Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 25715 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 25715 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/09/2025
SENTENZA
sul ricorso 23466/2024 proposto da:
-ricorrente-
contro
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1595/2024 della Corte d’Appello di Roma, pubblicata in data 23.4.2024, N.R.G. 3175/2022;
udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 03/07/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
udito il P .M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.NOME COGNOME già dipendente della RAGIONE_SOCIALE società integralmente partecipata dalla Città Metropolitana di Roma ed affidataria in house di servizi e transitata il 31.1.2019 alla società a partecipazione regionale RAGIONE_SOCIALE ha agito nei confronti della originaria datrice di lavoro rivendicando il diritto alle differenze retributive maturate dal marzo 2015 al febbraio 2018 in ragione delle spettanze quali previste dal CCNL (privatistico) del terziario e derivanti dal rinnovo di esso.
La Corte d’Appello di Roma, riformando solo parzialmente la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva riconosciuto il diritto della ricorrente, ha limitato l’accoglimento al periodo dal 1.1.2016 al 28.2.2018.
Essa ha argomentato richiamando Corte Costituzionale 23 luglio 2015, n. 178 e quanto ivi ritenuto in ordine al blocco stipendiale e della contrattazione stabilito dall’art. 9 (co. 1 e 17), del d.l. n. 78/2010, blocco stipendiale poi esteso al 31.12.2014 dal d.p.r. 122/2013, mentre la sospensione della contrattazione era stata prorogata fino al 31.12.2015 dalla legge n. 190/2014.
La Corte d’Appello ha richiamato i principi di equilibrio di bilancio, rilevanti ai sensi dell’art. 81 Cost., che avevano orientato la Corte Costituzionale a ritenere legittime le misure di blocco, nel frangente di crisi in cui esse erano state assunte, ma anche la declaratoria di illegittimità costituzionale, a far data dalla pubblicazione della pronuncia della Consulta, delle norme di ulteriore proroga del blocco della contrattazione.
La Corte territoriale ha ritenuto, in sostanza, che analogo regime di blocco, poi rimosso dalla declaratoria di illegittimità costituzionale con effetto a venire, dovesse valere anche per le società partecipate, in quanto la disciplina riguardava la
contrattazione collettiva del pubblico impiego, inteso nella sua interezza.
Da ciò ha desunto l’illegittimità del rifiuto di riconoscere gli adeguamenti conseguenti all’evolversi dei trattamenti di cui al CCNL di diritto privato avutisi nel corso dell’anno 2015, rifiuto che la Corte territoriale, in ragione della dichiarata illegittimità costituzionale, ha ritenuto ingiustificato nella specie a partire dal 1.1.2016, ossia a decorrere dal termine del blocco delle retribuzioni e fino al 28.2.2018, data quest’ultima su cui erano state calibrate le domande giudiziali.
In proposito la Corte d’Appello ha escluso che potessero operare le misure di salvaguardia dei costi del lavoro previste per le società partecipate dal d. lgs. n. 175 del 2016, art. 19, perché esse prevedevano provvedimenti datoriali da recepire nella contrattazione di secondo livello, anche in ipotesi in senso peggiorativo, che era però mancata, non essendo dato riscontrare alcun contratto collettivo di tal fatta.
Capitale Lavoro ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi, di cui il secondo articolato in due punti.
La lavoratrice ha resistito con controricorso.
Il Pubblico Ministero ha depositato requisitoria con la quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso ed in senso analogo ha poi insistito nel corso dell’udienza pubblica.
Sono in atti memorie di ambo le parti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo del ricorso adduce la « Violazione e falsa applicazione dell’art. 19 commi 5 e 6 D.Lgs. n. 175/2016 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. Errata interpretazione sentenza Corte Costituzionale n. 178/2015 ».
Con il motivo la ricorrente evidenzia come erroneamente la Corte d’Appello avesse ritenuto che dalla pronuncia della Corte
Costituzionale si potesse evincere che il mancato adeguamento all’evolversi dei trattamenti retributivi di cui al CCNL di diritto privato applicabile fosse tale, seppure a far data dal 1.1.2016, da violare i principi di proporzionalità e sufficienza di cui all’art. 36 Cost., e ciò in quanto la Consulta aveva rilevato soltanto il contrasto con l’art. 39 Cost. della disciplina di blocco della contrattazione e non l’insufficienza delle retribuzioni nel pubblico impiego nel periodo interessato, anzi espressamente ritenuta insussistente, sicché un effetto in tal senso per il periodo dopo il 1.1.2016, si sarebbe potuto avere non in automatico, ma solo ove fosse stata fornita prova dell’inadeguatezza dei trattamenti retributivi praticati, profilo sul quale però la Corte territoriale non aveva svolto alcuna complessiva valutazione.
