Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 10959 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 10959 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21046/2022 R.G. proposto da : COGNOME rappresentato e difeso da ll’avvocato COGNOME
-ricorrente-
contro
COGNOME rappresentati e difesi da ll’avvocato DI COGNOME
-controricorrenti- nonché
COGNOME NOME
-intimata- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BARI n. 868/2022 depositata il 30/05/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 02/04/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La vicenda sostanziale trae origine dalla realizzazione da parte di NOME COGNOME, sul proprio lastrico solare, di un volume chiuso con
tamponamenti in muratura e struttura portante in elementi lignei, parzialmente sovrastante il parapetto del lastrico di proprietà di NOME COGNOME e NOME COGNOME comproprietari dal 19/07/1978 di un immobile, dotato di terrazza e parapetto con veduta verso l’immobile di Sigrisi. L’opera, realizzata nel marzo -aprile 2008, veniva contestata dai COGNOME
COGNOME in quanto avrebbe impedito l’esercizio del diritto di veduta e violato la distanza di cui all’art. 907 c.c.; inoltre, si lamentava che la costruzione era posta in appoggio al parapetto, violando l’art. 877 c.c. Dopo diffide, COGNOME rastremava solo la parete prospiciente il parapetto senza però ripristinare la veduta. I COGNOME
COGNOME domandavano quindi al Tribunale di Trani di condannare COGNOME al ripristino della veduta, arretrando il manufatto di almeno tre metri dal confine o, in subordine, di condannarlo alla demolizione del muro costruito in appoggio.
COGNOME si costituiva, contestando l’esistenza della servitù di veduta e precisando che l’opera era realizzata in aderenza, rispettosa delle norme edilizie locali.
Il Tribunale accoglieva le domande, condannando COGNOME a ridurre il manufatto rispettando la distanza prescritta dall’art. 907 c.c., sulla base della veduta ritenuta esistente per tutta la lunghezza del parapetto.
In sede di appello, la Corte territoriale, adita dal convenuto, ha rigettato la censura sulla mancata prova del diritto di veduta, ma ha accolto parzialmente il gravame sull’altezza del parapetto necessario per la sicurezza, accertando la veduta solo per parte terminale del parapetto, alta da 90 a 99 cm, con profondità di 40 cm. La Corte di merito ha ritienuto che questa parte, di oltre 150 cm di lunghezza, consenta un affaccio comodo e sicuro, integrando dunque una veduta diretta e obliqua, tutelata ex art. 907 c.c. Pertanto, la sentenza di primo grado è stata parzialmente riformata,
imponendosi al Sigrisi di arretrare il manufatto in modo radiale rispetto al tratto finale del parapetto.
Ricorre in cassazione il convenuto con quattro motivi, illustrati da memoria. Resistono gli attori con controricorso e memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Col primo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 948, 949, 2967 c.c. e 112 c.p.c., assumendo che la Corte di appello ha erroneamente qualificato la domanda proposta dagli attori come actio confessoria servitutis, mentre si trattava invece di una actio negatoria servitutis. Osserva che nella motivazione della sentenza impugnata non è mai chiarita la natura della domanda né viene esplicitato se essa sia fondata su un titolo di acquisto della servitù o sull’usucapione. Si censura che la Corte distrettuale abbia ritenuto sussistente la servitù di veduta in assenza di prova formale del diritto da parte dei resistenti, fondando la decisione solo sulla non contestazione da parte del convenuto, sul contenuto del rogito notarile del 1978 e sulle deposizioni testimoniali, in contrasto con il principio secondo cui la prova della titolarità del diritto di servitù costituisce condizione dell’azione e deve essere fornita in modo rigoroso. Si afferma che il contenuto dell’atto di acquisto degli attori e le loro dichiarazioni non valgono a costituire o provare la servitù, e che la sentenza impugnata ha eluso il dovere del giudice di accertare d’ufficio l’esistenza del diritto reale dedotto in giudizio, ai sensi dell’art. 949 c.c.
Il motivo è infondato.
Infatti, la Corte territoriale ha espressamente affermato (p. 10) che « la domanda è comunque fondata, essendo stata la veduta esercitata pacificamente sin dal 1978 senza interruzioni (come accertato dai testi e dalla c.t.u.), essendo quindi maturato il termine utile ai fini dell’acquisto della servitù per usucapione ».
La Corte d’Appello ha quindi desunto la prova del diritto di servitù vantato dagli attori dalla esistenza della veduta da oltre venti anni (v. pag. 10 sentenza) e quindi in sostanza ha ravvisato una servitù costituita per usucapione.
2. -Il secondo motivo del ricorso denuncia violazione degli artt. 900, 905 e 907 c.c., censurando la sentenza impugnata per avere erroneamente qualificato come veduta il parapetto presente sulla terrazza degli attori. Si afferma che la Corte di appello avrebbe trascurato il principio, elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui affinché un’apertura possa considerarsi veduta ai sensi dell’art. 900 c.c. e, dunque, godere della tutela di cui agli artt. 905 e 907 c.c., è necessario che essa consenta un affaccio esercitabile in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza. Secondo il ricorrente, tale principio è stato violato nel caso concreto, poiché il parapetto esaminato dalla Corte distrettuale non avrebbe le caratteristiche necessarie a gar antire l’affaccio sicuro: avrebbe, infatti, un’altezza media di soli 80 cm e uno spessore tale (pari ad almeno 80 cm) da ostacolare l’affaccio stesso. Si assume inoltre che la Corte territoriale abbia erroneamente indicato lo spessore del parapetto in soli 40 cm, mentre dalla relazione del c.t.u. risulterebbe che lo spessore reale è pari a 80 cm. Si contesta infine che la Corte abbia valorizzato, ai fini della sussistenza della veduta, un segmento del parapetto lungo circa 150 cm, in cui l’altezza sarebbe v ariabile tra 90 e 99 cm e si sostiene viceversa che tale tratto sarebbe troppo breve, disomogeneo e comunque inidoneo a integrare una veduta ai sensi di legge.
