Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 26339 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 26339 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 29/09/2025
NOME COGNOME;
-intimato – avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1200/2022 pubblicata il 24 marzo 2022.
Oggetto: società in house – blocco stipendiale – direttive controllante – rilevanza
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 14772/2022 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 3 luglio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
lette e udite le conclusioni del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avv. NOME COGNOME della parte ricorrente, che ha concluso per l’accoglimento.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso monitorio proposto il 3 marzo 2019 presso il Tribunale di Roma NOME COGNOME ha esposto che:
era dipendente di RAGIONE_SOCIALE dal 25 febbraio 2008, con inquadramento nel 3° livello impiegatizio del CCNL Commercio Confcommercio e orario di lavoro a tempo parziale nella misura del 90%;
il CCNL aveva previsto dal 1° aprile 2015 l’aumento dei minimi stipendiali secondo una data cadenza;
contro
parte aveva iniziato a corrispondere tali aumenti solo dal 1° marzo 2018, per cui residuava un credito di € 2.437,64.
Ottenuto il richiesto decreto ingiuntivo, RAGIONE_SOCIALE ha proposto opposizione, deducendo che gli arretrati non fossero dovuti in quanto era una società partecipata della Città Metropolitana di Roma Capitale, alla quale l’ente affidava in house lo svolgimento di progetti e commesse;
vigeva, in materia, il principio del rispetto dei limiti di spesa previsti dal patto di stabilità, che le impedivano di corrispondere quanto richiesto.
Il Tribunale di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 1926/2020, ha accolto l’opposizione.
NOME COGNOME ha proposto appello che la Corte d’appello di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 1200/2022, ha accolto in parte, riconoscendo il diritto del lavoratore a ricevere gli arretrati per il periodo dal 1° gennaio 2016 al 28 febbraio 2018.
RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.
L’intimato non ha svolto difese.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Con il primo motivo parte ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 19, commi 5 e 6, d.lgs. n. 175 del 2016 in quanto la corte territoriale avrebbe errato ad affermare che il citato art. 19 avrebbe dovuto essere coordinato, oltre che con il principio di contenimento della spesa pubblica, con quelli della retribuzione sufficiente e proporzionata e della libertà sindacale. In particolare, contesta l’interpretazione della sentenza della Corte costituzionale n. 178 del 2015 operata dalla corte territoriale, atteso che detta sentenza avrebbe considerato il d.lgs. n. 175 del 2016 lesivo non del principio di sufficiente e proporzionata retribuzione ex art. 36 Cost., ma di quello di libertà sindacale di cui all’art. 39 Cost.
Inoltre, la Corte d’appello di Roma non avrebbe dimostrato l’effettiva incidenza del blocco della contrattazione sul principio di proporzionalità e sufficienza della retribuzione che, per la giurisprudenza costituzionale menzionata, avrebbe dovuto essere valutato alla luce della complessiva retribuzione e non di una singola componente di essa.
Con il secondo motivo parte ricorrente afferma la violazione e falsa applicazione della stessa disposizione in quanto la normativa vigente non le avrebbe attribuito un’ampia autonomia nel gestire i conti derivanti dall’attività svolta e che il contrario avviso della corte
territoriale si sarebbe fondato su un’errata lettura della nota del 24 ottobre 2018 del Socio unico.
Infatti, detta autonomia avrebbe dovuto essere valutata alla luce del regime del c.d. controllo analogo.
La delibera n. 902/41 del 27 ottobre 2010, infatti, prevedeva che si realizzasse una sorta di amministrazione indiretta nella gestione del servizio, che doveva restare saldamente nelle mani dell’ente concedente.
Il principio di intangibilità dei rinnovi contrattuali, quindi, avrebbe dovuto essere armonizzato con il contesto normativo evidenziato, atteso che le società in house erano un’anomalia rispetto ai principi societari di diritto comune.
In particolare, se la società in house era un’articolazione dell’ente proprietario, essa avrebbe dovuto essere assoggettata agli stessi vincoli di blocco della contrattazione sanciti dal legislatore per il pubblico impiego.
Inoltre, la corte territoriale non avrebbe valutato l’incidenza del comma 5 del menzionato art. 19, che si riferiva proprio al personale.
