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Società in house: no blocco stipendi senza accordo

La Corte di Cassazione ha stabilito che una società in house non può legittimamente bloccare gli aumenti stipendiali previsti dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) basandosi unicamente su direttive di contenimento della spesa del socio pubblico. La sentenza chiarisce che il rapporto di lavoro in queste società è di natura privatistica e qualsiasi modifica peggiorativa della retribuzione deve passare attraverso la contrattazione di secondo livello con i sindacati, non potendo essere imposta unilateralmente.

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Società in house e blocco degli stipendi: quando è illegittimo?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26339/2025, affronta una questione cruciale per i dipendenti delle società a partecipazione pubblica: può una società in house negare ai propri lavoratori gli aumenti stipendiali previsti dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) per rispettare le direttive di contenimento della spesa imposte dal socio pubblico? La risposta della Suprema Corte è netta: no, un’imposizione unilaterale è illegittima.

I Fatti di Causa

Il caso nasce dalla richiesta di un lavoratore, dipendente di una società interamente partecipata da un ente pubblico metropolitano, di ottenere il pagamento degli arretrati derivanti dal rinnovo del CCNL Commercio. La società si era opposta, sostenendo di essere vincolata ai principi di finanza pubblica e alle direttive dell’ente controllante, che imponevano limiti di spesa e le impedivano di corrispondere gli aumenti.

Mentre il Tribunale di primo grado aveva dato ragione alla società, la Corte d’Appello aveva riformato la decisione, riconoscendo il diritto del lavoratore agli arretrati. La società ha quindi proposto ricorso in Cassazione, portando la questione all’attenzione della Suprema Corte.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società, confermando la decisione d’appello. Il principio chiave affermato è che il rapporto di lavoro dei dipendenti delle società a partecipazione pubblica è regolato dal diritto privato e dai contratti collettivi di settore, non dalle norme sul pubblico impiego.

Le Motivazioni: la natura privatistica del rapporto di lavoro nelle società in house

La Corte ha smontato le argomentazioni della società ricorrente punto per punto, delineando un quadro giuridico chiaro.

Il fulcro del ragionamento risiede nella natura del rapporto di lavoro. Anche se la società in house è un’articolazione della Pubblica Amministrazione, i suoi dipendenti hanno un contratto di lavoro di diritto privato. Questo significa che le loro condizioni economiche e normative sono stabilite dal Codice Civile e, soprattutto, dalla contrattazione collettiva applicabile.

Il D.Lgs. n. 175 del 2016 (Testo Unico sulle società a partecipazione pubblica) stabilisce che le amministrazioni pubbliche socie devono fissare obiettivi di contenimento dei costi, inclusi quelli per il personale. Tuttavia, lo stesso decreto prevede che le società debbano perseguire tali obiettivi attraverso propri provvedimenti, da recepire, “ove possibile”, nella contrattazione di secondo livello (aziendale o territoriale).

Il ruolo della contrattazione di secondo livello

Questa precisazione normativa è decisiva. La legge non conferisce alla società o al socio pubblico il potere di violare unilateralmente un contratto nazionale in vigore. Al contrario, indica la via maestra per conciliare le esigenze di bilancio con i diritti dei lavoratori: il dialogo sindacale. Qualsiasi deroga o modifica peggiorativa dei diritti economici riconosciuti dal CCNL deve essere negoziata e concordata con le organizzazioni sindacali attraverso un accordo di secondo livello.

In assenza di tale accordo, il contratto nazionale mantiene la sua piena efficacia e i diritti da esso derivanti non possono essere compressi da un atto unilaterale del datore di lavoro, anche se motivato da direttive del socio pubblico.

L’inefficacia delle direttive unilaterali del socio pubblico

Le direttive dell’ente controllante creano un obbligo per gli amministratori della società di adoperarsi per il contenimento dei costi, ma non si traducono in un automatico potere di disapplicare i contratti. Come sottolinea la Corte, se bastasse un atto unilaterale, il richiamo alla contrattazione di secondo livello sarebbe svuotato di ogni significato. Gli amministratori sono tenuti a perseguire gli obiettivi di risparmio, ma devono farlo utilizzando gli strumenti legittimi previsti dall’ordinamento, primo tra tutti il negoziato con i sindacati.

Le Conclusioni

La sentenza n. 26339/2025 ribadisce un principio fondamentale a tutela dei lavoratori delle società a partecipazione pubblica. L’appartenenza di una società al perimetro pubblico non ne snatura il regime giuslavoristico, che rimane ancorato al diritto privato. Le legittime esigenze di contenimento della spesa pubblica non possono essere una giustificazione per sacrificare unilateralmente i diritti contrattuali dei dipendenti. La strada da percorrere è quella del confronto e dell’accordo sindacale, l’unico strumento idoneo a modificare in modo legittimo le condizioni retributive stabilite dalla contrattazione nazionale.

Una società in house può rifiutarsi di applicare gli aumenti previsti dal CCNL sulla base di direttive del socio pubblico?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che le direttive di contenimento della spesa del socio pubblico non legittimano la violazione unilaterale del contratto collettivo nazionale. Il rapporto di lavoro è di natura privatistica e i diritti che ne derivano non sono derogabili da un atto unilaterale del datore di lavoro.

Qual è lo strumento corretto per una società in house per contenere i costi del personale?
Lo strumento principale indicato dalla legge (art. 19, comma 6, d.lgs. n. 175 del 2016) è la contrattazione collettiva di secondo livello. Eventuali deroghe ai diritti economici dei lavoratori devono essere concordate in sede sindacale e non possono essere imposte.

Ai dipendenti delle società in house si applica il blocco degli stipendi previsto per i dipendenti pubblici?
No. La sentenza chiarisce che la normativa sul blocco retributivo, come quella prevista in passato per il pubblico impiego, non si estende automaticamente ai dipendenti delle società partecipate. Il loro rapporto è regolato dal diritto privato e dalla relativa contrattazione collettiva.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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