Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 13335 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 13335 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 12517/2020 r.g. proposto da:
COGNOME NOME, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO, in virtù di procura resa in calce al ricorso per cassazione, il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato
-ricorrente –
contro
NOME, in proprio e in qualità di socio accomandatario e legale rappresentante pro tempore della RAGIONE_SOCIALE, rappresentato e difeso nel presente giudizio, in virtù di procura speciale alle liti in calce al controricorso, dall’AVV_NOTAIO, il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni e le notifiche
relative alla presente procedura a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo indicato
-controricorrenti –
E
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, COGNOME NOMENOME rappresentata e difesa nel presente giudizio, in virtù di procura speciale alle liti in calce al controricorso, dall’AVV_NOTAIO, la quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni e le notifiche relative alla presente procedur a all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato
-controricorrente-
avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce n. 351/2020, depositata in data 20 aprile 2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 9/5/2024 dal AVV_NOTAIO;
RILEVATO CHE:
Con atto di citazione notificato l’8/8/2013 NOME COGNOME, quale socio accomandante di RAGIONE_SOCIALE, a far data dal 3/6/2010, conveniva in giudizio NOME COGNOME, in proprio e nella sua qualità di socio accomandatario della società, oltre alla RAGIONE_SOCIALE
In particolare, l’attrice evidenziava che in data 12/3/2013 la RAGIONE_SOCIALE aveva ceduto il ramo d’azienda relativo ai servizi cimiteriali in favore della RAGIONE_SOCIALE per il prezzo di euro 23.500,00, residuando alla società il ramo d’azienda relativo alle onoranze funebri.
Il ramo d’azienda ceduto rappresentava però l’unico ramo attivo della società, mentre il socio accomandatario, NOME COGNOME, di fatto continuava a svolgere l’attività ceduta nella società cessionaria, la RAGIONE_SOCIALE, di cui il fratello NOME COGNOME era amministratore unico.
Per l’attrice il contratto di cessione era nullo, perché strumentale a liquidare il patrimonio sociale e perché «frutto di un accordo illecito comune ai contraenti, in violazione dei doveri ex art. 2260 c.c.».
Pertanto, chiedeva: a) la declaratoria della nullità del contratto ex artt. 1344 e 1345 c.c.; b) la reintegrazione del medesimo ramo d’azienda nella società cedente; c) la condanna dei convenuti al risarcimento del danno arrecato alla «RAGIONE_SOCIALE»; d) l’esclusione di NOME COGNOME dalla «RAGIONE_SOCIALE» per inadempimento degli obblighi di socio amministratore; e) la condanna di NOME COGNOME ai sensi e per gli effetti dell’art. 2301 c.c. (divieto di concorrenza).
Il tribunale con sentenza in data 24/11/2014 rigettava tutte le domande proposte dalle parti, ivi comprese le domande riconvenzionali, per le quali non veniva proposto appello.
In motivazione, si dava atto del ruolo svolto da NOME COGNOME, padre dell’attrice, che era «comunque coinvolto nelle diverse questioni controverse». Il tribunale muoveva, poi, dalla considerazione che l’attrice aveva taciuto la circostanza che l’attività di onoranze funebri era già stata di fatto sospesa, mentre la cessione aveva riguardato solo l’attività di servizi cimiteriali, anche in considerazione della impossibilità ex lege di svolgere contemporaneamente entrambe le attività, in forza della legge regionale Campania n. 34 del 2008.
Tra l’altro, la società era in crisi sicché appariva verosimile che la cessione fosse stata dettata anche dall’esigenza di ripianare i conti della società stessa, ben potendo la cessione essere stipulata dal
socio accomandatario senza il consenso dell’accomandante, in base a precise disposizioni statutarie.