Il secondo motivo è rubricato come « Violazione di legge. Violazione di legge. Erronea interpretazione dell’art. 19 commi 5 e 6 D.Lgs. n. 175/2016 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. alla luce dei principi normativi e giurisprudenziali in materia di controllo analogo ».
Il motivo è articolato in due parti.
Nella prima parte di esso la società ricorrente afferma che la riduzione degli oneri contrattuali non richiede necessariamente il recepimento della contrattazione di secondo livello e sostiene che l’inciso « ove possibile » contenuto -al comma 5 ( rectius , comma 6) – nella norma di cui alla rubrica sarebbe da intendere nel senso che, anche qualora l’accordo con le organizzazioni sindacali non dovesse essere raggiunto, occorrerebbe dare prevalenza al necessario rispetto degli obiettivi posti dall’ente controllante. Secondo la ricorrente, la particolare condizione delle società partecipate con operatività in house imporrebbe l’invariabilità delle spese generali, tra cui quelle del personale, che costituiscono la voce più rilevante dei costi fissi, al fine di assicurare che gli oneri economici per l’ente controllante si mantengano al disotto del
valore di libero mercato ed evitare uno sforamento destinato a tradursi in un sostanziale aggravio per i bilanci del socio pubblico.
Nella seconda parte del motivo la ricorrente richiama i principi sanciti da questa S.C., oltre che alla giurisprudenza amministrativa, in tema di c.d. controllo analogo, evidenziando l’assenza di autonomia degli organi societari rispetto agli indirizzi dell’ente controllante, da ritenere in termini di vera e propria subordinazione gerarchica.
Il motivo, dopo avere fatto riferimento anche alle norme regolamentari ed alle previsioni di legge sui piani degli obiettivi, evidenzia come questi ultimi sin dal 2016 non prevedessero alcuna voce destinata al riconoscimento di voci retributive aggiuntive e menziona gli indirizzi impartiti dalla P.A. committente con lettera del 24.10.2018, in termini di contenimento dei costi, secondo una linea previamente sollecitata, anche al fine di rispettare gli indirizzi della giurisprudenza contabile, già in una precedente comunicazione di RAGIONE_SOCIALE alla controllante Città metropolitana di Roma Capitale.
L’eccezione di inammissibilità contenuta nel controricorso e finalizzata a far constare che esso avrebbe avuto il fine di proporre un diverso accertamento nel merito è infondata, in quanto il ricorso pone questioni giuridiche, denunciando la violazione di specifiche norme interne e comunitarie.
I motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente, data la loro stretta connessione e presupponendo essi la ricostruzione complessiva dell’assetto giuridico della fattispecie.
Questa S.C. non ha mai dubitato che la disciplina dei rapporti di lavoro con le società partecipate da enti pubblici, ivi comprese le società destinate alla gestione c.d. in house di servizi pubblici, sia quella comune ai rapporti di lavoro quali regolati dal codice civile e dalle regole sul lavoro privato e che anche la contrattazione
collettiva di riferimento sia quella privatistica, e non quella regolata dal d.lgs. n. 165 del 2001.
Ciò è ora sancito espressamente dal d. lgs. n. 175 del 2016, non solo con la previsione generale (art. 1, co. 3) secondo cui « per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato », ma anche, con riferimento ai rapporti di lavoro, con la specifica statuizione (art. 19, co. 1) per cui « salvo quanto previsto dal presente decreto, ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico si applicano le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, e dai contratti collettivi ».
Conclusioni analoghe sono state peraltro assunte anche per i periodi antecedenti a tali previsioni normative.
Come spiegato da Cass. 1 dicembre 2022, n. 35421, le « Sezioni Unite di questa Corte da tempo hanno affermato che la partecipazione pubblica non muta la natura di soggetto privato della società, la quale resta assoggettata al regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato, salve specifiche disposizioni di segno contrario o ragioni ostative di sistema che portino ad attribuire rilievo alla natura pubblica del capitale impiegato e del soggetto che possiede le azioni della persona giuridica (cfr. fra le tante Cass. S.U. n. 29078/2019, Cass. S.U. n. 21299/2017, Cass. S.U. n. 7759/2017, Cass. S.U. n. 26591/2016) ».
