Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 21319 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 21319 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 30/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28662/2020 R.G. proposto da: COGNOME NOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrenti- contro
NOME CONCETTA, INDIRIZZO, CASOLA ROSA, elettivamente domiciliate in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), che le rappresenta e difende unitamente all’ avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO TORINO n. 933/2020 depositata il 28/09/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/05/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME e NOME COGNOME, proprietari di un immobile di Casorzo, convenivano NOME COGNOME, NOME e NOME COGNOME avanti il Tribunale di Asti, al fine di far accertare l’inesistenza a favore delle medesime -del diritto di servitù di passaggio veicolare o del diritto di manovra all’interno del loro cortile. Ritualmente costituitesi, le convenute concludevano per il rigetto delle domande avversarie e spiegavano domanda riconvenzionale subordinata, volta ad ottenere l’accertamento dell’intervenuta usucapione del passaggio, anche con automezzi attraverso l’aia comune.
In esito all’istruzione probatoria, con sentenza del 18 luglio 2018, il Tribunale accoglieva le domande attrici, rigettando quelle di parte convenuta.
La predetta decisione era gravata dalla COGNOME e dalle COGNOME. Gli appellati resistevano e con sentenza n. 933 del 28 settembre 2020 la Corte d’appello di Torino riformava la pronunzia di primo grado. Sosteneva all’uopo che, a seguito dell’atto di divisione fra i danti causa delle odierne parti (tali NOME e NOME COGNOME), risalente all’11 dicembre 1921, erano state costituite servitù reciproche fra i condividenti, al fine della continuazione dell’attività agricola. Di conseguenza, la previsione di una servitù di passaggio sarebbe stata funzionale all’accesso alle porzioni coltivate da tempo immemore, fonte di sostentamento per le parti originarie, tutte agricoltori; le pezze a vigna ed a prato non avrebbero avuto dimensioni enormi, ma nemmeno quelle di un giardino. L’utilizzo
della locuzione ‘carreggiata’ avrebbe dimostrato come la previsione dei condividenti fosse diretta a garantire il passaggio di carri o mezzi agricoli, per lo svolgimento delle coltivazioni.
NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto ricorso per cassazione, sulla scorta di quattro motivi. Hanno depositato controricorso la COGNOME e le COGNOME – svolgendo tre motivi di ricorso incidentale condizionato – al quale hanno, a loro volta, replicato con controricorso i ricorrenti principali.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con la prima doglianza, proposta ai sensi dell’art. 360 n. 4 e 5 c.p.c., i ricorrenti assumono il ‘travisamento della prova, per aver la corte territoriale menzionato in sentenza una informazione probatoria apertamente posta a base della decisione ma già contraddetta da specifici atti processuali’, nonché la violazione dell’art. 115 c.p.c., avendo la Corte distrettuale deciso sulla scorta di prove non proposte dalle parti.
La Corte d’appello avrebbe erroneamente stravolto i principi in tema di onere della prova. In particolare, avrebbe inserito nel corpo della motivazione l’immagine di una piantina volta ad illustrare lo stato dei luoghi, estratta dalle produzioni di parte, ma arbitrariamente modificata ‘ con l’apposizione di una linea nera e retta, non rispondente al reale stato dei luoghi, né soprattutto a puntuali allegazioni o evidenze versate in giudizio dai litiganti ‘. La suddetta linea disegnerebbe il passaggio sul fondo servente fino al transito sulla via pubblica, in un punto nel quale, in realtà, alcun collegamento esisterebbe, trovandosi la strada e le rispettive proprietà su un elevato dislivello. Da ciò il travisamento della prova, che avrebbe rivestito un ruolo determinante nella decisione.
Il motivo è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata (Sez. 3, n. 19989 del 10 agosto 2017; Sez. 3, n.8247 del 27 marzo 2024).
