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Società in house: stipendi e blocco della spesa

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di una società in house che aveva bloccato gli aumenti stipendiali previsti dal contratto collettivo, giustificandosi con i limiti di spesa pubblica. La Corte ha stabilito che i rapporti di lavoro in tali società sono di natura privatistica e che la riduzione dei costi del personale deve avvenire tramite la contrattazione di secondo livello, non con decisioni unilaterali, anche se sollecitate dall’ente pubblico controllante.

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Pubblicato il 12 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Diritto Societario, Giurisprudenza Civile

Società in house: stipendi e blocco della spesa pubblica

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26447/2025, ha affrontato un tema cruciale per il diritto del lavoro nel settore pubblico allargato: il rapporto tra gli obblighi retributivi derivanti da un contratto collettivo e le esigenze di contenimento della spesa che gravano su una società in house. La Suprema Corte ha stabilito un principio chiaro: la natura pubblica del socio non consente alla società di disapplicare unilateralmente gli aumenti contrattuali, anche in presenza di direttive dell’ente controllante.

I Fatti: La Controversia sugli Aumenti Stipendiali

Il caso nasce dal ricorso di alcuni dipendenti di una società per azioni, interamente partecipata da un ente metropolitano, che lamentavano il mancato pagamento degli aumenti dei minimi stipendiali previsti dal rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) del settore Terziario. La società, pur essendo un soggetto di diritto privato, si era difesa sostenendo di essere soggetta, in quanto società in house, alle norme sul contenimento della spesa pubblica e, di conseguenza, a un blocco coattivo delle retribuzioni.

I giudici di primo e secondo grado avevano dato ragione ai lavoratori, condannando la società al pagamento delle differenze retributive maturate. La società ha quindi presentato ricorso in Cassazione, insistendo sulla violazione delle norme che impongono limiti di spesa alle società a controllo pubblico.

L’Analisi della Corte: la Natura Privatistica del Rapporto di Lavoro nella società in house

La Cassazione ha respinto il ricorso, basando la sua decisione su un’analisi approfondita della natura giuridica del rapporto di lavoro nelle società a partecipazione pubblica. I giudici hanno ribadito un orientamento consolidato: anche quando una società è interamente controllata da un ente pubblico, i rapporti di lavoro dei suoi dipendenti sono disciplinati dal diritto privato. Questo significa che si applicano le norme del Codice Civile, le leggi sul lavoro subordinato e, soprattutto, i contratti collettivi.

La partecipazione pubblica, quindi, non trasforma il rapporto di lavoro in un impiego pubblico. Le norme speciali previste per le società controllate, come quelle contenute nel D.Lgs. 175/2016 (Testo Unico sulle società a partecipazione pubblica), non derogano a questo principio fondamentale ma introducono specifici obblighi di gestione per gli amministratori, finalizzati a garantire una sana gestione finanziaria e il perseguimento di obiettivi di contenimento della spesa.

Le Motivazioni: il ruolo della contrattazione di secondo livello

Il cuore della motivazione della sentenza risiede nella corretta interpretazione degli strumenti a disposizione della società in house per contenere i costi del personale. La Corte ha chiarito che la legge (in particolare l’art. 19 del D.Lgs. 175/2016) non autorizza un’azione unilaterale del datore di lavoro o dell’ente controllante per ridurre le retribuzioni o disapplicare un CCNL.

Al contrario, la normativa indica una via precisa: la contrattazione di secondo livello. Gli obiettivi di contenimento della spesa fissati dall’ente pubblico devono essere perseguiti dalla società attraverso un accordo con le organizzazioni sindacali. Le direttive dell’ente pubblico non hanno efficacia diretta sui contratti individuali dei lavoratori, ma costituiscono un mandato per gli amministratori a negoziare soluzioni condivise.

La Corte ha specificato che l’impossibilità di intervenire unilateralmente sui diritti economici dei lavoratori è un principio cardine del sistema. Permettere a un datore di lavoro, anche se a controllo pubblico, di derogare a un contratto collettivo tramite un atto unilaterale svuoterebbe di significato la contrattazione stessa e violerebbe i principi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione tutelati dalla Costituzione. Il cosiddetto “blocco retributivo” previsto per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, inoltre, non è estensibile automaticamente ai dipendenti delle società partecipate, i quali sono soggetti a un regime giuridico distinto e specifico.

Conclusioni: le implicazioni per le società partecipate

La sentenza consolida un principio fondamentale: essere una società in house non conferisce una “licenza” per violare i contratti collettivi. Le esigenze di bilancio e di contenimento della spesa pubblica, per quanto legittime, devono essere armonizzate con i diritti dei lavoratori attraverso gli strumenti propri del diritto del lavoro privato, primo tra tutti il dialogo sindacale e la contrattazione collettiva di secondo livello. Per gli amministratori di queste società, la decisione rappresenta un chiaro monito: la via per la gestione efficiente passa per la negoziazione, non per l’imposizione unilaterale.

Una società in house può rifiutarsi di applicare gli aumenti previsti da un contratto collettivo nazionale (CCNL) invocando limiti di spesa pubblica?
No. Secondo la Corte di Cassazione, il rapporto di lavoro in una società in house è di natura privatistica. Pertanto, la società è tenuta a rispettare gli obblighi derivanti dal CCNL, e le norme sul contenimento della spesa pubblica non ne giustificano la violazione unilaterale.

Le direttive di contenimento dei costi provenienti dall’ente pubblico controllante giustificano il blocco degli stipendi in una società in house?
No. Le direttive dell’ente controllante hanno valore di indirizzo per gli amministratori della società, obbligandoli a perseguire obiettivi di risparmio. Tuttavia, non autorizzano la società a violare i contratti di lavoro. Tali obiettivi devono essere raggiunti attraverso gli strumenti previsti dalla legge, come la contrattazione di secondo livello.

Qual è lo strumento corretto per ridurre il costo del personale in una società a controllo pubblico?
Lo strumento corretto indicato dalla normativa e confermato dalla Cassazione è la contrattazione collettiva di secondo livello. È attraverso l’accordo con le organizzazioni sindacali che la società può recepire le esigenze di contenimento dei costi, trovando soluzioni che modifichino o integrino quanto previsto dal contratto nazionale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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