Il tribunale neppure ravvisava nel comportamento di NOME COGNOME alcuna condotta di concorrenza sleale, stante la diversa natura delle attività (servizi cimiteriali e onoranze funebri) svolti rispettivamente dalle due società, la cessionaria RAGIONE_SOCIALE e la cedente RAGIONE_SOCIALE
Tra l’altro, la difficoltà per la RAGIONE_SOCIALE di riprendere l’attività di onoranze funebri era dovuta al fatto di essere rimasta priva dei necessari beni strumentali per fatti indipendenti dalla volontà di NOME COGNOME, perché tali beni erano stati «dati in comodato e trattenuti da COGNOME NOME».
La Corte d’appello, con sentenza in data 20 aprile 2020, dopo aver sollecitato il contraddittorio delle parti sulle questioni rilevabili d’ufficio, per quel che ancora qui rileva, rigettava l’eccezione di inammissibilità ex art. 345 c.p.c. della documentazione prodotta in sede di appello dalla appellante.
Reputava trattarsi di documenti nuovi, per i quali non andava vagliata l’indispensabilità, in quanto l’art. 345 c.p.c., come modificato dal decreto-legge n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012, era applicabile alle sentenze pubblicate a partire dall’11 settembre 2012.
Quanto alla legittimazione ad causam la Corte territoriale reputava che nelle società in accomandita semplice, il socio accomandante poteva far valere il suo interesse al potenziamento ed alla conservazione del patrimonio sociale «esclusivamente con strumenti interni, quali l’azione di responsabilità contro il socio accomandatario, la richiesta di estromissione di quest’ultimo per gravi inadempienze, l’impugnativa del rendiconto, o la revoca per giusta causa dell’amministratore», mentre non era legittimato «ad
agire nei confronti dei terzi per far annullare o dichiarare nulli i negozi intercorsi tra questi ultimi e la società, non sussistendo un interesse proprio del socio accomandante, autonomo e distinto rispetto a quello della società».
Analogo ragionamento valeva in relazione all’azione ex art. 2301 c.c., in quanto il divieto di concorrenza, previsto dall’art. 2301 c.c. con riguardo ai soci di società in nome collettivo, era applicabile anche nei confronti dei soli soci accomandatari di società in accomandita semplice, ma non «anche per i soci accomandanti, salvo che per questi ultimi non sia pattiziamente previsto con una disposizione contenuta nel contratto sociale che nella specie manca».
Pertanto, le due domande di nullità e di risarcimento del danno per violazione del divieto di concorrenza dovevano essere dichiarate inammissibili «per carenza di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. in capo all’appellante».
Quanto alla residua azione di risarcimento del danno «subito dalla parte attrice», non vertendosi in ipotesi di azione di responsabilità proposta dalla società, ma trattandosi del «danno arrecato in proprio a COGNOME NOME», pure nella sua qualità di socio accomandante, «in termini di sofferenza soggettiva, cagionata alla stessa dal fatto illecito perpetrato dal COGNOME NOME», la domanda era ugualmente inammissibile.
Infatti, l’attrice si era costituita parte civile in sede penale «in nome proprio» per il ristoro «dei danni morali a lei derivati a seguito della illecita condotta del Sig. COGNOME NOME». Tale domanda, però, che era stata presentata in sede penale dopo la pronuncia della sentenza civile – «non essendone stata rilevata la tardività in sede penale» -, doveva intendersi come rinunciata implicitamente in sede
civile, «non potendo duplicarsi il risarcimento», in quanto si trattava di ristoro per «i medesimi pregiudizi, richiesti anche in sede penale».
Il processo penale si era concluso con l’accoglimento della domanda risarcitoria proposta dalla parte civile, ma detta domanda «quanto a petitum e causa petendi » era «(quantomeno parzialmente) coincidente con la domanda proposta in questa sede», non essendo configurabili all’interno della categoria generale del danno non patrimoniale, autonome sottocategorie di danno.
Quanto al merito, veniva rigettato anche il residuo motivo di appello con cui l’attrice chiedeva «dichiararsi ex art. 2286 c.c. l’esclusione del socio accomandatario COGNOME NOME dalla RAGIONE_SOCIALE per le gravi inadempienze agli obblighi di socio amministratore».