Con il terzo motivo parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 19, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 175 del 2016, in quanto sarebbe stata attribuita un’erronea valenza agli indirizzi in tema di contenimento dei costi del personale dettati dall’ente nell’esercizio del suo potere di controllo analogo espressi sia nei PDO dal 2016 sia nella nota prot. 0169663 del 24 ottobre 2018.
Soprattutto, i PDO dal 2016 impedivano il pagamento in questione, atteso che non prevedevano spese aggiuntive per il personale a titolo di corresponsione di arretrati contrattuali.
La nota del 24 ottobre 2018 di Roma Capitale avrebbe dovuto essere interpretata come riferentesi alla gestione dei costi fissi sostenuti nell’ambito della gestione dei costi generali e della contrattazione di secondo livello.
L’art. 19 in questione, comunque, non avrebbe imposto un obbligo di fare ricorso alla contrattazione collettiva di secondo grado al fine di ridurre gli oneri contrattuali.
Le censure, che possono essere trattate congiuntamente, stante la stretta connessione, sono infondate.
A prescindere dai profili di inammissibilità, correlati alla richiesta di riesaminare documentazione già considerata dal giudice di appello e di interpretarla in maniera alternativa senza che siano stati indicati i criteri interpretativi violati, si osserva che la controversia riguarda il pagamento di somme derivanti dal rinnovo del CCNL Terziario, Distribuzione e Servizi sottoscritto in data 30 marzo 2015, sino al 28 febbraio 2018, a dipendenti della società RAGIONE_SOCIALE integralmente partecipata dalla Città Metropolitana di Roma Capitale, alla quale l’Ente locale affida in house lo svolgimento di progetti e commesse, derogando al principio generale dell’affidamento di servizi con procedure di evidenza pubblica.
Non è in questione la legittimità del rinnovo contrattuale in questione né l’esistenza di un obbligo di corrispondere le somme de quibus a carico della parte ricorrente.
Ciò di cui si discute, alla luce anche dei motivi di impugnazione e dello svolgimento della vicenda, per come prospettata da parte ricorrente e ricavabile dalla sentenza impugnata, è se l’art. 19, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 175 del 2016, debba essere interpretato nel senso che consentirebbe alla parte ricorrente di conseguire obiettivi di contenimento di spesa, fissati dalla P.A. controllante, anche non versando ai dipendenti parte della retribuzione dovuta e senza consultare sul punto le organizzazioni sindacali.
Questa SRAGIONE_SOCIALE. non ha mai dubitato che la disciplina dei rapporti di lavoro con le società partecipate da enti pubblici, ivi comprese le società destinate alla gestione c.d. in house di servizi pubblici, sia quella comune ai rapporti di lavoro quali regolati dal codice civile e
dalle regole sul lavoro privato e che anche la contrattazione collettiva di riferimento sia quella privatistica, e non quella regolata dal d.lgs. n. 165 del 2001.
Ciò è ora sancito espressamente dal d.lgs. n. 175 del 2016, non solo con la previsione generale (art. 1, comma 3) secondo cui «per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato», ma anche, con riferimento ai rapporti di lavoro, con la specifica statuizione (art. 19, comma 1) per cui «salvo quanto previsto dal presente decreto, ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico si applicano le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, e dai contratti collettivi».
Conclusioni analoghe sono state, peraltro, assunte anche per i periodi antecedenti a tali previsioni normative.
Come spiegato da Cass., n. 35421 del 1° dicembre 2022, le «Sezioni Unite di questa Corte da tempo hanno affermato che la partecipazione pubblica non muta la natura di soggetto privato della società, la quale resta assoggettata al regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato, salve specifiche disposizioni di segno contrario o ragioni ostative di sistema che portino ad attribuire rilievo alla natura pubblica del capitale impiegato e del soggetto che possiede le azioni della persona giuridica (cfr. fra le tante Cass. S.U. n. 29078/2019, Cass. S.U. n. 21299/2017, Cass. S.U. n. 7759/2017, Cass. S.U. n. 26591/2016)».
Ivi poi aggiungendosi che «l’orientamento espresso, condiviso dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stat. Ad. Plen. n. 10/2011), è stato fatto proprio dal legislatore che già con l’art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, nel testo risultante all’esito della conversione disposta dalla legge n. 135 del 2012, aveva previsto,
con norma dichiarata espressamente di interpretazione autentica, che «le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali».
