Sentenza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 6675 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 1 Num. 6675 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 13/03/2025
SENTENZA
sui ricorsi riuniti nn. 25206/2019 e 31634/2021 r.g., proposti, il primo, da:
RAGIONE_SOCIALEgià RAGIONE_SOCIALE), con sede in 20 INDIRIZZO, Londra W2 6LG, Regno Unito, in persona del legale rappresentante pro tempore NOME COGNOME rappresentata e difesa, giusta procura speciale conferita con atto per Notar NOME COGNOME del 26 novembre 2021, da ll’ Avvocato Prof. NOME COGNOME e dagli Avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME con cui elettivamente domicilia presso lo studio di questi ultimi (RAGIONE_SOCIALE) in Roma, alla INDIRIZZO n. 20.
-ricorrente e controricorrente incidentale -contro
MINISTERO DELL’AMBIENTE E DELLA SICUREZZA ENERGETICA (già Ministero della Transizione Ecologica), in persona del Ministro pro tempore , MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro
tempore , nonché, in luogo delle disciolte Gestioni commissariali per l’emergenza socio -economico ambientale nelle lagune di Grado e Marano e per l’emergenza nel territorio del bacino del fiume Sacco tra le Province di Roma e Frosinone, il MINISTERO DELL’AMBIENTE E DELLA SICUREZZA ENERGETICA e, per quanto possa occorrere, la PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del Consiglio pro tempore , tutti rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici domiciliano ope legis in Roma, alla INDIRIZZO
-controricorrenti e ricorrenti incidentali e
RAGIONE_SOCIALE AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, in persona del Commissario Straordinario.
-intimata – ed il secondo da:
RAGIONE_SOCIALEgià RAGIONE_SOCIALE), con sede in 20 INDIRIZZO, Londra W2 6LG, Regno Unito, in persona del legale rappresentante pro tempore NOME COGNOME rappresentata e difesa, giusta procura speciale conferita con atto per Notar NOME COGNOME del 26 novembre 2021, dall’Avvocato Prof. NOME COGNOME e dagli Avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME con cui elettivamente domicilia presso lo studio di questi ultimi (RAGIONE_SOCIALE) in Roma, alla INDIRIZZO 20.
-ricorrente e controricorrente incidentale -contro
MINISTERO DELL’AMBIENTE E DELLA SICUREZZA ENERGETICA (Già Ministero della Transizione Ecologica), in persona del Ministro pro tempore , MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore , nonché, in luogo delle disciolte Gestioni commissariali per l’emergenza socio -economico ambientale nelle lagune di Grado e Marano e per l’emergenza nel territorio del bacino del fiume Sacco tra le Province di Roma e Frosinone, il MINISTERO DELL’AMBIENTE E DELLA SICUREZZA ENERGETICA e, per quanto possa occorrere, la PRESIDENZA DEL
CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del Consiglio pro tempore , tutti rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici domiciliano ope legis in Roma, alla INDIRIZZO
-controricorrenti e ricorrenti incidentali e
RAGIONE_SOCIALE AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, in persona del Commissario Straordinario.
-intimata – avverso la sentenza non definitiva, n. cron. 973/2019, e la sentenza definitiva, n. cron. 3294/2021, entrambe della CORTE DI APPELLO di MILANO, pubblicate, rispettivamente, il giorno 05/03/2019 ed il giorno 12/11/2021;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 26/02/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del sub -motivo del ricorso principale 10.1) e, nei limiti di cui in motivazione, dell’undicesimo motivo del medesimo ricorso, rigettandosi, invece, il ricorso incidentale;
uditi, per la ricorrente , l’Avv. Prof. NOME COGNOME e gli Avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del proprio ricorso ed il rigetto del ricorso incidentale della controparte;
udito, per le Amministrazioni controricorrenti , l’Avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso ed accogliersi il proprio ricorso incidentale;
lette le memorie ex art. 378 cod. proc. civ. depositate dalle parti.