Ivi poi aggiungendosi che « l’orientamento espresso, condiviso dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stat. Ad. Plen. n. 10/2011), è stato fatto proprio dal legislatore che già con l’art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, nel testo risultante all’esito della conversione disposta dalla legge n. 135 del 2012, aveva
previsto, con norma dichiarata espressamente di interpretazione autentica, che «le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali ».
5. In tale quadro di fondo si innestano rigorosi allineamenti alla disciplina comune di diritto civile, con distanziamenti netti dal sistema del pubblico impiego, come è per la ritenuta piena applicabilità dell’art. 2103 c.c. in tema di mansioni superiori (Cass. 1 settembre 2023 n. 25590; Cass. 35421/2022, cit.), ma anche varianti rispetto agli schemi puramente privatistici, espressamente previste dalla normativa (in tema di reclutamento e di conferimento di incarichi dirigenziali, v. art. 18, co. 1, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con mod., in legge n. 133 del 2008 -su cui v. Cass. 14 settembre 2022, n. 27126 e poi, in tema di reclutamento, art. 19, co. 2 del d. lgs. n. 175 del 2016).
Lo schema di fondo è peraltro comunque quello privatistico e solo se previsto esplicitamente dalle norme può ammettersi che vi siano scostamenti, perdendo altrimenti di senso giuridico la gestione dell’attività, seppure di interesse pubblico, con strumenti societari.
6 . Ricostruendo l’evolversi della disciplina si rileva quindi che l’art. 18, co. 2 -bis del d.l. n. 112 cit., nel testo introdotto con d.l. n. 78 del 2009, conv., con mod., in legge. n. 102 del 2009, ha previsto che le società partecipate non destinate ad attività di carattere industriale o commerciale ed in particolare le partecipate c.d. in house -ovverosia che « siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara » – « adeguano … le proprie politiche di personale alle disposizioni vigenti per le amministrazioni controllanti in materia di contenimento degli oneri contrattuali e
delle altre voci di natura retributiva o indennitaria e per consulenze ».
Ciò ha giustificato il fatto che, nel vigore di tale previsione, si sia ritenuta l’invalidità di una clausola negoziale di riconoscimento di un superminimo e quindi un trattamento non previsto dalla contrattazione collettiva (Cass. 27 novembre 2024, n. 30578), sul presupposto che la norma primaria realizzasse l’estensione ai rapporti di lavoro con tali società dei « principi che presiedono alla corresponsione della retribuzione nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato, vietando il riconoscimento di trattamenti economici diversi da quelli stabiliti dalla contrattazione collettiva ».
6.1. Di seguito, la normativa ha conosciuto una evoluzione in senso diverso.
Per effetto delle modifiche apportate con l’art. 1, co. 557 della legge n. 147 del 2013, il co. 2bis , cit., è mutato, con riferimento ai trattamenti economici del personale, nel senso che alle società partecipate -oltre che ad altre entità che qui non interessano – « si applicano, altresì, le disposizioni che stabiliscono, a carico delle rispettive pubbliche amministrazioni locali, obblighi di contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitaria e per consulenze, attraverso misure di estensione al personale dei soggetti medesimi della vigente normativa in materia di vincoli alla retribuzione individuale e alla retribuzione accessoria. A tal fine, su atto di indirizzo dell’ente controllante, nella contrattazione di secondo livello è stabilita la concreta applicazione dei citati vincoli alla retribuzione individuale e alla retribuzione accessoria, fermo restando il contratto nazionale di lavoro vigente alla data di entrata in vigore della presente disposizione. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 76, comma 7, del presente decreto, le società che gestiscono servizi pubblici locali a rilevanza economica sono escluse dall’applicazione diretta dei vincoli previsti dal presente articolo. Per queste società, l’ente locale controllante,
nell’esercizio delle prerogative e dei poteri di controllo, stabilisce modalità e applicazione dei citati vincoli assunzionali e di contenimento delle politiche retributive, che verranno adottate con propri provvedimenti ».