1.1. La Corte d’Appello afferma: ‘ Appare opportuno premettere come nella specie si appalesi decisiva, ai fini della determinazione di contenuto e limiti della servitù di passaggio sulla quale le parti controvertono, la lettura ed interpretazione dell’atto di divisione più volte menzionato -atto redatto a cura del AVV_NOTAIO in data 11.12.1921. A mezzo dell’atto in questione gli eredi di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME ed COGNOME NOME provvidero a dividere i beni morendo dismessi dal padre … regolando la divisione come segue…. Si attribuisce al condividente NOME COGNOME ( dante causa delle odierne controricorrenti ) la servitù attiva di passaggio sul sito posto a fianco del portico di NOME COGNOME per recedere dall’aia comune alla sua pezza vignata e prativa esistente e questa nella casa del fratello sul confine con COGNOME NOME per recedere dietro la propria casa… ‘.
1.2. La Corte d’appello ha dunque basato la sua decisione sull’interpretazione dell’atto divisionale che aveva costituito, ab origine , una serie di servitù reciproche fra i condividenti. La disamina del rogito notarile ed il conseguente accertamento della servitù di passaggio e del suo contenuto appaiono del tutto logici e congrui. In tale quadro, la scheda planimetrica (fra l’altro prodotta dagli stessi odierni ricorrenti) con l’aggiunta della linea tracciata dai giudici di secondo grado ha uno scopo meramente esplicativo, ossia quello di illustrare graficamente lo stato dei luoghi. Né riveste alcuna valenza probatoria decisiva, posto che l’assunta carenza da parte dell’COGNOME e della COGNOME di un accesso alla via pubblica nel punto indicato dalla Corte d’appello è irrilevante ai fini che qui interessano, non discutendosi di un problema di interclusione.
1.3. Ricondotta dunque nei suoi esatti termini la presunta ‘invenzione’ della Corte territoriale, va da sé che il ragionamento dei ricorrenti non è fondato, giacché nel giudizio di cassazione, la facoltà della parte di denunciare, ai sensi dell’art. 360, comma 1° n. 4, c.p.c., la violazione dell’art. 115 c.p.c., per avere il giudice di merito deciso la causa sulla base di prove inesistenti, perché riferite a fonti mai dedotte in giudizio oppure a informazioni probatorie prive di alcuna possibile o immaginabile connessione con le fonti appartenenti al processo, è esercitabile ove venga prospettata non solo l’assoluta impossibilità logica di ricavare, dagli elementi probatori, i contenuti informativi tratti dal giudice, ma anche il carattere sicuramente decisivo di tale errore, nel senso che, in assenza di esso, la decisione sarebbe stata diversa, in termini non di mera probabilità ma di assoluta certezza (Sez. 3, n. 37382 del 21 dicembre 2022; Sez. 3, n. 13918 del 3 maggio 2022).
Attraverso la seconda censura, proposta anch’essa ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c., l’COGNOME e la COGNOME deducono la falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., nonché la violazione dell’art. 1063 c.c., lamentando che i giudici di secondo grado avrebbero violato la gerarchia delle fonti in materia di interpretazione del titolo costitutivo della servitù. In particolare, la natura carrabile del diritto di passaggio non sarebbe stata contemplata nell’atto del 1921 e la Corte d’appello avrebbe contraddittoriamente dapprima dichiarato decisiva ‘la lettura e l’interpretazione dell’atto di divisione’ e poi ritenuto determinante la costituzione della servitù ai fini dell’esplicazione dell’attività agricola.
Il motivo è infondato.
2.1. La Corte d’appello, nell’ambito dell’attività ermeneutica ad essa demandata, ha utilizzato il testo del contratto per stabilire
l’esistenza della servitù per cui è causa, mentre per accertare la natura carrabile del diritto reale si è giovata essenzialmente della presumibile intenzione delle parti, alla luce dell’attività svolta dai contraenti e dell’esistenza di servitù reciproche.
L’aporia denunciata dai ricorrenti è pertanto inesistente. Infatti, nell’interpretazione del contratto, attività riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni ermeneutici o vizio di motivazione, il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell’art. 1362 c.c. alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche laddove il testo dell’accordo sia chiaro ma contrastante con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti (Sez. 6-1, n. 13595 del 2 luglio 2020; Sez. 3, n. 20294 del 26 luglio 2019; Sez. 1, n. 16181 del 28 luglio 2017).