In realtà, le circostanze dedotte dall’attrice non erano state provate in giudizio, perché effettivamente la cessione del ramo di attività riguardante i servizi cimiteriali aveva consentito alla società – pacificamente in crisi – di svolgere l’attività di onoranze funebri, liberandola dall’esposizione debitoria.
Quanto all’attività di onoranze funebri la stessa era rimasta in capo alla RAGIONE_SOCIALE e, in precedenza, era di fatto sospesa, «tant’è che i beni strumentali necessari per tale attività erano stati dati in comodato al COGNOME NOME». L’impossibilità di svolgere, dopo la cessione, l’attività di onoranze funebri era conseguenza, non già della cessione del ramo d’azienda (di servizi cimiteriali), ma era «ricollegabile piuttosto alla difficoltà di riprendere tale attività per il cui avvio il COGNOME NOME aveva pure presentato la Scia, solo a causa della condotta ostruzionistica di COGNOME NOME».
4. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME.
Hanno resistito con controdeduzioni NOME COGNOME, in proprio e nella sua qualità di socio accomandatario e legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE, e la RAGIONE_SOCIALE Entrambe le parti hanno depositato memoria scritta.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione e falsa applicazione di norme di diritto; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio».
In particolare, la ricorrente deduce che il giudice d’appello avrebbe erroneamente motivato in ordine alla inammissibilità della documentazione prodotta in sede d’appello, non avendo tenuto conto dei «tempi di formazione della prova» e della circostanza che è ammissibile «il documento formato successivamente rispetto al termine fissato per la produzione».
Ciò in relazione alla «dedotta (e rimarcata) inesistenza del ramo delle onoranze funebri, provato per tabulas , a nulla rilevando una precedente sospensione o meno dell’attività».
1.1. Il motivo è inammissibile.
1.2. Invero, correttamente la Corte d’appello ha ritenuto applicabile alla fattispecie in esame l’art. 345 c.p.c., nella versione successiva al decreto-legge n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012. Tale modifica è applicabile nel caso in cui la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012, come avvenuto nella specie (Cass., sez. 2, 24 ottobre 2023, n. 29506; Cass., sez. 3, 9 novembre 2017, n. 26522).
In effetti, è vero che le preclusioni istruttorie non trovano applicazione per documenti formati successivamente alla scadenza dei termini perentori (Cass., sez. 2, 11 marzo 2022, n. 7977).
Tuttavia, nella specie, la ricorrente non ha indicato in alcun modo quali siano – tra i molteplici documenti prodotti con l’appello -quelli di cui lamenta l’erronea dichiarazione di inammissibilità ex art. 345 c.p.c. da parte della Corte territoriale, in quanto asseritamente «formati» dopo la scadenza dei termini di preclusione di cui all’art. 183 c.p.c., nel giudizio di prime cure.
Tra l’altro, tali documenti, di cui si lamenta l’omesso esame, non sono stati neppure descritti in sintesi nel motivo di ricorso per cassazione, incorrendo la ricorrente nel vizio di mancanza di autosufficienza.
Infatti, per questa Corte il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ex art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., è compatibile con il principio di cui all’art. 6, par. 1, della CEDU, qualora, in ossequio al criterio di proporzionalità, non trasmodi in un eccessivo formalismo, dovendosi, di conseguenza, ritenere rispettato ogni qualvolta l’indicazione dei documenti o degli atti processuali sui quali il ricorso si fondi, avvenga, alternativamente, o riassumendone il contenuto, o trascrivendone i passaggi essenziali, bastando, ai fini dell’assolvimento dell’onere di deposito previsto dall’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., che il documento o l’atto, specificamente indicati nel ricorso, siano accompagnati da un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui siano stati prodotti o formati (Cass., sez. 1, 19 aprile 2022, n. 12481).