FATTI DI CAUSA
La RAGIONE_SOCIALE in amministrazione straordinaria (d’ora in avanti, breviter , RAGIONE_SOCIALE) citò dinanzi al Tribunale di Milano la RAGIONE_SOCIALE, oggi RAGIONE_SOCIALE e le Pubbliche Amministrazioni indicate in epigrafe, chiedendo che fosse accertata, anche rispetto alle dette Amministrazioni, la corresponsabilità solidale della RAGIONE_SOCIALE per tutti i debiti -per oneri di bonifica e per danno ambientale -ascrivibili alle responsabilità di RAGIONE_SOCIALE anteriori alla scissione societaria ideata e realizzata il 13 maggio 2003, con effetti dal 2 gennaio 2004, della quale la società convenuta era stata costituita beneficiaria. La domanda di accertamento fu correlata alle ingenti pretese risarcitorie azionate in varie sedi dal Ministero dell’Ambiente nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, in relazione all’attività di produzione e commercializzazione di prodotti chimici esercitata, per il tramite delle controllate società RAGIONE_SOCIALE, presso tre siti industriali (Brescia, Torviscosa e Colleferro); essa trovò fondamento nell’art. 2504decies cod. civ. nel testo allora vigente, stante l’operazione di scissione che, a dire di RAGIONE_SOCIALE, aveva determinato la costituzione della nuova società RAGIONE_SOCIALE previo trasferimento a questa di tutte le partecipazioni detenute nel settore biomedicale. La RAGIONE_SOCIALE, a fronte della regola limitativa dettata dall’art. 2504octies cod. civ. quanto alla rilevanza del valore effettivo del patrimonio netto trasferito, sostenne che la responsabilità di RAGIONE_SOCIALE, peraltro, dovesse ritenersi illimitata, perché oneri di bonifica e danni ambientali, ove accertati, avrebbero integrato elementi del passivo la cui destinazione non sarebbe stata desumibile dal progetto di scissione.
1.1. Radicatosi il contraddittorio, le Amministrazioni convenute chiesero, a loro volta, la condanna di RAGIONE_SOCIALE al risarcimento dei danni in solido con RAGIONE_SOCIALE
1.2. Con sentenza resa in data 1 aprile 2016, n. 4101, l’adito tribunale dichiarò il difetto di interesse di Snia e respinse tutte le domande proposte dalle Pubbliche Amministrazioni.
Questa decisione fu appellata dal Ministero dell’Ambiente, dal Ministero dell’Economia e Finanze e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. La RAGIONE_SOCIALE (poi RAGIONE_SOCIALE, costituendosi, propose, a sua
volta, impugnazione incidentale del capo relativo alle spese processuali ed impugnazione incidentale condizionata in ordine ad alcune questioni di merito.
2.1. La Corte d’appello di Milano, con sentenza non definitiva del 5 marzo 2019, n. 973, dichiarò la corresponsabilità di RAGIONE_SOCIALE e di RAGIONE_SOCIALE per la mancata esecuzione delle misure di riparazione ambientale relativamente ai tre siti in questione. Affermò, invero, la responsabilità di RAGIONE_SOCIALE in quanto i debiti derivanti dagli oneri di bonifica e dai danni ambientali costituivano elementi del passivo di RAGIONE_SOCIALE, noti ma la cui destinazione non era desumibile dal progetto, in forza dell’art. 2504octies , terzo comma, vecchio testo, cod. civ. Ritenne, però, che il quadro normativo al quale far riferimento dovesse essere quello di cui alla riforma del diritto societario (d.lgs. n. 6 del 2003), giacché l’operazione di scissione aveva avuto effetto, formalmente, dal 2 gennaio 2004, data di iscrizione dell’atto presso il Registro delle imprese. Riconobbe, dunque: i ) l’effettività del nesso causale tra l’attività svolta da Snia e dalle società ad essa riferibili e l’inquinamento delle aree e, quindi, la responsabilità di RAGIONE_SOCIALE quale proprietaria delle aree e degli stabilimenti, oltre che gestore diretto e capogruppo delle società via via partecipate e acquisite; ii ) la responsabilità, in via solidale, di RAGIONE_SOCIALE limitatamente all’attivo ad essa conferito secondo il regime ancorato al nuovo art. 2506bis , terzo comma, cod. civ.
2.2. Successivamente, la medesima corte, con sentenza definitiva del 12 novembre 2021, n. 3294, all’esito di un’articolata consulenza tecnica di ufficio, accolse l’appello principale proposto dalle Amministrazioni e condannò RAGIONE_SOCIALE già RAGIONE_SOCIALE, entro il limite dell’attivo conferitole per effetto della scissione societaria, a rimborsare i costi associati alla riparazione primaria e compensativa del danno ambientale causato dalle attività delle società riconducibili al RAGIONE_SOCIALE nei tre siti sopra indicati, quantificandoli in complessivi € 453.587.327,48, di cui € 155.874.699,83 per capitale fruttifero, da restituire alla parte soccombente al verificarsi della condizione tratta dalla stessa c.t.u.: vale a dire
allorquando le concentrazioni di contaminanti nei relativi acquiferi fossero scese sotto i limiti di legge.
Con un primo ricorso iscritto al n.r.g. 25206-2019, RAGIONE_SOCIALE ha chiesto la cassazione della menzionata sentenza non definitiva n. 973/2019, affidandosi ad otto motivi. L’Avvocatura Generale dello Stato, nell’interesse del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, del Ministero dell’Economia e Finanze e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha resistito con controricorso nel quale: i ) ha eccepito l’inammissibilità del ricorso avversario, perché la difesa della società aveva formulato riserva di impugnazione ai sensi dell’art. 361 cod. proc. civ., malgrado quella stessa difesa avesse vanamente richiesto alla corte d’appello la riapertura del verbale, onde correggerlo, e sostenuto che in quello non fosse stata rappresentata la effettiva volontà della parte; ii ) ha proposto, in ogni caso, due motivi di ricorso incidentale.