In tale quadro di fondo si innestano rigorosi allineamenti alla disciplina comune di diritto civile, con distanziamenti netti dal sistema del pubblico impiego, come è per la ritenuta piena applicabilità dell’art. 2103 c.c. in tema di mansioni superiori (Cass., n. 25590 del 1° settembre 2023; Cass., n. 35421 del 1° dicembre 2022), ma anche varianti rispetto agli schemi puramente privatistici, espressamente previste dalla normativa (in tema di reclutamento e di conferimento di incarichi dirigenziali, v. art. 18, comma 1, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con mod., dalla legge n. 133 del 2008 – su cui v. Cass., n. 27126 del 14 settembre 2022 e, poi, in tema di reclutamento, art. 19, comma 2 del d. lgs. n. 175 del 2016).
Lo schema di fondo è, peraltro, comunque quello privatistico e solo se previsto esplicitamente dalle norme può ammettersi che vi siano scostamenti, perdendo altrimenti di senso giuridico la gestione dell’attività, seppure di interesse pubblico, con strumenti societari.
Ricostruendo l’evolversi della disciplina si rileva, quindi, che l’art. 18, comma 2 bis del d.l. n. 112 citato, nel testo introdotto con d.l. n. 78 del 2009, conv., con mod., dalla legge. n. 102 del 2009, ha previsto che le società partecipate non destinate ad attività di carattere industriale o commerciale e, in particolare, le partecipate c.d. in house – ovverosia che «siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara» – «adeguano … le proprie politiche di personale alle disposizioni vigenti per le amministrazioni controllanti in materia di contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitaria e per consulenze».
Ciò ha giustificato il fatto che, nel vigore di tale previsione, si sia ritenuta l’invalidità di una clausola negoziale di riconoscimento di un superminimo e quindi un trattamento non previsto dalla contrattazione collettiva (Cass., n. 30578 del 27 novembre 2024), sul presupposto che la norma primaria realizzasse l’estensione ai rapporti di lavoro con tali società dei «principi che presiedono alla corresponsione della retribuzione nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato, vietando il riconoscimento di trattamenti economici diversi da quelli stabiliti dalla contrattazione collettiva».
Di seguito, la normativa ha conosciuto una evoluzione in senso diverso.
Per effetto delle modifiche apportate con l’art. 1, comma 557 della legge n. 147 del 2013, il comma 2 bis, citato, è mutato, con riferimento ai trattamenti economici del personale, nel senso che alle società partecipate – oltre che ad altre entità che qui non interessano – «si applicano, altresì, le disposizioni che stabiliscono, a carico delle rispettive pubbliche amministrazioni locali, obblighi di contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitaria e per consulenze, attraverso misure di estensione al personale dei soggetti medesimi della vigente normativa in materia di vincoli alla retribuzione individuale e alla retribuzione accessoria. A tal fine, su atto di indirizzo dell’ente controllante, nella contrattazione di secondo livello è stabilita la concreta applicazione dei citati vincoli alla retribuzione individuale e alla retribuzione accessoria, fermo restando il contratto nazionale di lavoro vigente alla data di entrata in vigore della presente disposizione. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 76, comma 7, del presente decreto, le società che gestiscono servizi pubblici locali a rilevanza economica sono escluse dall’applicazione diretta dei vincoli previsti dal presente articolo. Per queste società, l’ente locale controllante, nell’esercizio delle prerogative e dei poteri di controllo, stabilisce modalità e applicazione dei citati vincoli assunzionali e di
contenimento delle politiche retributive, che verranno adottate con propri provvedimenti».
Quindi, con le successive modifiche apportate dall’art. 4, comma 12 bis del d.l. n. 66 del 2014, conv., con mod., dalla legge n. 89 del 2014, si è ribadito che le società partecipate «si attengono al principio di riduzione dei costi del personale, attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale», stabilendosi, altresì, che «A tal fine l’ente controllante, con proprio atto di indirizzo, tenuto anche conto delle disposizioni che stabiliscono, a suo carico, divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, definisce, per ciascuno dei soggetti di cui al precedente periodo, specifici criteri e modalità di attuazione del principio di contenimento dei costi del personale, tenendo conto del settore in cui ciascun soggetto opera. Le aziende speciali, le istituzioni e le società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo adottano tali indirizzi con propri provvedimenti e, nel caso del contenimento degli oneri contrattuali, gli stessi vengono recepiti in sede di contrattazione di secondo livello fermo restando il contratto nazionale in vigore al 1º gennaio 2014».