Peraltro, non è stato in alcun modo indicato il «fatto storico» il cui esame sarebbe stato omesso, contravvenendo a quella giurisprudenza di legittimità per cui il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non
esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ” ratio decidendi ” venga a trovarsi priva di fondamento (Cass., sez. 3, 26 giugno 2018, n. 16812). Ne consegue che la denuncia in sede di legittimità deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle ragioni per le quali il documento trascurato avrebbe senza dubbio dato luogo a una decisione diversa.
La sentenza penale di primo grado – cui pare riferirsi il ricorrente – non è definitiva, ma oggetto di gravame (tanto più che è stata riformata in sede di appello, come risulta dalla memoria di NOME COGNOME), mentre la ricorrente avrebbe dovuto indicare i fatti storici, portati dai singoli documenti prodotti in appello, da cui potevano ricavarsi fatti storici, il cui esame sarebbe stato omesso.
Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della «violazione o falsa applicazione di norme di diritto; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio».
La ricorrente contesta l’affermazione della Corte territoriale per cui, in caso di società in accomandita semplice, l’azione per i danni subiti dalla società deve essere proposta dal socio accomandatario, e non dal socio accomandante, al quale sono riservati solo «rimedi interni».
In particolare, la ricorrente si chiede «se l’instaurazione dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore avrebbe poi comportato la declaratoria di nullità dell’atto di cessione d’azienda».
Evidenzia che anche un’eventuale «sollecitazione» di assemblea da parte del socio accomandante, titolare del solo
49% del capitale sociale, non avrebbe potuto sortire i risultati sperati, mentre l’unico modo per ottenere la declaratoria di nullità dell’atto di cessione era «l’esercizio dell’azione generale di nullità in materia contrattuale».
Tra l’altro, il tribunale di Lecce aveva condannato NOME COGNOME per infedeltà patrimoniale, anche se con sentenza non ancora passata in giudicato, sicché «ciò che di obiettivo vi è in un tale provvedimento non può non essere valorizzato in merito alla motivazione dal giudice civile», essendosi formato tale documento in data successiva alla scadenza dei termini perentori di cui all’art. 183 c.p.c.
Il tribunale penale aveva dato atto che «lo strumento giuridico a cui (ha) fatto ricorso l’imputato è stato adoperato al solo fine di svuotare la società che aveva in comune con la cugina, indirizzando gli unici settori che avrebbero potuto generare un guadagno verso la società del fratello».
2.1. Il motivo è inammissibile.
2.2. Invero, la Corte d’appello ha con chiarezza rilevato che, per giurisprudenza costante di legittimità, nelle società in accomandita semplice, il socio accomandante può far valere il suo interesse al potenziamento ed alla conservazione del patrimonio sociale esclusivamente con strumenti interni, quali l’azione di responsabilità contro il socio accomandatario, la richiesta di estromissione di quest’ultimo per gravi inadempienze, l’impugnativa del rendiconto, o la revoca per giusta causa dell’amministratore, mentre non era «legittimato ad agire nei confronti dei terzi per far annullare o dichiarare nulli i negozi intercorsi tra questi ultimi e la società, non sussistendo un interesse proprio del socio accomandante, autonomo e
distinto rispetto a quello della società» (Cass., sez. 2, 7 settembre 2016, n. 17691).
Ciò valeva sia con riferimento alla richiesta di dichiarare la nullità del contratto di cessione di ramo d’azienda, con la reintegrazione del medesimo ramo d’azienda alla società cedente, sia in relazione ai danni arrecati alla società in accomandita semplice, sia in relazione alla richiesta di condanna di NOME COGNOME per violazione del divieto di concorrenza ex art. 2301 c.c. (per l’applicazione dell’art. 2301 c.c. ai soci accomandatari vedi Cass., sez. 1, 24 maggio 2016, n. 10715).
La motivazione della sentenza d’appello è perfettamente conforme all’orientamento di legittimità (anche Cass., 25 febbraio 2009, n. 4579; Cass., 7 gennaio 2000, n. 82; Cass., 15 novembre 1999, n. 12615), per cui il motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile ex art. 360bis c.p.c.