3.1. Con un secondo ricorso iscritto al n.r.g. 31634-2021, RAGIONE_SOCIALE ha chiesto la cassazione di entrambe le sentenze (non definitiva e definitiva) della corte distrettuale, formulando, complessivamente, dodici motivi, illustrati anche da memoria ex art. 380bis .1 cod. proc. civ., otto dei quali rivolti contro la sentenza non definitiva ed i residui quattro contro quella definitiva. L’Avvocatura Generale dello Stato, ancora nell’interesse di tutte le Amministrazioni Pubbliche suddette, ha resistito con controricorso, corredato da analoga memoria, nel quale ha ribadito l’eccezione di inammissibilità del primo ricorso per cassazione, a suo dire non incisa dall’eventuale riunione conseguente ad apposita istanza della ricorrente, e ha proposto tre motivi di ricorso incidentale, indicandoli, infine, come comuni a entrambe le sentenze. La ricorrente principale ha replicato al ricorso incidentale con apposito controricorso ex art. 371, comma 4, cod. proc. civ.
3.2. Con ordinanza interlocutoria del 5 ottobre/3 novembre 2022, n. 32365, questa Corte, disposta la riunione dei descritti ricorsi e « visto l’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e l’art. 295 cod. proc. civ. », ha chiesto « alla Corte di giustizia dell’Unione europea di
pronunciarsi, in via pregiudiziale e urgente, sulla questione di interpretazione del diritto comunitario indicata al par. XII della motivazione », sospendendo, conseguentemente il giudizio.
3.3. Intervenuta il 29 luglio 2024, causa C-713/22, la invocata decisione della Corte di Giustizia, NOME RAGIONE_SOCIALE ha riassunto il processo, sicché è stata fissata la nuova udienza pubblica per la sua discussione, in prossimità della quale sono state depositate memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
È opportuno premettere che, con la menzionata ordinanza interlocutoria n. 32365/2022, questa Corte, disposta la riunione al ricorso n.r.g. 25206/2019 di quello, successivo, n.r.g. 31634/2021, ha ritenuto, innanzitutto ( cfr . pag. 6-7), che « L’eccezione pregiudiziale dell’Avvocatura dello Stato circa il ricorso iscritto al n. 25206-19, per quanto incentrata su rilievi esatti, non incide sull’ammissibilità del secondo ricorso iscritto al n. 31634-21, relativo a entrambe le sentenze. L’impugnazione immediata di una sentenza non definitiva, di cui la parte si sia riservata l’impugnazione differita, è inammissibile (v. Cass., Sez. 3, n. 9387-03; Cass., Sez. 2, n. 24141-04; Cass., Sez. 2, n. 10856-08; Cass., Sez. 3, n. 18188-14); sicché erra da questo punto di vista la società ricorrente nel sostenere la legittimità di una eventuale revoca della riserva da svolgere mediante la riapertura del verbale d’udienza. Del resto, risulta dagli atti, ed è ammesso dalla stessa difesa della società, che il verbale non è stato poi riaperto, onde emendarlo nel senso da essa indicato. Tuttavia è decisiva ai fini dell’ammissibilità del secondo ricorso, e della non incidenza dell’errore riguardante il primo, la circostanza che la società ha altresì proposto per l’appunto un nuovo tempestivo ricorso per cassazione (il n. 31634-21) avverso entrambe le sentenze, definitiva e non definitiva, in esatta consonanza con la formulata riserva; e in base alla giurisprudenza di questa Corte, anche a sezioni unite, è sempre possibile, nell’osservanza del principio di consumazione dell’impugnazione e dei relativi termini, la proposizione di un nuovo ricorso per cassazione in sostituzione di quello che
per primo sia stato invalidamente proposto ma che non sia stato ancora dichiarato inammissibile (v. Cass. Sez. U n. 6691-20, Cass. Sez. 1 n. 18604-14, Cass. Sez. 3 n. 2848-15, Cass. Sez. 3 n. 8606-11, Cass. Sez. Cass. Sez. L n. 13257-10). Ne segue che il ricorso iscritto al n. 31634-21, in quanto tempestivo in rapporto alla riserva ex art. 361 cod. proc. civ., ha funzione sostitutiva di quello di cui al n. 25206-19, inammissibile ma la cui inammissibilità non è stata prima dichiarata, e deve essere esaminato nel merito delle censure svolte contro entrambe le sentenze. Egualmente dicasi per il controricorso dell’Avvocatura relativo al ricorso più recente, comprensivo di ricorso incidentale, nel quale risultano riproposte le due censure di cui all’incidentale originario, con l’aggiunta del terzo motivo concernente la sentenza definitiva ». Affermazioni, queste, che, ove fosse necessario, devono intendersi ribadite in questa sede ( cfr ., in senso ad esse sostanzialmente conforme, Cass. n. 14113 del 2024), sicché vanno qui dichiarati inammissibili il ricorso principale di RAGIONE_SOCIALE iscritto al n.r.g. 25206/2019 ed il ricorso incidentale proposto, nel corrispondente procedimento, dalle Amministrazioni controricorrenti.
