Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 25099 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 25099 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 18/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso 18828/2022 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, COGNOME NOME domiciliati in ROMA, INDIRIZZO, presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in atti;
-ricorrenti –
contro
COGNOME NOME, domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in atti;
-controricorrente – avverso la sentenza n. 1003/2022 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 13/05/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/09/2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
Osserva
Per quel che ancora qui rileva il Tribunale dichiarò il diritto di servitù di passaggio per destinazione del padre di famiglia in favore
del fondo di proprietà di NOME COGNOME e a carico del fondo dei convenuti NOME COGNOME e NOME COGNOME.
La Corte d’appello di Catania rigettò l’impugnazione dei convenuti.
NOME COGNOME e NOME COGNOME ricorrevano sulla base di cinque motivi, l’intimato resisteva con controricorso. Entrambe le parti depositavano memorie.
Il Consigliere delegato della Sezione ha proposto definirsi il ricorso ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ.
I ricorrenti, con istanza sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale, hanno chiesto decidersi il ricorso.
Il processo è stato fissato per l’adunanza camerale del 12 settembre 2024.
Occorre premettere che nel procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati ex art. 380-bis c.p.c. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022), il presidente della sezione o il consigliere delegato che ha formulato la proposta di definizione può far parte -ed eventualmente essere nominato relatore – del collegio investito della definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., non versando in situazione di incompatibilità agli effetti degli artt. 51, comma 1, n. 4, e 52 c.p.c., atteso che tale proposta non rivela una funzione decisoria e non è suscettibile di assumere valore di pronuncia definitiva, né la decisione in camera di consiglio conseguente alla richiesta del ricorrente si configura quale fase distinta, che si sussegue nel medesimo giudizio di cassazione con carattere di autonomia e con contenuti e finalità di riesame e di controllo sulla proposta stessa (S.U., n. 9611, 10/04/2024, Rv. 670667 -01).
Ciò posto il consigliere proponente NOME COGNOME legittimamente compone il Collegio.
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 24, 111 Cost., 164, 183, 153, 294, 164, 304, 298 e 132 cod. proc. civ. <> dell’art. 934 cod. civ.
Si addebita alla sentenza impugnata l’errore di non avere reputata nulla la citazione di primo grado, nonostante la carenza di ‘edictio actionis’. La citazione, spiegano i ricorrenti, era affetta da nullità per non essere stato determinato l’oggetto della domanda, priva anche della specificazione della fonte della pretesa servitù, neppure risultava essere stato precisato se l’attore intendesse agire per un diritto autodeterminato o eterodeterminato. Né l’attore avrebbe potuto specificare la propria pretesa in sede di memoria, dovendo essa risultare puntuale dall’atto introduttivo, di talché, avendo il Tribunale deciso diversamente (e una tale decisione era stata confermata in appello) si era in presenza d’una inammissibile rimessione in termini.
La decisione sul punto della Corte etnea era <> e, in particolare, il richiamo all’atto d’acquisto dell’attore non si conciliava con il titolo riconosciuto e, poiché intervenuto con terzi, non poteva nuocere agli esponenti.
7.1. La doglianza è destituita di giuridico fondamento e in parte inammissibile.
Sul punto la Corte locale, chiarito che con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado l’attore, evocando il proprio titolo d’acquisto, aveva indubbiamente inteso agire per il riconoscimento del diritto reale di servitù. La successiva precisazione era risultata solo utile a esplicitare le ragioni già espresse con la citazione.
In primo luogo occorre sgombrare il campo dalla denuncia di violazione di norme costituzionali e dall’asserito vizio d’insufficiente motivazione.
Quanto al primo profilo, deve ribadirsi e darsi continuità al principio più volte enunciato da questa Corte, secondo il quale la violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459; conf., Cass. nn. 15879/2018, 3709/2014).
Quanto al secondo deve darsi continuità al principio, anch’esso più volte enunciato in questa sede, secondo il quale la giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito, con la sola eccezione del caso in cui essa debba giudicarsi meramente apparente; apparenza che ricorre, come di recente ha ribadito questa Corte, allorquando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. 6, n. 13977, 23/5/2019, Rv. 654145; ma già S.U. n. 22232/2016; Cass. n. 6758/2022 e, da ultimo, S.U. n. 2767/2023, in motivazione).
A tale ipotesi deve aggiungersi il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell’ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilità al caso concreto preso in esame, di talché appaia di mero stile, o, se si vuole, standard; cioè un modello argomentativo apriori, che prescinda dall’effettivo e specifico sindacato sul fatto.
Siccome ha già avuto modo questa Corte di più volte chiarire, la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è pertanto, denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (S.U., n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629830; S.U. n. 8054, 7/4/2014, Rv. 629833; Sez. 6-2, n. 21257, 8/10/2014, Rv. 632914).
