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Società in house: impossibile conversione contratto

Un lavoratore, impiegato come socialmente utile presso una società in house, ha richiesto il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando le decisioni dei gradi precedenti. Il motivo principale risiede nel fatto che le società in house sono soggette alle rigide normative del pubblico impiego per le assunzioni, che prevedono concorsi pubblici e impediscono la conversione automatica di contratti atipici in rapporti di lavoro stabili.

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Pubblicato il 11 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Società in house e conversione del contratto: la Cassazione chiarisce i limiti

Lavorare per una società in house non equivale a lavorare per un’azienda privata, soprattutto quando si tratta di assunzioni. Con la recente ordinanza n. 34579/2024, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: per le società a partecipazione pubblica totale, le regole del pubblico impiego prevalgono, rendendo impossibile la conversione automatica di un rapporto di lavoro precario in un contratto a tempo indeterminato. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda un lavoratore che, dopo anni di servizio presso una società interamente partecipata da un Comune, prima come Lavoratore Socialmente Utile (LSU) e poi con prestazioni di lavoro accessorio (voucher), ha citato in giudizio l’azienda. La sua richiesta era chiara: ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con le relative conseguenze economiche, sostenendo che le sue mansioni, di fatto, erano identiche a quelle dei dipendenti assunti stabilmente.

Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello hanno respinto la sua domanda. Secondo i giudici di merito, il lavoratore non aveva fornito prove sufficienti a dimostrare che le attività svolte andassero oltre i compiti previsti per i lavori socialmente utili. Inoltre, il suo inserimento stabile nell’organizzazione aziendale non era, di per sé, un elemento decisivo per qualificare il rapporto come subordinato. Di fronte a queste decisioni, il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione e il divieto per le società in house

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso del lavoratore inammissibile, ponendo fine alla controversia e confermando, di fatto, le sentenze precedenti. La decisione si basa su una serie di motivazioni, sia di natura processuale che sostanziale, che chiariscono in modo definitivo i confini normativi che regolano il lavoro nelle società a controllo pubblico.

Le Motivazioni

La Cassazione ha fondato la sua decisione su diversi pilastri argomentativi.

In primo luogo, il ricorso è stato giudicato tecnicamente carente. I motivi di appello erano confusi, mescolando critiche sulla violazione di legge con contestazioni sull’accertamento dei fatti, un’operazione non consentita in sede di legittimità. La Cassazione, infatti, non è un terzo grado di giudizio dove si possono riesaminare le prove, ma valuta solo la corretta applicazione delle norme di diritto.

In secondo luogo, è stato applicato il principio della cosiddetta “doppia conforme”. Poiché sia il Tribunale che la Corte d’Appello erano giunti alla medesima conclusione, era preclusa al ricorrente la possibilità di contestare in Cassazione l’accertamento dei fatti, salvo vizi molto gravi che in questo caso non sono stati riscontrati.

Ma il punto cruciale della decisione riguarda la natura della società datrice di lavoro. Trattandosi di una società in house, ossia un ente che, pur avendo forma societaria, agisce come un braccio operativo della pubblica amministrazione, essa è soggetta alle norme sul reclutamento del personale pubblico. In particolare, si applica l’articolo 18 del D.L. n. 112/2008, che impone il rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità e pubblicità, tipici dei concorsi pubblici.

La Corte ha quindi ribadito che consentire la conversione di un contratto di collaborazione in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato significherebbe eludere una norma imperativa, permettendo un’assunzione senza la procedura selettiva pubblica richiesta dalla legge. Questo divieto, finalizzato a garantire il rispetto dell’articolo 97 della Costituzione, non ammette deroghe.

Le Conclusioni

La pronuncia della Cassazione offre un insegnamento chiaro: chi lavora per una società in house non può aspirare a una stabilizzazione automatica basata sulla durata del rapporto o sulla natura delle mansioni svolte. Le regole sul reclutamento nel settore pubblico rappresentano un limite invalicabile. La tutela per il lavoratore il cui contratto sia stato illegittimamente utilizzato non può essere la conversione del rapporto, ma, eventualmente, il risarcimento del danno, che però deve essere provato secondo le regole ordinarie. Questa ordinanza consolida un orientamento giurisprudenziale rigoroso, volto a preservare i principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, anche quando questa opera attraverso società di diritto privato.

Un lavoratore impiegato da una società in house può ottenere la conversione del suo contratto in un rapporto a tempo indeterminato?
No, la sentenza stabilisce che per le società in house, assimilate alle pubbliche amministrazioni per quanto riguarda il reclutamento, è inammissibile la conversione di un contratto di collaborazione o atipico in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, poiché ciò violerebbe l’obbligo di assunzione tramite procedure selettive pubbliche.

Perché le regole per l’assunzione in una società in house sono diverse da quelle di un’azienda privata?
Perché le società in house sono considerate un’estensione della pubblica amministrazione. Pertanto, devono rispettare i principi costituzionali di imparzialità, trasparenza e buon andamento (art. 97 Cost.), che impongono il reclutamento del personale attraverso concorsi pubblici per garantire a tutti pari opportunità di accesso.

Cosa significa che un ricorso in Cassazione è dichiarato ‘inammissibile’?
Significa che la Corte di Cassazione non entra nel merito della questione, cioè non valuta se il ricorrente abbia ragione o torto sui fatti. La decisione di inammissibilità viene presa quando il ricorso non rispetta i requisiti tecnici e formali previsti dalla legge, come ad esempio la corretta formulazione dei motivi o il tentativo di ottenere un nuovo giudizio sui fatti, non consentito in sede di legittimità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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