Il testo è stato, quindi, ulteriormente modificato con l’art. 3, comma 5 quinquies del d.l. n. 90 del 2014, conv., con mod., dalla legge n. 114 del 2014, nel senso che «Le aziende speciali, le istituzioni e le società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo si attengono al principio di riduzione dei costi del personale, attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale. A tal fine l’ente controllante, con proprio atto di indirizzo, tenuto anche conto delle disposizioni che stabiliscono, a suo carico, divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, definisce, per ciascuno dei soggetti di cui al precedente periodo, specifici criteri e modalità di attuazione del principio di contenimento dei costi del personale, tenendo conto del settore in cui ciascun soggetto opera. Le aziende speciali, le istituzioni e le società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo adottano tali indirizzi con propri
provvedimenti e, nel caso del contenimento degli oneri contrattuali, gli stessi vengono recepiti in sede di contrattazione di secondo livello».
L’art. 18, comma 2 bis, è stato, poi, modificato dal d.lgs. n. 175 del 2016, e la disciplina del tema, quanto alle società partecipate, è confluita nell’art. 19, commi 5 e 6 dello stesso d.lgs.
A tale comma 5 è stato previsto – per quanto qui interessa – che «le amministrazioni pubbliche socie fissano, con propri provvedimenti, obiettivi specifici, annuali e pluriennali, sul complesso delle spese di funzionamento, ivi comprese quelle per il personale, delle società controllate, anche attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale».
Al comma 6 si è, invece, stabilito che «le società a controllo pubblico garantiscono il concreto perseguimento degli obiettivi di cui al comma 5 tramite propri provvedimenti da recepire, ove possibile, nel caso del contenimento degli oneri contrattuali, in sede di contrattazione di secondo livello».
Nell’interpretare la normativa sopra citata e già con riferimento al testo dell’art. 18, comma 2 bis, quale vigente in esito alle modifiche apportate con il d.l. n. 66 del 2014 citato, ma con estensione del ragionamento al testo dell’art. 19, commi 5 e 6 citati, questa S.C. ha evidenziato alcuni tratti caratterizzanti del sistema.
In particolare, secondo Cass., n. 27466 del 27 settembre 2023, argomentata richiamando anche i principi di Cass., n. 35421 del 1° dicembre 2022, citata, il «chiaro tenore letterale dell’art. 19, quinto comma, d.lgs. 175/2016, analogamente a quanto stabilito dal previgente art. 18, comma 2 bis d.l. 118/2008 conv. con mod. in legge n. 133/2008 (come sostituito dall’art. 4, comma 12 bis d.l. 66/2014 conv. con mod. in legge n. 89/2014), il legislatore abbia fissato una regola di comportamento per gli amministratori delle partecipate, incidente sul rapporto che si instaura fra il socio pubblico e la società, potenziale fonte di responsabilità, eventualmente anche erariale; senza, tuttavia, che da quell’obbligo si possa inferire la
nullità degli atti adottati dalla società in violazione delle direttive date dal socio pubblico, non avendo il legislatore previsto un meccanismo analogo a quello adottato per l’impiego pubblico contrattualizzato».
Concludendosi, quindi, in quella sede, per l’impossibilità di ritenere legittima la revoca unilaterale di un superminimo riconosciuto in sede negoziale.
Dal quadro normativo sopra delineato discendono evidenti conseguenze giuridiche, in piena continuità e sviluppo dei principi interpretativi già espressi da questa S.C., e sopra riepilogati.
L’impossibilità per la società o l’ente controllante di intervenire unilateralmente rispetto ad un superminimo attribuito in sede di contrattazione individuale, neanche sotto il profilo del rifiuto di dare esecuzione alla clausola, sta a significare non solo che non vi è nullità, ma anche che i diritti riconosciuti dalle fonti regolative del rapporto non sono derogabili dalla parte datoriale.
E così come non lo è il contratto individuale che riconosca certi benefici, anche la contrattazione collettiva non può essere superata, se non con le forme previste dalla normativa stessa, che richiama appunto – a partire dal testo dell’art. 18, comma 2 bis conseguente all’art. 1, comma 557, della legge n. 147 del 2013 – la necessità che la revisione dei costi sia assecondata da contrattazione di secondo livello.