Quindi, con le successive modifiche apportate dall’art. 4, co. 12 -bis del d.l. n. 66 del 2014, conv. con mod. in legge n. 89 del 2014, si è ribadito che le società partecipate « si attengono al principio di riduzione dei costi del personale, attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale », stabilendosi altresì che « A tal fine l’ente controllante, con proprio atto di indirizzo, tenuto anche conto delle disposizioni che stabiliscono, a suo carico, divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, definisce, per ciascuno dei soggetti di cui al precedente periodo, specifici criteri e modalità di attuazione del principio di contenimento dei costi del personale, tenendo conto del settore in cui ciascun soggetto opera. Le aziende speciali, le istituzioni e le società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo adottano tali indirizzi con propri provvedimenti e, nel caso del contenimento degli oneri contrattuali, gli stessi vengono recepiti in sede di contrattazione di secondo livello fermo restando il contratto nazionale in vigore al 1º gennaio 2014 ».
Il testo è stato quindi ulteriormente modificato con l’art. 3, co. 5-quinquies del d.l. n. 90 del 2014, conv. con mod in legge n. 114 del 2014, nel senso che « Le aziende speciali, le istituzioni e le società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo si attengono al principio di riduzione dei costi del personale, attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale. A tal fine l’ente controllante, con proprio atto di indirizzo, tenuto anche conto delle disposizioni che stabiliscono, a suo carico, divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, definisce, per ciascuno dei soggetti di cui al precedente periodo, specifici criteri e modalità di attuazione del principio di
contenimento dei costi del personale, tenendo conto del settore in cui ciascun soggetto opera. Le aziende speciali, le istituzioni e le società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo adottano tali indirizzi con propri provvedimenti e, nel caso del contenimento degli oneri contrattuali, gli stessi vengono recepiti in sede di contrattazione di secondo livello ».
L’art. 18 , co. 2-bis, è stato poi modificato dal d. lgs. n. 175 del 2016, e la disciplina del tema, quanto alle società partecipate, è confluita nell’art. 19, co. 5 e 6 dello stesso d.lgs.
A tale comma 5 è stato previsto – per quanto qui interessa – che « le amministrazioni pubbliche socie fissano, con propri provvedimenti, obiettivi specifici, annuali e pluriennali, sul complesso delle spese di funzionamento, ivi comprese quelle per il personale, delle società controllate, anche attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale ».
Al comma 6 si è invece stabilito che « le società a controllo pubblico garantiscono il concreto perseguimento degli obiettivi di cui al comma 5 tramite propri provvedimenti da recepire, ove possibile, nel caso del contenimento degli oneri contrattuali, in sede di contrattazione di secondo livello ».
6 .2 Nell’interpretare la normativa sopra citata e già con riferimento al testo dell’art. 18, co.2 -bis quale vigente in esito alle modifiche apportate con il d.l. n. 66 del 2014 cit., ma con estensione del ragionamento al testo dell’art. 19, co. 5 e 6 citt., questa S.C. ha evidenziato alcuni tratti caratterizzanti del sistema.
In particolare, secondo Cass. 27 settembre 2023, n. 27466, argomentata richiamando anche i principi di Cass. 35421/2022, cit., il « chiaro tenore letterale dell’art. 19, quinto comma, d.lgs. 175/2016, analogamente a quanto stabilito dal previgente art. 18, comma 2bis d.l. 118/2008 conv. con mod. in legge n. 133/2008 (come sostituito dall’art. 4, comma 12 bis d.l. 66/2014 conv. con
mod. in legge n. 89/2014), il legislatore abbia fissato una regola di comportamento per gli amministratori delle partecipate, incidente sul rapporto che si instaura fra il socio pubblico e la società, potenziale fonte di responsabilità, eventualmente anche erariale; senza, tuttavia, che da quell’obbligo si possa inferire la nullità degli atti adottati dalla società in violazione delle direttive date dal socio pubblico, non avendo il legislatore previsto un meccanismo analogo a quello adottato per l’impiego pubblico contrattualizzato ».
Concludendosi quindi, in quella sede, per l’impossibilità di ritenere legittima la revoca unilaterale di un superminimo riconosciuto in sede negoziale.
Dal quadro normativo sopra delineato discendono evidenti conseguenze giuridiche, in piena continuità e sviluppo dei principi interpretativi già espressi da questa S.C., e sopra riepilogati.
L’impossibilità per la società o l’ente controllante di intervenire unilateralmente rispetto ad un superminimo attribuito in sede di contrattazione individuale, neanche sotto il profilo del rifiuto di dare esecuzione alla clausola, sta a significare non solo che non vi è nullità, ma anche che i diritti riconosciuti dalle fonti regolative del rapporto non sono derogabili dalla parte datoriale.