Invero, per questa Corte, a sezioni unite, in tema di ricorso per cassazione, lo scrutinio ex art. 360bis , n. 1, c.p.c., da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334, comma 2, c.p.c., sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti” (Cass., Sez.U., 21 marzo 2017, n. 7155).
Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della «violazione e falsa applicazione di norme di diritto, con riferimento all’art. 75, c.p.p.».
Avrebbe errato la Corte territoriale nel reputare la rinunzia implicita alla domanda di danni proposta dall’attrice, trasferita in sede penale.
Per la ricorrente per potersi avere il «trasferimento» dell’azione civile nel processo penale il giudice deve riscontrare che la causa petendi sia la medesima.
Nella specie, il giudice civile avrebbe errato nell’applicazione della legge perché «la pronuncia circa il reato di infedeltà patrimoniale non comporta la declaratoria di nullità dell’atto di cessione del ramo d’azienda e di quant’altro è stato chiesto accertarsi e dichiararsi al giudice civile, sanzionando solo la condotta criminosa posta in essere dal reo».
Il giudice civile, poi, in caso di trasferimento dell’azione in sede penale non può decidere sulle spese del giudizio ex art. 75, primo comma, c.p.p.
3.1. Il motivo è inammissibile.
In realtà, la ricorrente non ha colto la ratio decidendi della motivazione della sentenza pronunciata dal Corte territoriale.
Il giudice d’appello, infatti, ha ritenuto che l’attrice avesse trasferito in sede penale esclusivamente la domanda di danni subiti dalla stessa «in proprio», e segnatamente il danno «non patrimoniale», mentre le altre azioni relative alla declaratoria di nullità del contratto di cessione di ramo d’azienda, alla condanna dei convenuti al risarcimento dei danni subiti dalla società in accomandita semplice e la condanna di NOME COGNOME ai sensi dell’art. 2301 c.c., per violazione del divieto di concorrenza, sono
rimaste tutte nell’ambito del giudizio civile e non sono state trasferite nel processo penale.
Di qui l’inconsistenza del motivo di ricorso per cassazione, che evoca in modo inappropriato «la declaratoria di nullità dell’atto di cessione del ramo d’azienda», azione che la Corte territoriale avrebbe ritenuto trasferita anch’essa in sede penale.
Invero, per questa Corte la proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al ” decisum ” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 n.4) c.p.c., con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (Cass., sez. 6-1, 7 settembre 2017, n. 20910).
Il riferimento della ricorrente alle spese del giudizio non coglie nel segno, in quanto la Corte d’appello ha applicato l’art. 75, primo comma, c.p.p., esclusivamente per la domanda di danni «in proprio» di NOME COGNOME – unica domanda trasferita in sede penale -, mentre sono rimaste dinanzi al giudice civile tutte le altre domande, per le quali la COGNOME è rimasta soccombente.
Tra l’altro la pronuncia sulle spese di lite non è stata oggetto di ricorso per cassazione.
4.Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione e falsa applicazione di norme di diritto; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti; motivazione meramente apparente».
In particolare, la Corte di appello erroneamente avrebbe ritenuto sussistente la sospensione dell’attività di onoranze funebri «in aperto contrasto con la motivazione resa dal tribunale penale di Lecce».
Il giudice d’appello, in violazione «degli articoli 115 e 116, c.p.c.», ha affermato che l’attività di onoranze funebri «al di là
della SCIA presentata dal COGNOME NOME, non sarebbe stata riattivata a causa della condotta posta in essere da COGNOME NOME – che non avrebbe riconsegnato i beni strumentali, carro funebre e furgoncino trasporto fiori e suppellettili per funerali – impedendone di fatto l’esercizio».