I tre formulati motivi del (secondo) ricorso incidentale delle Pubbliche Amministrazioni controricorrenti (n.r.g. 31634-2021), tutti rivolti contro entrambe le sentenze, non definitiva e definitiva, della corte distrettuale ed il cui esame, -come già sottolineato, del tutto condivisibilmente, dall’ordinanza interlocutoria n. 32365/2022 è logicamente prioritario rispetto a quelli del ricorso principale ivi promosso da RAGIONE_SOCIALE, denunciano, rispettivamente:
violazione o falsa applicazione degli artt. 2506bis , 2506quater e 2504octies cod. civ. nella parte in cui, ai fini della individuazione del limite di responsabilità per la beneficiaria della scissione, la corte d’appello ha ritenuto applicabile al caso concreto la disciplina di diritto societario successiva alla riforma del 2003, anziché quella di cui alle norme anteriori. Si assume che la corte d’appello non avrebbe considerato che vi era stato un abuso dello strumento della scissione, con riferimento agli artt. 2 Cost., 1175, 1176 e 2740 cod. civ., stante l’ingiustificato ritardo col quale la
scissione, già deliberata il 13 maggio 2003, era stata iscritta al Registro delle imprese (il 2 gennaio 2004);
II) violazione o falsa applicazione degli artt. 2506bis , 2506ter e 2506quater cod. civ. per abuso dello strumento della scissione (artt. 1175, 1176 e 2740 cod. civ.), poiché la corte d’appello, nella sentenza non definitiva, non ha escluso che l’iscrizione al Registro delle imprese sia avvenuta al precipuo scopo di beneficiare della normativa sopravvenuta. Se ne desume che la delimitazione di responsabilità tratta dal quadro normativo di cui agli artt. 2506bis e ss. cod. civ. non si sarebbe potuta ravvisare, in quanto predicabile solo in ” circostanze fisiologiche “, non anche, invece, in caso di anomalie della sequenza procedimentale finalizzate a comprimere la tutela risarcitoria;
III) violazione o falsa applicazione dei principi eurounitari in materia ambientale (artt. 191 del TFUE e 3ter del T.u.a.) che, in nome del principio ” chi inquina paga “, consentono di individuare il centro di imputazione del danno sulla base di una nozione unitaria di impresa, nel concreto rinvenibile tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE/RAGIONE_SOCIALE
Nessuna di tali doglianze, anche ad avviso di questo Collegio (come già d ell’ordinanza interlocutoria n. 32365/2022 ), si rivela idonea a scalfire l’argomentazione chiave della sentenza non definitiva n. 973/2019 della corte territoriale in ordine alla soggezione della fattispecie in esame alle norme (artt. 2506bis e seg. cod. civ.) successive alla riforma di diritto societario di cui al d.lgs. n. 6 del 2003.
3.1. Invero, le prime due sono incentrate sulla questione dell’ipotetico abuso dello strumento societario giacché la delibera di scissione era stata già adottata a maggio del 2003: vale a dire, quindi, diversi mesi prima rispetto all’iscrizione dell’atto nel Registro delle imprese avvenuta solo il 2 gennaio 2004.
È agevole replicare, tuttavia, -così respingendosi tali censure -che il procedimento di scissione si articola in tre momenti, rispettivamente costituiti ( i ) dalla redazione e dalla pubblicità del progetto di scissione, ( ii ) dalla deliberazione di scissione e ( iii ) dalla stipula dell’atto di scissione. La
delibera di scissione integra e costituisce la semplice approvazione, da parte della società, del progetto di scissione, in quanto l’operazione può ancora essere contestata dai creditori (e dagli eventuali obbligazionisti) mediante l’opposizione. Ne deriva che è solo con l’atto di stipula di scissione, sottoscritto dal legale rappresentante in esecuzione della delibera assembleare, che la scissione acquisisce gli effetti civilistici, i quali decorrono dalla data di iscrizione di tale atto nel Registro delle imprese (art. 2506quater cod. civ.).