Il che, al di là di varianti nella formulazione che non appaiono tali da modificare il senso della normativa, è rimasto tratto caratterizzante anche nelle successive modifiche dell’art. 18, comma 2 bis, citato e del successivo art. 19, comma 6, del d. lgs. n. 175 del 2016, citato.
È, quindi, solo la contrattazione di secondo livello a poter disporre in senso riduttivo di diritti economici precedentemente riconosciuti.
Del resto, il richiamo delle norme menzionate a tale contrattazione sarebbe sostanzialmente inutile, se a disporre in senso derogatorio bastassero atti unilaterali del datore di lavoro o dell’ente controllante.
Ed anzi, tenuto conto che la contrattazione in ambito di lavoro privato – a cui si assimila il lavoro alle dipendenze delle partecipate – è parametro di valutazione della adeguatezza e sufficienza della retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost., non sarebbe facile avallare tout court l’esistenza di poteri unilaterali riduttivi in capo al datore di lavoro o di chi per esso.
Il sistema va, invece, inteso in una logica diversa, non sconosciuta alla pregressa giurisprudenza di legittimità proprio in tema di art. 36 Cost. (Cass., n. 1415 del 31 gennaio 2012; Cass., n. 19467 del 20 settembre 2007), da allineare all’opportunità che, in situazioni eccezionali in cui si manifesti l’esigenza di riduzione dei costi, sia proprio la contrattazione di prossimità, in presenza di idonea rappresentatività, ad essere abilitata ad intervenire in proposito; d’altra parte, è evidente la possibile concretezza di un interesse dei lavoratori nel loro insieme ad una contrattazione che, riducendo i costi, possa servire a seriamente realizzare l’obiettivo di evitare interventi riduttivi del personale.
Nella logica quale sopra ricostruita assume, poi, un senso anche l’inciso, contenuto nell’art. 19, comma 6, in ordine al fatto che «ove possibile» i provvedimenti finalizzati a ridurre i costi siano da recepire nella contrattazione di secondo livello.
Infatti, ritenere che quest’ultima contrattazione sia soltanto eventuale priverebbe la norma di una portata giuridica propria perché, se la riduzione fosse ammessa in via unilaterale, non vi sarebbe necessità di richiamare l’ipotesi del recepimento nella contrattazione.
L’inciso si spiega, invece, nella logica, di cui a Cass., n. 27466 del 27 settembre 2023 e Cass., n. 35421 del 1° dicembre 2022, citate, secondo cui le norme impongono agli amministratori di tenere certi comportamenti finalizzati alla riduzione dei costi e, dunque, mirati a fare in modo che la contrattazione di secondo livello recepisca le misure in tal senso da essi adottate.
Ciò, però «ove possibile», nel senso che nessuna responsabilità, per il solo fatto che ciò non avvenga, potrebbe essere addebitata agli amministratori che si siano attivati in tal senso, pur senza ottenere il risultato, non coercibile, dell’accordo in sede sindacale e fermo restando l’obbligo di perseguire altrimenti i risparmi da realizzare, così come, in ipotesi, ferma la responsabilità di chi abbia cagionato eccessi di spesa precedentemente posti in essere in violazione delle regole di buona amministrazione.
Quanto sopra porta ad escludere la fondatezza dei motivi di ricorso nella parte in cui essi intenderebbero attribuire rilievo ad indirizzi unilaterali dell’ente controllante o degli amministratori della partecipata, perché quanto conta è che non vi siano stati gli accordi di secondo livello, che soltanto avrebbero potuto comportare deroghe ai diritti economici spettanti ai lavoratori secondo le fonti regolative del rapporto fino ad allora in essere.
Quel che è stato dibattuto in causa va, tuttavia, misurato anche rispetto alla normativa sul c.d. blocco retributivo e contrattuale.
L’art. 9, comma 1, del d.l. n. 78 del 2010, conv., con mod., dalla legge n. 122 del 2010, ha stabilito il blocco retributivo per gli anni 2011, 2012 e 2013, con riferimento alle «amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196».
Il blocco è stato, poi, prorogato fino al 31 dicembre 2014 dall’art. 1, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 122 del 2013, emanato in attuazione di quanto previsto dall’art. 16, comma 1, del d.l. n. 98 del 2011, conv., con mod., dalla legge n. 111 del 2011.