Ciò è stato affermato benché fosse stato dimostrato « per tabulas che COGNOME NOME non aveva presentato alcuna SCIA», ma si era «limita a produrre il provvedimento di rigetto di una richiesta di autorizzazione retrodatata quanto all’efficacia». Inoltre, COGNOME NOME era stato assolto nel processo penale per appropriazione indebita, come da sentenza n. 399 delle 4/3/2020.
Sul punto, invece, il tribunale penale di Lecce ha affermato che il ramo di onoranze funebri della RAGIONE_SOCIALE non è stato mai riattivato, tanto che «dopo la proposizione della relativa domanda, nell’ottobre del 2013, il legale rappresentante (COGNOME ) non si è mai interessato di produrre la documentazione necessaria al fine di ottenere l’evasione della stessa». Inoltre, ciò era «tanto più incomprensibile, in considerazione della circostanza che nel dicembre dello stesso anno la parte civile aveva ottenuto in custodia i beni per cui è processo, sicché logica avrebbe voluto che egli si fosse immediatamente riattivato, una volta ottenuti i tanto agognati e indispensabili mezzi. Al contrario, risulta per tabulas che egli, nell’aprile 2014 ha venduto il carro funebre Mercedes».
Inoltre, NOME COGNOME avrebbe provato che la proprietà dei veicoli «era in realtà in capo alla sua persona», mentre vi era solo una fittizia intestazione a favore della RAGIONE_SOCIALE
4.1. Il motivo è inammissibile.
4.2. Anzitutto, si evidenzia che la motivazione della sentenza della Corte d’appello è presente, non solo graficamente, ma nello svolgimento dell’iter logico-giuridico utilizzato per giungere alla soluzione della controversia.
Pertanto, non può in alcun modo essere accolto il motivo relativo alla sussistenza di una motivazione meramente apparente.
Inoltre, in relazione alla porzione della motivazione della sentenza della Corte d’appello, che inizia con il titoletto «merito», deve evidenziarsi che in questo paragrafo viene affrontata la domanda di NOME COGNOME relativa alla dichiarazione, ex art. 2286 c.c., dell’esclusione dalla società del socio accomandatario, in base al rimando interno di cui all’art. 2315, primo comma, c.c., e ciò per gravi inadempienze.
Non può non rilevarsi, però, che si è in presenza di una «doppia decisione conforme», fondata sulle stesse ragioni, sicché trova applicazione l’art. 348ter c.p.c., nella versione applicabile ratione temporis , a seguito del d.l. n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012, applicabile ai giudizi di impugnazione introdotti a decorrere dall’11 settembre 2012 (Cass., sez. 1, 22 dicembre 2016, n. 26774), con la connessa limitazione alla proposizione del ricorso per cassazione solo per i motivi di cui ai numeri 1), 2), 3) e 4), con esclusione del n. 5 dell’art. 360, primo comma, c.p.c.
È sufficiente osservare che il giudice di prime cure aveva già escluso qualsiasi responsabilità del socio accomandatario NOME COGNOME nella cessione del ramo d’azienda relativo ai servizi cimiteriali in favore della RAGIONE_SOCIALE
Infatti, il tribunale aveva sottolineato «il ruolo svolto da COGNOME NOME, padre dell’attrice, che, pur non essendo parte
del processo e apparentemente soggetto estraneo alla lite, era comunque coinvolto nelle diverse questioni controverse».
Inoltre, quanto alla sospensione dell’attività di onoranze funebri, a seguito della legge regionale n. 34 del 2008, il giudice di prime cure ha rilevato «che la COGNOME avev sottaciuto la circostanza – emergente dagli atti – che l’attività di onoranze funebri, oggetto di cessione, era già stata di fatto sospesa, e che la cessione aveva riguardato solo l’attività di servizi cimiteriali, e non anche quella di onoranze funebri, sicché la cessione era astrattamente legittima, anche in considerazione della impossibilità ex lege di esercitare per un’unica società entrambe le attività».