Nel caso concreto, non è contestato, né è contestabile, che l’iscrizione dell’atto sia avvenuta in data successiva all’entrata in vigore della riforma di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, con la conseguenza che è corretta l’inferenza della corte territoriale tesa a sostenere che, ai fini specifici, la responsabilità della beneficiaria dovesse trovare agio nel nuovo art. 2506bis . Affermare che l’iscrizione in data 2 gennaio 2004 sia stata frutto di una condotta abusiva, e quindi evocare il principio cd. antiabuso, implicherebbe la necessità di individuare uno stravolgimento della finalità dell’atto rispetto alla cornice attributiva stabilita dalla legge. Cosa che, da un lato, implicherebbe accertamenti di fatto estranei al giudizio di legittimità, atteso che la finalità ipotizzata dalla ricorrente è stata motivatamente contestata dalla difesa di NOME RAGIONE_SOCIALE e, dall’altro, neppure sarebbe ravvisabile in astratto dinanzi alla decisione di eventualmente differire gli effetti civilistici di un atto a fronte del beneficio di una più favorevole disciplina normativa. Certamente l’abuso del diritto non presuppone una violazione in senso formale. Tuttavia, per consolidata giurisprudenza, esso si realizza quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito ad un soggetto ed il suo atto di esercizio, ne risulti alterata la funzione obiettiva rispetto al potere che lo prevede, ovvero lo schema formale del diritto sia finalizzato ad obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore ( cfr . Cass. n. 15885 del 2018; Cass. n. 26541 del 2021). La scelta di differire gli effetti della scissione mediante la stipula dell’atto in modo da poter fruire di una disciplina normativa in fieri e più favorevole non stravolge affatto la
funzione dell’atto stesso, ma corrisponde ad una legittima opzione dell’autonomia privata.
3.2. Il terzo motivo del ricorso incidentale in esame, poi, si rivela inammissibile, giacché, anche ad avviso di questo Collegio -come già evidenziato, ancora una volta condivisibilmente, nella citata ordinanza interlocutoria n. 32365 del 2022 -presuppone il vaglio della fattispecie identificata dalla nozione unitaria d’impresa, coinvolgente tutte le società in mano agli stessi soggetti, che non risulta essere stata prospettata nella sede di merito a fondamento della domanda, e che appare in contraddizione con la causa petendi unicamente incentrata sulla rilevanza della scissione.
Venendo , ora, all’esame dei dodici formulati motivi del ricorso principale (n.r.g. 31634-2021) di RAGIONE_SOCIALE -i primi otto dei quali, come già detto, rivolti contro la sentenza non definitiva n. 973/2019, ed i residui contro quella definitiva n. 3294/2021, entrambe pronunciate dalla Corte di appello di Milano -il primo di essi denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2506bis cod. civ. in ordine alla possibilità di desumere la destinazione delle asserite responsabilità ambientali nella scissione realizzata il 13 maggio 2003, con effetti dal 2 gennaio 2004, della quale la RAGIONE_SOCIALE (oggi RAGIONE_SOCIALE era stata costituita beneficiaria, nonché omesso esame di fatto decisivo a proposito del non considerato complessivo contenuto del progetto di scissione.
Si sostiene che la scissione suddetta aveva avuto il chiaro obiettivo di conferire a RAGIONE_SOCIALE solo le partecipazioni afferenti al settore biomedicale, mentre tutte le attività e passività non espressamente assegnate, e in particolare quelle del settore chimico, erano destinate a permanere in capo alla scissa RAGIONE_SOCIALE. Si censura la sentenza n. 973/2019 (non definitiva) sul rilievo che la corte d’appello avrebbe tratto le conclusioni circa la responsabilità solidale di RAGIONE_SOCIALE dall’essere originati i debiti da fatti e circostanze precedenti la scissione e costituenti elementi noti del passivo di Snia, a fronte del patrimonio netto di RAGIONE_SOCIALE s.p.aRAGIONE_SOCIALE quantificato nel progetto di scissione ” senza contemplare alcuna specifica assegnazione di debiti “. Di contro, l’art. 2506bis cod. civ. impone la solidarietà passiva tra
la società scissa e la beneficiaria nelle sole ipotesi in cui la destinazione di un elemento del passivo non sia in alcun modo ” desumibile ” dal ” progetto ” di scissione nel suo complesso, che pure la corte assume, nel caso di specie, di aver considerato. A dire di RAGIONE_SOCIALE quindi, il progetto di scissione aveva fornito, nel caso concreto, tutti gli elementi perché potesse ritenersi ” desumibile ” l’allocazione delle eventuali responsabilità ambientali, in quanto lo stesso tribunale lo aveva indicato come ” propriamente e inequivocabilmente costruito intorno alla separazione delle attività del settore biomedicale (le uniche trasferite alla beneficiaria COGNOME) da tutte le altre attività riferibili alla originaria Snia “.
4.1. Questa doglianza si rivela infondata, atteso che, pure avviso di questo Collegio, -come già rimarcato dalla menzionata ordinanza interlocutoria n. 32365/2022 -l’argomentazione svolta dalla difesa della società ricorrente principale non merita seguito.