Qui non ricorre alcuna delle ipotesi sopra richiamate, avendo la sentenza, come si è visto, reso giustificazione motivazionale pertinente e ripercorribile.
Inoltre, la qualificazione della domanda spetta al giudice del merito.
In materia trova applicazione il principio di diritto enunciato da questa Corte, secondo il quale la rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito ed è sindacabile: a) ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; b) qualora comporti
un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del “petitum”, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la “qualificazione giuridica” dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un “fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo”, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di “error in judicando”, in base all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., o al vizio di “error facti”, nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Sez. 3, n. 11103, 10/6/2020, Rv. 658078).
Evenienze tutte che qui non ricorrono.
Infine, val la pena soggiungere che costituisce principio di diritto fermo l’affermazione secondo la quale i diritti reali si identificano in base alla sola indicazione del loro contenuto (ossia il bene che ne forma l’oggetto) e non al titolo che ne costituisce il fondamento, sicché l’allegazione nel giudizio di rivendicazione, in primo come in secondo grado, di un titolo diverso rispetto a quello originariamente posto a base della domanda rappresenta solo un’integrazione delle difese sul piano probatorio, non implicando la proposizione di una domanda nuova né la rinunzia alla valutazione del diverso titolo dedotto in precedenza. Pertanto, decisa la controversia sulla base di uno dei titoli suddetti, al giudice dell’impugnazione non è preclusa la decisione sulla base dell’altro o di entrambi i titoli dedotti, anche se la parte interessata non abbia proposto alcuna specifica doglianza ed istanza in tal senso, giacché l’art. 346 c.p.c. attiene alle domande ed eccezioni non accolte nella sentenza appellata e non riproposte in appello, non agli elementi di prova che, acquisiti al giudizio ma pretermessi dal primo giudice, il
secondo ritenga, invece, rilevanti ai fini dell’esatta definizione della controversia (Sez. 6, n. 24435, 17/10/2017, Rv. 646813; conf., ex multis, Cass. nn. 40/2015, 24435/2014, 23851/2010, 26009/2010, 3192/2003, 13270/1999, 9851/1997 12607/2010).
Qui, per vero, senza che possa assumere rilievo alcuno, com’è evidente, la circostanza che l’attore abbia richiamato l’atto d’acquisto stipulato con terzi, la prospettazione della realità era resa inequivoca proprio dal fondamento identificato nel diritto assoluto, invece che in un rapporto obbligatorio.
Con il secondo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 111 Cost. e 432 cod. proc. civ., addebitandosi alla sentenza di non avere specificato quale dei <> sarebbe stato l’unico proprietario, per l’effetto di cui all’art. 1062 cod. civ., evidenziandosi, inoltre, un irriducibile contrasto logico per il contrasto insorto tra gli atti di causa e quando accertato dal consulente del giudice sul punto.
Con il terzo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1062, 2729, 2697, 1372 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ., addebitandosi alla sentenza, ancora una volta, il difetto di specificazione di cui al motivo che precede, con violazione, secondo l’assunto, dell’art. 2729 cod. civ., mancando un fatto storico grave e dotato di precisione e concordanza.
Inoltre, l’unico documento dal quale il Giudice aveva tratto la conclusione della destinazione del padre di famiglia era costituito dall’atto con il quale NOME COGNOME aveva venduto A NOME COGNOME, dichiarando unilateralmente l’esistenza di una servitù a carico del fondo di terzi (COGNOME–COGNOME).
Dalla visura catastale risultava che i COGNOME erano altri rispetto a quelli nominati nell’atto e il fondo servente <>.
10. Con il quinto motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1062, 2697, 2729 e 1372 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ., addebitandosi alla sentenza di avere erroneamente attribuito efficacia nei confronti dei terzi ricorrenti al contratto stipulato dal COGNOME con altri. Inoltre, il consulente non aveva accertato l’epoca alla quale risaliva la stradina, né, viene ribadito, gli elementi in atti consentivano di reputare raggiunta la prova presuntiva.
L’atto richiamato non poteva avere alcun valore nei confronti di terzi estranei ad esso, quali i ricorrenti
10.1. Il complesso censorio costituito dai motivi immediatamente sopra richiamati è inammissibile.
La Corte locale muove dalla constatazione che le risultanze della consulenza tecnica avevano permesso di appurare che i terreni oggi di proprietà delle due parti in causa erano ricompresi fino al 1999 in un unico fondo di proprietà di tali fratelli COGNOME e ad essi doveva farsi risalire la messa in opera della stradina e, pertanto, l’indicazione nell’atto di provenienza del COGNOME costituiva mero richiamo a una tale preesistenza, aliena da ogni effetto costitutivo ex se.
