibilità delle testimonianze.
Con il sesto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 1655 c.c., dell’art. 29, d.lgs. 276/2003 ed omesso esame circa
un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione alla sussistenza del rischio di impresa e alla genuinità dell’appalto.
22. Il motivo è infondato.
23. I giudici di appello hanno interpretato ed applicato il disposto dell’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, ratione temporis applicabile, in maniera conforme ai principi affermati da questa Corte, secondo cui il legislatore delegato se, da un lato, ha consentito che l’appaltatore, in relazione alle peculiarità dell’opera o del servizio, possa limitarsi a mettere a disposizione dell’utilizzatore la propria professionalità, intesa come capacità organizzativa e direttiva delle maestranze, a prescindere dalla proprietà di macchine ed attrezzature, dall’altro ha ritenuto imprescindibile ai fini della configurabilità dell’appalto lecito che sia l’appaltatore stesso ad organizzare il processo produttivo con impiego di manodopera propria, esercitando nei confronti dei lavoratori un potere direttivo in senso effettivo e non meramente formale. Ne discende che, anche per gli appalti stipulati nella vigenza del richiamato decreto legislativo, opera il principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui si configura intermediazione illecita ogni qual volta l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo eventualmente in capo al medesimo, quale datore di lavoro, i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), senza tuttavia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo (Cass. 7898 del 2011 e negli stessi termini fra le più recenti Cass. n. 23215 del 2022; n. 15557 del 2019; n. 27213 del 2018; n. 27105 del 2018; n. 10057 del 2016; n. 7820 del 2013).
24. In adesione a tali principi la Corte di merito ha accertato in fatto, sulla base delle deposizioni testimoniali e delle prove documentali, ‘lo stabile inserimento del personale somministrato dalla formale datrice di lavoro, RAGIONE_SOCIALE, nell’organizzazione aziendale della committente COGNOME, la quale (aveva alle dipendenze) solo personale impiegatizio e si era avvalsa per anni, per l’espletamento dell’attività produttiva, unicamente di lavoratori inviati da una serie di cooperative succedutesi nel tempo. Queste ultime, e fra loro in particolare RAGIONE_SOCIALE, si limitavano a fornire manodopera non impiegando alcun proprio materiale o strumento di lavoro; i macchinari utilizzati per lo svolgimento dei servizi appaltati erano di proprietà esclusiva di COGNOME che li forniva in comodato gratuito all’appaltatrice’ (sentenza, p. 5 -6); ‘le direttive venivano impartite dai responsabili della committente, che stabilivano turni e orari e controllavano l’esecuzione delle prestazioni, oltre a decidere in ordine ad istanze di aumento della retribuzione o sostituzione degli indumenti di lavoro e a sanzionare i lavoratori con sospensione dell’impiego in caso di inosservanza delle istruzioni e richieste loro rivolte’ (sentenza, p. 7).
Non vi è spazio quindi per ritenere integrata la violazione delle norme di diritto denunciata, essendo state le stesse interpretate ed applicate in conformità all’indirizzo di questa S.C. La critica mossa ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. è inammissibile perché priva dei requisiti a cui le Sezioni Unite di questa Corte già citate subordinano la configurabilità del vizio.
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
28. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 28 gennaio 2025