Posto, invero, che quella in esame è stata, con tutta evidenza, una scissione parziale, la regola affermata dall’art. 2506bis , cod. civ. è, in una tale ipotesi, quella per cui degli elementi del passivo la cui assegnazione non sia desumibile dal progetto di scissione rispondono solidalmente la società scissa e quella beneficiaria. La responsabilità solidale di quest’ultima è limitata al valore effettivo del patrimonio netto attribuito ( cfr ., in proposito, Cass. n. 36690 del 2021).
La ricorrente principale sostiene che: i ) ai fini della norma suddetta, debbono venire in considerazione gli elementi del passivo per i quali non sia possibile individuare alcuna allocazione, ” neppure implicita “, ” alla luce di un esame complessivo del progetto di scissione “; ii ) solo nell’ipotesi in cui il progetto di scissione non fornisca alcun elemento interpretativo per potere affermare con certezza che un elemento del passivo sia inerente al patrimonio di una delle società coinvolte nell’operazione di scissione troverebbe applicazione il principio di solidarietà passiva tra tutte le società, a tutela dei creditori. Secondo RAGIONE_SOCIALE, il progetto di scissione relativo alla società RAGIONE_SOCIALE forniva tutti gli elementi perché potesse ritenersi desumibile l’allocazione delle eventuali responsabilità ambientali, sicché la
corte d’appello avrebbe dovuto trarre dall’esame complessivo e sistematico del progetto la stessa conclusione alla quale era addivenuto il tribunale, vale a dire che, essendo stato l’intero progetto di scissione propriamente ed inequivocabilmente costruito intorno alla separazione delle attività del settore biomedicale (le uniche trasferite alla beneficiaria RAGIONE_SOCIALE) da tutte le altre attività riferibili alla originaria Snia, le passività di natura ambientale, afferendo al settore chimico, non potevano che essere rimaste imputate a Snia.
La tesi, oltre che inammissibilmente versata in fatto quanto al contenuto implicito del progetto di scissione, non appare condivisibile giuridicamente, poiché si basa su un presunto automatismo deduttivo, da associare al concetto di inerenza del debito al settore di attività, che nella norma non esiste. Il concetto di inerenza al settore di attività è diverso da quello insito nell’espressione ” destinazione ” degli elementi del passivo desumibile dal progetto di scissione. L’unico concetto al quale risponde l’art. 2506bis cod. civ., per escludere la responsabilità solidale della beneficiaria verso il terzo, è quello di effettiva e certa destinazione delle componenti del passivo in base al progetto. Nel lessico del codice civile, il termine evoca il significato di una necessaria e puntuale risultanza del progetto -e quindi, appunto, di una effettiva e certa destinazione degli elementi passivi al patrimonio dell’uno o dell’altro soggetto -, perché la norma è ispirata alla tutela dei creditori ed il regime delle passività di incerta destinazione non può esser considerato a detrimento del danneggiato. Solo nei rapporti interni (tra la società scissa e quella beneficiaria) si può discutere, nel silenzio del legislatore e dinanzi ad elementi del passivo di incerta destinazione, di un criterio di distribuzione eventualmente fondato sul principio di pertinenza, a correzione di quello residuale di eguale suddivisione di cui all’art. 1298, ultimo comma, cod. civ.
La corte d’appello ha accertato che la destinazione degli elementi del passivo non era desumibile dal progetto di scissione. Si tratta di una valutazione di merito. La critica della ricorrente a tal riguardo è essa stessa critica di merito, sicché, come tale, insuscettibile di trovare ingresso nella
sede di legittimità, la quale, come è noto, non può essere trasformata in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative ( cfr . Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. nn. 32026 e 40493 del 2021; Cass. nn. 30435, 35041 e 35870 del 2022; Cass. nn. 27522, 30878 e 35782 del 2023; Cass. nn. 10712, 19423, 25495 e 33909 del 2024; Cass. nn. 1918, 2040 e 2115 del 2025).
Il secondo motivo del ricorso principale in esame prospetta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2506bis e 2506quater cod. civ., per l’errata attribuzione a RAGIONE_SOCIALE.aRAGIONE_SOCIALE anche di quei danni generati da condotte (omissive o commissive) tenute successivamente alla scissione, in violazione del limite temporale posto dalla normativa in rapporto agli ” elementi del passivo ” o ai ” debiti ” già esistenti al tempo della scissione medesima. Si censura la sentenza n. 973/2019 (non definitiva) perché avrebbe omesso di rilevare la differenza di ambito applicativo che sussiste tra le evocate discipline, essendo l’art. 2506bis cod. civ. incentrato sugli ” elementi del passivo ” e l’art. 2506quater , viceversa, sui ” debiti ” insoddisfatti.