La circostanza, poi, che il dante causa, in relazione alla particella 484 (ex 96) degli appellanti, non fosse stato NOME COGNOME, ma NOME COGNOME era ininfluente, perché anche quest’ultima era avente causa dai COGNOME.
La destinazione del padre di famiglia, soggiunge la decisione, non è condizionata dalla necessità che l’unico proprietario, nel dividere il fondo e venderlo a soggetti diversi, abbia voluto creare l’asservimento, bastando che abbia predisposto i luoghi in maniera tale da creare la destinazione. Destinazione che, nel caso in esame, era stata accertata dal consulente, attraverso la cernita delle opere predisposte.
Risulta evidente che il complesso delle critiche sopra sunteggiate sono, nel loro complesso, dirette a un improprio riesame del vaglio istruttorio, di esclusivo dominio del giudice del merito, come se si vertesse in un giudizio di terzo grado, invece che di legittimità, peraltro del tutto aspecificamente sotto l’aspetto dell’autosufficienza (vengono evocati una pluralità di atti, relazione del consulente, atti di provenienza, accertamenti catastali, ecc. non conoscibili in questa sede).
Andando con ordine.
Quanto alla denuncia di violazione di norme costituzionali si è già più sopra detto.
Del pari, quanto al punto attinente alla motivazione.
Di poi, deve ribadirsi che la denuncia di violazione di legge sostanziale non determina nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (ex multis, S.U. n. 25573, 12/11/2020). E ancora, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (cfr. Sez. 1, n. 3340, 05/02/2019).
Inoltre, debbono richiamarsi i consolidati principi a riguardo dei limiti alla denuncia di violazione degli artt. 115 e 116.
Sul punto è bastevole riprendere quanto affermato dalle Sezioni unite con la sentenza n. 20867 del 30/09/2020.
In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Rv. 659037 -02).
In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Rv. n. 659037 -01).
Infine, val la pena soggiungere che il richiamo all’art. 1372 cod. civ. non è pertinente: la servitù per destinazione non trova
fondamento, com’è ovvio, nell’atto di provenienza del COGNOME, nel quale il venditore dichiarò la sussistenza della servitù, bensì nelle risultanze degli accertamenti effettuati dal consulente.
11. Con il quarto motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1062 cod. civ., 99, 112 cod. proc. civ., addebitandosi alla sentenza di avere omesso di pronunciarsi sulla dedotta <>, stante che, secondo l’assunto, il COGNOME non aveva tempestivamente provato che il proprietario dell’intero fondo avesse lasciato <> , nel mentre l’indagine sull’epoca di predisposizione della stradella era stata commissionata al consulente dal giudice d’ufficio, per contro nella prima memoria ex art. 183 cod. proc. civ. l’attore nulla aveva dedotto di probatoriamente utile in merito.
11.1. la doglianza risulta in parte manifestamente infondata e nel resto, inammissibile.
Non può essere messo in dubbio che il ricorso alla consulenza tecnica è assegnato alla discrezionalità del giudice, il quale, così come può non reputarla utile, nonostante il ricorso ad essa risulti essere stato sollecitato dalle parti, allo stesso tempo ben può ricorrere d’ufficio all’ausilio del collaboratore perito di settore, ove ne ravvisi insindacabilmente l’utilità (cfr., ex multis, Cass. nn. 3187/2006, 6178/2005, 10/2002).
Sotto altro profilo, l’omesso esame di una questione puramente processuale non integra il vizio di omessa pronuncia, configurabile soltanto con riferimento alle domande ed eccezioni di merito (cfr., ex multis, Cass. nn. 10422/2019, 25154/2018, 1876/2018, 6174/2018, 22083/2013).
Di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis, n. 1, cod. proc. civ., da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334, comma 2, cod. proc. civ., sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis cod. proc. civ. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”.
Il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle svolte attività, siccome in dispositivo, in favore del controricorrente.
Alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso, conforme alla proposta di definizione anticipata, consegue, ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., vigente art. 96, co. 3 e 4, cod. proc. civ., la condanna dei ricorrenti al pagamento in favore della controparte e della cassa delle ammende, delle somme, stimate congrue, di cui in dispositivo (cfr. S.U. n. 27195/2023).
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
dichiara il ricorso inammissibile e condanna i ricorrenti al pagamento in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge; condanna, altresì, la ricorrente al pagamento dell’ulteriore somma di € 3.000,00 in favore della controricorrente, ai sensi dell’art. 96, co. 3, cod. proc. civ.; nonché della somma di € 3.000,00, ai sensi dell’art. 96, co. 4, cod. proc. civ., in favore della cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il giorno 12 settembre 2024.