Contestualmente, l’art. 4, comma 11 del d.l. n. 95 del 2012, conv. dalla legge n. 135 del 2012, ha previsto, per le «società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, che
abbiano conseguito nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento dell’intero fatturato» (art. 4, comma 1, del citato d.l. n. 95) che «a decorrere dal 1° gennaio 2013 e fino al 31 dicembre 2014 il trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti delle società di cui al comma 1, ivi compreso quello accessorio, non può superare quello ordinariamente spettante per l’anno 2011».
RAGIONE_SOCIALE in sé non rientra nell’elenco ISTAT citato, né possono avere corso in sede di legittimità valutazioni su atti di bilancio al fine di avallare ricostruzioni in fatto destinate a comprovare la ricorrenza delle condizioni di ‘consolidamento’ che potrebbero comportare l’estensione alla ricorrente di quegli effetti.
Analogamente, non può svolgersi in sede di legittimità una valutazione rispetto al rientrare di Capitale Lavoro nell’ambito dei requisiti di fatto di cui alle disposizioni dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 sopra citato.
Al di là di quanto appena detto, la questione giuridica va, in realtà, risolta sul piano della disciplina propria dei trattamenti economici del personale delle società partecipate, quale evolutasi a partire dalla legge n. 147 del 2013 e sopra ricostruita.
Richiamando quanto precedentemente argomentato, è chiaro che, fino a quegli sviluppi normativi, per effetto del testo allora vigente dell’art. 18, comma 2 bis del d.l. n. 112 del 2008 citato, le dinamiche retributive ed i vincoli rispetto ad esse imposte agli enti controllanti erano destinati ad operare anche per le società controllate, indipendentemente da richiami formali di altre disposizioni successive.
A partire dalla disciplina dell’art. 18, comma 2 bis menzionato, quale introdotta della legge n. 147 del 2013 – non a caso contestualmente abrogativa in modo espresso dell’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 – è l’intero sistema dell’adeguamento dei trattamenti economici dei dipendenti delle partecipate a mutare, secondo i tratti sopra ricostruiti e destinati a porre al centro la contrattazione
collettiva di secondo livello come mezzo di adeguamento strutturale, ma rispettoso della natura puramente civilistica del rapporti e della contrattazione collettiva applicabile.
È, quindi, a questo sistema – in sé tale da superare quanto precedentemente previsto o regolato – che deve farsi riferimento da quel momento storico in poi.
Ne deriva, indipendentemente da altri dati formali, che proprio sul piano sostanziale la normativa di blocco non può dirsi riferibile, in relazione agli incrementi del CCNL di diritto privato maturati nel 2015 e che sono oggetto di causa, ai dipendenti delle società partecipate.
Rispetto ad essi varrebbero semmai accordi di secondo livello che, però, come si è detto, non vi sono mai stati.
Da quanto appena detto deriva l’erroneità, per il periodo oggetto di causa, del richiamo a Corte costituzionale n. 178 del 2015, che ha avuto riguardo al diverso tema del blocco contrattuale rispetto al lavoro presso gli enti pubblici non economici, ai quali soli si riferisce il comma 17 dell’art. 9 d.l. n. 78 del 2010, chiaro nel limitare la sospensione della contrattazione al personale di cui agli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 165 del 2001, dipendente delle amministrazioni pubbliche indicate nell’art. 1 dello stesso decreto. In tal senso, questa Suprema Corte si è già espressa evidenziando (in fattispecie nella quale venivano in rilievo rapporti di diritto privato instaurati, in forza di specifica previsione di legge, da amministrazione pubblica) che «si è in presenza di una normativa che, oltre a presupporre la scadenza del contratto collettivo ed il suo mancato rinnovo, coinvolge unicamente la contrattazione dei comparti delle amministrazioni pubbliche e non si può estendere a quella dei settori privati, non rimessa all’iniziativa delle amministrazioni pubbliche e non volta direttamente a disciplinare i rapporti da queste ultime instaurati» (Cass., n. 1866 del 27 gennaio 2025).
I motivi di ricorso che argomentano su asserite erronee interpretazioni di quella pronuncia sono, quindi, parimenti da disattendere.
5) Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Nessuna statuizione deve esservi in ordine alle spese di lite, non avendo parte intimata svolto difese.
Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, dell’obbligo, per parte ricorrente, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
rigetta il ricorso;
-attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, ad opera di parte ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione Civile, il 3 luglio 2025.
Il giudice estensore Il Presidente
NOME COGNOME NOME COGNOME