Secondo la ricorrente principale, la distinzione tra i due concetti asseritamente disattesa dalla corte territoriale – avrebbe dovuto condurre ad includere nella nozione (contabile) di ” debito ” solo le passività di natura determinata ed esistenza certa, con scadenza ed ammontare determinato, non confondibile con i ” fondi ” per rischi, con gli oneri e con gli ” impegni “, visto che codesti -per l’appunto costituenti ” elementi del passivo ” -sarebbero rilevanti solo ai diversi fini dell’art. 2506bis cod. civ.
5.1. Questa doglianza si rivela insuscettibile di accoglimento nel suo complesso.
5.2. Invero, con riferimento al suo assunto secondo cui sarebbe necessario distinguere tra ‘ elementi del passivo ‘ e ‘ debiti ‘ in relazione ai danni di cui dovrebbe rispondere RAGIONE_SOCIALE (oggi RAGIONE_SOCIALE) per
effetto della scissione, vanno immediatamente richiamate le argomentazioni tutte già esposte nella ordinanza interlocutoria n. 32365/2022, la quale -ancor prima di sospendere il giudizio di legittimità al fine di attivare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia della UE, ai sensi dell’art. 267 TFU E, volto ad ottenere una verifica di compatibilità col diritto comunitario, e segnatamente con la VI Direttiva del Consiglio n. 82/891 CEE, dell’interpretazione della norma interna (l’art. 2506bis cod. civ.) che la medesima ordinanza reputava preferibile rispetto all’alternativa sostenuta dalla ricorrente -ha osservato, preliminarmente ( cfr . pag. 18-19), che « La questione prospettata attiene, specificamente, al concetto di “elemento del patrimonio passivo (…) non attribuito nel progetto di scissione” di cui all’art. 3 della citata VI Direttiva, da considerare quale parametro del concetto di “elementi del passivo, la cui destinazione non è desumibile dal progetto” che contraddistingue l’art. 2506bis del codice civile italiano, ai fini della responsabilità solidale della beneficiaria di un’operazione di scissione parziale ».
Successivamente essa ha provveduto alla descrizione del contesto fattuale relativo alla complessiva vicenda in esame, evidenziando ( cfr . pag. 19-23) che, « in punto di fatto, è stato accertato dalla corte d’appello di Milano -tanto nella sentenza non definitiva, quanto in quella definitiva, e in questo caso alla luce della espletata c.t.u. -che esiste un nesso di causalità tra l’attività svolta da RAGIONE_SOCIALE e dalle società ad essa nel tempo riferibili e l’inquinamento delle aree di cui è causa. In particolare, è stata accertata la responsabilità di RAGIONE_SOCIALE quale proprietaria delle aree e degli stabilimenti, gestore diretto e capogruppo delle società via via partecipate e acquisite, per un’intensa attività di sfruttamento ambientale protrattasi, nei tre siti, per quasi un secolo, con gravissime conseguenze di contaminazione e di inquinamento. Tale responsabilità è stata oltre tutto ammessa dalla stessa Snia fin dalla citazione, così come ancora risulta dalla sentenza. Nella sentenza non definitiva è stata sottolineata “la sicura anteriorità cronologica di fatti e circostanze originanti la responsabilità di Snia (..) alla data del 13 maggio 2003”, in quanto desumibile da elementi documentali
appositamente menzionati, provenienti dagli organi societari di essa. La suddetta responsabilità si riferisce alle conseguenze dannose di un illecito permanente, suscettibili di aggravamento nel tempo e tali da risultare per loro stessa natura refrattarie a rigide linee di demarcazione rispetto alla risultante di un’operazione societaria come quella in esame. La ricorrente, nel secondo motivo, ha sostenuto che sarebbero stati illegittimamente ascritti alla RAGIONE_SOCIALE (oggi RAGIONE_SOCIALE), quale beneficiaria della scissione, anche gli aggravamenti del danno verificatisi dopo la scissione. Osserva la Corte che questa affermazione è parziale e comunque non è congruente, volta che l’aggravamento evoca, secondo quanto stabilito dal giudice del merito, le conseguenze di un illecito permanente pur sempre ascrivibile alla responsabilità della scissa per condotte anteriori alla scissione. Rileva in tal senso la circostanza che il protrarsi della condotta (commissiva o anche solo omissiva) di Snia dopo il gennaio 2004 è stato chiaramente descritto nella sentenza definitiva come mero sviluppo di quello antecedente attuato per anni. Da questo punto di vista, la sentenza definitiva, in base alla c.t.u. dettagliatamente riportata negli esiti finali, ha determinato i danni -per riparazione primaria, complementare e compensativa -sull’accertato presupposto che l’inquinamento di tutte le aree fosse causalisticamente riconducibile, in via diretta o indiretta, all’attività di Snia a prescindere