E così come non lo è il contratto individuale che riconosca certi benefici, anche la contrattazione collettiva non può essere superata, se non con le forme previste dalla normativa stessa, che richiama appunto -a partire dal testo dell’art. 18, co. 2 -bis conseguente all’art. 1, co. 557 della legge n. 147 del 2013 – la necessità che la revisione dei costi sia assecondata da contrattazione di secondo livello.
Il che, al di là di varianti nella formulazione che non appaiono tali da modificare il senso della normativa, è rimasto tratto caratterizzante anche nelle successive modifiche dell’art. 18, co. 2 -bis, cit. e del successivo art. 19, co. 6, del d. lgs. n. 175 del 2016, cit.
È quindi solo la contrattazione di secondo livello a poter disporre in senso riduttivo di diritti economici precedentemente riconosciuti.
Del resto, il richiamo delle norme citate a tale contrattazione sarebbe sostanzialmente inutile, se a disporre in senso derogatorio bastassero atti unilaterali del datore di lavoro o dell’ente controllante.
Ed anzi, tenuto conto che la contrattazione in ambito di lavoro privato – a cui si assimila il lavoro alle dipendenze delle partecipate -è parametro di valutazione della adeguatezza e sufficienza della retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost., non sarebbe facile avallare tout court l’esistenza di poteri unilaterali riduttivi in capo al datore di lavoro o di chi per esso.
Il sistema va invece inteso in una logica diversa, non sconosciuta alla pregressa giurisprudenza di legittimità proprio in tema di art. 36 Cost. (Cass. 31 gennaio 2012, n. 1415; Cass. 20 settembre 2007, n. 19467), da allineare all’opportunità che, in situazioni eccezionali in cui si manifesti l’esigenza di riduzione dei costi, sia proprio la contrattazione di prossimità, in presenza di idonea rappresentatività, ad essere abilitata ad intervenire in proposito; d’altra parte, è evidente la possibile concretezza di un interesse dei lavoratori nel loro insieme ad una contrattazione che, riducendo i costi, possa servire a seriamente realizzare l’obiettivo di evitare interventi riduttivi del personale.
7.1. Nella logica quale sopra ricostruita assume poi un senso anche l’inciso, contenuto nell’art. 19, co. 6, in ordine al fatto che « ove possibile » i provvedimenti finalizzati a ridurre i costi siano da recepire nella contrattazione di secondo livello.
Infatti, ritenere che quest’ultima contrattazione sia soltanto eventuale priverebbe la norma di una portata giuridica propria, perché, se la riduzione fosse ammessa in via unilaterale, non vi
sarebbe necessità di richiamare l’ipotesi del recepimento nella contrattazione.
L’inciso si spiega invece nella logica, di cui a Cass. 27466/2023 e Cass. 35421/20922, citt., secondo cui le norme impongono agli amministratori di tenere certi comportamenti finalizzati alla riduzione dei costi e dunque mirati a fare in modo che la contrattazione di secondo livello recepisca le misure in tal senso da essi adottate.
Ciò, però « ove possibile », nel senso che nessuna responsabilità, per il solo fatto che ciò non avvenga, potrebbe essere addebitata agli amministratori che si siano attivati in tal senso, pur senza ottenere il risultato, non coercibile, dell’accordo in sede sindacale e fermo restando l’obbligo di perseguire altrimenti i risparmi da realizzare, così come, in ipotesi, ferma la responsabilità di chi abbia cagionato eccessi di spesa precedentemente posti in essere in violazione delle regole di buona amministrazione.
7.2. Quanto sopra porta ad escludere la fondatezza dei motivi di ricorso nella parte in cui essi intenderebbero attribuire rilievo ad indirizzi unilaterali dell’ente controllante o degli amministratori della partecipata, perché quanto conta è che non vi siano stati gli accordi di secondo livello, che soltanto avrebbero potuto comportare deroghe ai diritti economici spettanti ai lavoratori secondo le fonti regolative del rapporto fino ad allora in essere.
Quanto dibattuto in causa va tuttavia misurato anche rispetto alla normativa sul c.d. blocco retributivo e contrattuale.
8 .1 L’art. 9, co. 1, del d.l. n. 78 del 2010, conv. con mod. in legge n. 122 del 2010, ha stabilito il blocco retributivo per gli anni 2011, 2012 e 2013, con riferimento alle « amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 ».
Il blocco è stato poi prorogato fino al 31.12.2014 dall’art. 1, co.1, lett. a) del d.p.r. n. 122 del 2013, emanato in attuazione di quanto previsto dall’articolo 16, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111.