2.2. L’attività interpretativa svolta nella specie dai giudici di secondo grado è dunque senz’altro coerente con il dettato dell’art. 1362 c.c., secondo cui il dato testuale del contratto, pur importante, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé indiscutibili, atteso che un’espressione ” prima facie ” chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti; ne consegue che l’interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all’interprete, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e quindi di verificare se quest’ultima sia
coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti medesime (Sez. 63, n. 32786 dell’8 novembre 2022; Sez. 3, n. 34795 del 17 novembre 2021; Sez. 3, n. 17718 del 6 luglio 2018; Sez. 3, n. 9380 del 10 maggio 2016).
Con il terzo mezzo di impugnazione, i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 1065 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per avere i giudici di secondo grado interpretato il titolo, violando la graduazione di legge nell’esame del suo testo ma, al contempo, anche con riguardo al principio del minimo mezzo. Infatti, il contemperamento degli opposti interessi dei proprietari dei fondi servente e dominate non avrebbe potuto condurre a ritenere carrabile la servitù non prevista in tal senso. Inoltre, al netto di punti solo apparentemente rilevanti, le ragioni pregnanti della ritenuta servitù carrabile sarebbero consistite nell’esistenza di porzioni di terreno coltivate a vigna ed a prato e nell’attestazione di una produzione vitivinicola, almeno fino al 1998, il che avrebbe dimostrato un’applicazione dell’art. 1065 c.c. del tutto casuale e relativa ad anni successivi, con una illegittima attualizzazione della servitù.
Il motivo è inammissibile.
3.1. Ancora una volta, la censura non si confronta con la ratio della decisione impugnata e soprattutto con la circostanza che ‘ La domanda riconvenzionale deve essere accolta limitatamente al riconoscimento della servitù di passaggio anche carraio ed alle manovre strettamente necessarie ed utili allo stesso ‘ (pag. 13), il che presuppone in apicibus una valutazione dei bisogni del fondo dominante e del minor aggravio di quello servente, alla luce della considerazione che, invece, tale valutazione era stata omessa dal Tribunale.
La quarta lagnanza, dichiaratamente alternativa rispetto al secondo ed al terzo motivo, è volta a denunciare la violazione degli
artt. 616 comma 2°, 646, 647 e 1131 c.c. del 1865, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. La Corte di merito avrebbe dovuto sussumere la fattispecie oggetto di causa entro la corretta normativa applicabile rispetto all’atto del 1921, atteso che per valutare una servitù sorta in tale anno non sarebbe stato utilizzabile il codice civile del 1942, che conteneva norme innovative in tema di ermeneutica contrattuale.
Il motivo è inammissibile.
4.1. Invero, la doglianza è aspecifica, giacché non precisa in qual modo le norme abrogate si sarebbero discostate da quelle del codice civile odierno ed a quale differente risultato avrebbero dovuto condurre, nell’ipotesi di loro applicazione. Anche per le norme del codice abrogato, qualora applicabili in ragione della loro presunta ultrattività, vale il principio sancito da questa Suprema Corte per il quale, in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Sez. U., n. 23745 del 28 ottobre 2020; Sez. 5, n. 18998 del 6 luglio 2021).
Attraverso i tre motivi di ricorso incidentale, la COGNOME e le COGNOME denunciano sostanzialmente la violazione e falsa applicazione
dell’art. 112 c.p.c., per non aver la Corte d’appello pronunziato sulla domanda di usucapione, svolta in sede di appello.
Le censure, dichiaratamente condizionate all’accoglimento del ricorso avversario, restano logicamente assorbite dalla reiezione dello stesso.
Al rigetto del ricorso principale consegue la condanna solidale dei ricorrenti alla rifusione delle spese di lite, come liquidate in dispositivo.
Si dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che i ricorrenti sono tenuti a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 115/2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale.
Condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle spese processuali a favore di NOME COGNOME, NOME e NOME COGNOME, liquidate in € 200,00 per esborsi ed in € 3.000 (tremila) per compenso, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%.
Dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che i ricorrenti sono tenuti a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 115/2002, se dovuto.
Così deciso in Roma il 28 maggio 2024, nella camera di consiglio delle Seconda Sezione Civile.
Così deciso in Roma, il 28/05/2024.
Il Presidente
NOME COGNOME