Il tribunale ha anche sottolineato che la RAGIONE_SOCIALE aveva «il possesso dei necessari beni strumentali» e che una delle motivazioni della cessione del ramo d’azienda relativo ai servizi cimiteriali era che la società «fosse pacificamente in crisi», sicché «appariva verosimile che la cessione fosse stata dettata anche dalla esigenza di ripianare i conti della società stessa».
Il giudice di prime cure ha anche puntualizzato che il potere di cedere il ramo d’azienda era in capo al socio accomandatario, senza il consenso dell’accomandante, «in base a precise disposizioni statutarie».
Da ultimo, il tribunale ha indicato quale causa della difficoltà per la RAGIONE_SOCIALE di riprendere l’attività di onoranze funebri, prima sospesa, la condotta di COGNOME NOME, cui erano stati dati i beni strumentali in comodato, senza che questi li restituisse («trattenuti da COGNOME NOME»).
Come si vede, la motivazione della sentenza del tribunale corrisponde esattamente a quella della Corte d’appello, la quale
ha ritenuto che le circostanze dedotte da NOME COGNOME, connesse alla cessione del ramo d’azienda, «non sono state provate in giudizio, perché effettivamente la cessione del ramo di attività riguardante i servizi cimiteriali consentiva alla società -pacificamente in crisi – di svolgere l’attività di onoranze funebri, non solo concentrando le risorse, e liberandola dalla esposizione debitoria, ma soprattutto consentendo alla RAGIONE_SOCIALE di partecipare ad appalti pubblici, cosa che sarebbe stata preclusa, invece, ove la società avesse continuato a svolgere la doppia attività».
Inoltre, la Corte territoriale reitera l’affermazione per cui «l’attività di onoranze funebri rimasta alla RAGIONE_SOCIALE, già prima della cessione era di fatto sospesa, tant’è che i beni strumentali necessari per tale attività erano stati dati in comodato al COGNOME NOME, sicché la impossibilità di svolgere, dopo la cessione, l’attività di onoranze funebri e la inattività derivata è conseguenza non già della cessione del ramo d’azienda (di servizi cimiteriali), ma è ricollegabile piuttosto alla difficoltà di riprendere tale attività di onoranze funebri, per il cui avvio il NOME aveva pure già presentato la SCIA», mentre vi era stata «la condotta ostruzionistica del COGNOME NOME, padre della COGNOME NOME, il quale, ricevuti gli strumenti dell’attività in comodato, non ha provveduto, nonostante la richiesta in tal senso, a riconsegnarli alla società, impedendone di fatto ogni attività».
La Corte d’appello, proseguendo nella motivazione, ha confermato che la situazione di inattività del ramo d’azienda relativo alle onoranze funebri era dovuta al «pregresso grave indebitamento della RAGIONE_SOCIALE – ammesso dalla stessa COGNOME NOME – che impediva comunque alla società, anche in virtù della LR 34/2008, di operare – anche – nel settore cimiteriale (poi ceduto)».
Peraltro, nell’ipotesi di «doppia conforme», prevista dall’art. 348ter , comma 5, c.p.c., il ricorso per cassazione proposto per il motivo di cui al n. 5) dell’art. 360 c.p.c. è inammissibile se non indica le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass., sez. 3, 28 febbraio 2023, n. 5947). Ciò non ha fatto la ricorrente.
Ricorre, poi, l’ipotesi di «doppia conforme», ai sensi dell’art. 348ter , commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (Cass., sez. 6-2, 9 marzo 2022, n. 7724).
Anche con riferimento alla dedotta violazione di legge, la ricorrente non indica in alcun modo le eventuali norme di legge asseritamente violate.
Neppure è indicato l’omesso esame di un fatto storico decisivo, il cui esame sarebbe stato omesso da parte del giudice di merito.
Le spese del giudizio di legittimità, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico della ricorrente si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente a rimborsare in favore di NOME COGNOME, in proprio e quale socio accomandatario della RAGIONE_SOCIALE, le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 7.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, oltre Iva e cpa.
Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della RAGIONE_SOCIALE le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 7000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, oltre Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 9 maggio