Contestualmente, l’art. 4, co. 11 del d.l. n. 95 del 2012, conv., in legge n. 135 del 2012, ha previsto, per le « società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, che abbiano conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento dell’intero fatturato » (art. 4, co. 1, del citato d.l. n. 95) che « a decorrere dal 1° gennaio 2013 e fino al 31 dicembre 2014 il trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti delle società di cui al comma 1, ivi compreso quello accessorio, non può superare quello ordinariamente spettante per l’anno 2011 ».
Capitale Lavoro in sé non rientra nell’elenco Istat citato, né possono avere corso in sede di legittimità valutazioni su atti di bilancio al fine di avallare ricostruzioni in fatto destinate a comprovare la ricorrenza delle condizioni di ‘consolidamento’ che potrebbero comportare l’estensione alla ricorrente di quegli effetti.
Analogamente, non può svolgersi in sede di legittimità una valutazione rispetto al rientrare di Capitale Lavoro nell’ambito dei requisiti di fatto di cui alle disposizioni dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 sopra citato.
8.2. Al di là di quanto appena detto, la questione giuridica va in realtà risolta sul piano della disciplina propria dei trattamenti economici del personale delle società partecipate, quale evolutasi a partire dalla legge n. 147 del 2013 e sopra ricostruita.
Richiamando quanto precedentemente argomentato, è chiaro che fino a quegli sviluppi normativi, per effetto del testo allora vigente dell’art. 18, co. 2 -bis del d.l. n. 112 del 2008 cit., le
dinamiche retributive ed i vincoli rispetto ad esse imposte agli enti controllanti erano destinate ad operare anche per le società controllate, indipendentemente da richiami formali di altre disposizioni successive.
A partire dalla disciplina dell’art. 18, co. 2 -bis cit. quale introdotta della legge n. 147 del 2013 cit. -non a caso contestualmente abrogativa in modo espresso dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 -è l’intero sistema dell’adeguamento dei trattamenti economici dei dipendenti delle partecipate a mutare, secondo i tratti sopra ricostruiti e destinati a porre al centro la contrattazione collettiva di secondo livello come mezzo di adeguamento strutturale, ma rispettoso della natura puramente civilistica del rapporti e della contrattazione collettiva applicabile.
È quindi a questo sistema -in sé tale da superare quanto precedentemente previsto o regolato – che deve farsi riferimento da quel momento storico in poi.
Ne deriva, indipendentemente da altri dati formali, che proprio sul piano sostanziale la normativa di blocco non può dirsi riferibile, in relazione agli incrementi del CCNL di diritto privato maturati nel 2015 e che sono oggetto di causa, ai dipendenti delle società partecipate.
Rispetto ad essi varrebbero semmai accordi di secondo livello che però, come si è detto, non vi sono mai stati.
9 . Da quanto appena detto deriva l’erroneità , per il periodo oggetto di causa, del richiamo a Corte Costituzionale n. 178 del 2015, che ha avuto riguardo al diverso tema del blocco contrattuale rispetto al lavoro presso gli enti pubblici non economici, ai quali soli si riferisce il comma 17 dell’art. 9 d.l. n. 78/2010 , chiaro nel limitare la sospensione della contrattazione al personale di cui agli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 165/2001, dipendente delle amministrazioni pubbliche indicate nell’art. 1 dello stesso decreto. In tal senso questa Corte si è già espressa evidenziando (in fattispecie nella
quale venivano in rilievo rapporti di diritto privato instaurati, in forza di specifica previsione di legge, da amministrazione pubblica) che « si è in presenza di una normativa che, oltre a presupporre la scadenza del contratto collettivo ed il suo mancato rinnovo, coinvolge unicamente la contrattazione dei comparti delle amministrazioni pubbliche e non si può estendere a quella dei settori privati, non rimessa all’iniziativa delle amministrazioni pubbliche e non volta direttamente a disciplinare i rapporti da queste ultime instaurati » (Cass. 27 gennaio 2025 n. 1866).
I motivi di ricorso principale che argomentano su asserite erronee interpretazioni di quella pronuncia sono quindi parimenti da disattendere.
Il ricorso va pertanto rigettato.
La novità e la complessità delle questioni trattate giustificano la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
12 . Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, dell’obbligo, per parte ricorrente, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, il giorno 3 luglio 2025.
Il Consigliere estensore La Presidente NOME COGNOME NOME COGNOME