Il motivo è inammissibile.
Il motivo esibisce la struttura logica seguente: poiché il giudice di merito ha accertato i fatti in modo che si asserisce essere erroneo, allora sono state violate norme giuridiche sostanziali. Tale struttura scambia il ruolo della Corte di cassazione per quello di una terza istanza di merito. In altre parole, il ricorrente sovrappone il suo apprezzamento ricostruttivo della situazione di fatto rilevante all’accertamento che il giudice di merito ha espresso in una motivazione che non si espone a censure in sede di giudizio legittimità.
Infatti, la Corte territoriale ha rilevato che la terrazza dei Guastamacchia-Visaggi presenta una parte finale del parapetto con
una altezza pari a cm 90 e con una profondità costante di cm 40 sino a raggiungere l’altezza di 99 cm. Tali circostanze di fatto sono state reputate sufficienti a garantire la comoda e sicura inspectio e prospectio nella proprietà COGNOME, considerato che l’altezza di partenza di cm 90 corrisponde sostanzialmente al ‘basso ventre’ ma il suo costante incremento sino a 99 cm nonché il suo importante spessore (cm 40) consente una adeguata protezione del petto permettendo contemporaneamente l’affaccio in condiz ioni di sicurezza. Pertanto, la Corte ha inquadrato giuridicamente la parte terminale della terrazza (della misura di oltre un metro e mezzo di lunghezza) come veduta.
3. Il terzo motivo del ricorso denuncia violazione dell’art. 871 c.c., censurando la sentenza impugnata per avere omesso l’applicazione delle norme urbanistiche speciali e locali, in particolare delle Norme Tecniche di Attuazione (NTA) del Piano Regolatore Generale del Comune di Terlizzi, che consentono, per gli edifici ricadenti nella zona B1 costruiti sul confine, la realizzazione di sopraelevazioni in aderenza a pareti cieche. Si afferma che la Corte di appello ha trascurato l’efficacia vincolante dell e disposizioni comunali che, nella fattispecie, autorizzano l’opera realizzata dal ricorrente, rendendola conforme alla normativa edilizia. Il ricorrente sostiene che, essendo il suo edificio costruito sul confine e posto in aderenza a una parete priva di vedute legali, egli era legittimato a sopraelevare in aderenza, come consentito dalle NTA. La Corte, nel dare prevalenza alle norme del codice civile rispetto alla disciplina urbanistica, avrebbe dunque errato in diritto, ignorando che la costruzione eseguita in conformità agli strumenti urbanistici locali e con titolo edilizio legittimo non può essere ritenuta lesiva dei diritti altrui.
Il terzo motivo è inammissibile.
Esso infatti non coglie la ratio decidendi , che è fondata sull’accertamento della costruzione in violazione della distanza prescritta dall’art. 907 cc.
Sull’inammissibilità del motivo di ricorso che non coglie la ratio decidendi, cfr., tra le altre, Cass. 19989/2017.
4. – Il quarto motivo del ricorso denuncia, infine, violazione dell’art. 91 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per non avere pronunciato sulle spese del giudizio di primo grado, nonostante la parziale riforma della decisione adottata in primo grado. Si assume che la Corte di appello, pur avendo accolto parzialmente l’appello e ridimensionato la condanna imposta dal Tribunale, avrebbe omesso di pronunciarsi sulla necessità di rimodulare anche le spese del primo grado, che erano state poste integralmente a carico del ricorrente. Secondo il ricorrente, tale omissione integra violazione del principio di soccombenza, che impone al giudice di liquidare le spese tenendo conto dell’esito complessivo della lite. In presenza di un parziale accoglimento dell’impugnazione e della conseguente riforma della decisione impugnata, la Corte avrebbe dovuto quantomeno compensare in parte le spese del primo grado, così come ha fatto per quelle del secondo grado. L’inosservanza di tale principio rende, secondo il ricorrente, la decisione della Corte di appello illegittima nella parte in cui ha confermato senza motivazione la condanna integrale alle spese del primo grado.
Questo motivo è fondato.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione è concorde nell’affermare che il giudice d’appello ha il potere-dovere di procedere d’ufficio ad una nuova regolamentazione delle spese processuali qualora riformi, in tutto o in parte, la sentenza impugnata. Il fondamento di tale obbligo risiede nel fatto che la valutazione della soccombenza, ai fini della condanna alle spese, deve operare in base ad un criterio unitario e globale, tenendo conto dell’esito finale della controversia nel suo complesso. Pertanto, la riforma della decisione di primo grado determina la necessità di riconsiderare chi debba essere considerato soccombente e, di conseguenza, a carico di chi debbano essere poste le spese di
entrambi i gradi di giudizio (cfr., tra le più recenti, Cass. 16526/2024).
La sentenza si è discostata da tale principio perché effettivamente, pur avendo riformato in parte la decisione di primo grado, non ha provveduto sulle spese del relativo giudizio: essa pertanto va cassata.
Il giudice di rinvio (che si individua nella Corte di appello di Bari, in diversa composizione), regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso, rigetta i restanti, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Bari, in diversa composizione, anche per la liquidazione della spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 02/04/2025.