dagli sviluppi successivi al gennaio 2004. Ciò è emerso nitidamente dal richiamo della sentenza alla risposta fornita dai c.t.u. al quarto quesito loro impartito: di indicare, cioè, “ove possibile e rilevante, quali fossero alla data del 2 gennaio 2004 le condizioni di inquinamento dei siti in esame, con relative misure di riparazione, come sopra specificate, e con i relativi costi”. È bene riportare testualmente quanto al riguardo emerge dalla sentenza suddetta. Al quesito i c.t.u. hanno fornito la seguente risposta: – con riguardo al sito di Brescia-Caffaro: “si ritiene che lo stato di inquinamento del sito in esame al 2 gennaio 2004 fosse analogo allo stato attuale, in termini di tipologia di inquinanti presenti, anche se si sono osservate oscillazioni temporali dei livelli di contaminazione (in particolare per il CrVI). Come evidenziato nella relazione, la fonte di contaminazione è dovuta a pregresse attività di società
riconducibili al gruppo RAGIONE_SOCIALE. La produzione di PCB è ultimata nel 1984 mentre le attività che includevano l’utilizzo di Mercurio sono terminate nel 1997 (e comunque prima del 2004). Recenti ispezioni di ARPA Lombardia hanno evidenziato la presenza di ulteriori sorgenti primarie di contaminazione (ed in particolare di Mercurio) attive fino ad oggi. Tali sorgenti di contaminazione sono dovute all’incuria nella gestione attuale e passata dell’ ex -area produttiva, legata ad attività precedenti al 2004″; ciò in dipendenza della necessità “di una urgente messa in sicurezza della Ditta RAGIONE_SOCIALE” in base a quanto già comunicato dall’Asl di Brescia che nel 2001 in base alla disamina dei dati di laboratorio e delle informazioni disponibili, vale a dire che “dall’insediamento continuano ad essere rilasciate in ambiente esterno (in particolare attraverso gli scarichi idrici) sostanze (es. PCB) che contribuiscono, nel loro complesso, a peggiorare lo stato dell’ambiente stesso con possibili ripercussioni sulla salute umana.”; – con riguardo al sito di Colleferro: “alla data in oggetto si ritiene che lo stato di inquinamento del sito in esame fosse del tutto analogo allo stato attuale, in quanto non si ravvisano sul sito di Colleferro o nella Valle del Fiume Sacco dopo tale data, attività di alcun genere da parte delle società riconducibili al gruppo RAGIONE_SOCIALE“; – con riguardo al sito di Caffaro-Torviscosa: “dall’analisi della documentazione consultata, e dalla ricostruzione effettuata dagli scriventi, risulta che alla data del 2 gennaio 2004 tutti i principali fenomeni di inquinamento emersi dalle indagini di caratterizzazione ambientale fossero già consolidati. L’attività dello stabilimento, infatti, avviata negli anni ’30, ha subito un forte ridimensionamento a partire dalla fine degli anni ’90. Le principali sorgenti della contaminazione, rappresentate dai depositi di residui dei processi lavorativi sparsi in diverse aree dello stabilimento, erano in loco da molti anni e non si è a conoscenza di contributi successivi a tale data. Ulteriore elemento a sostegno di tale tesi è che la dispersione di mercurio nelle acque dei canali lagunari, attraverso gli scarichi delle acque derivanti dal processo di lavorazione della cloro-soda, è stata interrotta a partire dal 1980. Infine, non risultano eventi di perdite, sversamenti, incidenti di alcun tipo che possano aver fornito un ulteriore contributo
all’inquinamento in sito. Le analisi condotte sulle acque di falda, seppur datate, hanno permesso di ricostruire nel 2013 un quadro di generale tendenza al miglioramento qualitativo, in ragione delle attività di messa in sicurezza realizzate dalla Caffaro negli anni, che hanno consentito l’isolamento idraulico di molti accumuli di rifiuti o l’eliminazione in toto degli stessi, nonché l’intercettazione dei flussi idrici transitanti nelle aree maggiormente contaminate. Queste considerazioni consentono di affermare con sufficiente sicurezza che, successivamente alla data del 2 gennaio 2004, non si sia assistito a nessun incremento significativo della contaminazione. Come conseguenza, tutte le misure di riparazione primaria e complementare individuate e riportate nei capitoli precedenti sono completamente da imputare alle attività dello stabilimento Caffaro antecedente alla data del 2 gennaio 2004”. In sostanza, il contesto di fatto consente di ritenere accertata l’inesistenza di fenomeni incrementali dei livelli di inquinamento nei siti di Torviscosa e di Colleferro, e che, invece, un incremento si è avuto nel sito di Brescia per la presenza -pur dopo il 2004 -di ulteriori sorgenti primarie di contaminazione (e in particolare di Mercurio) attive fino a oggi. Sorgenti di contaminazione che, tuttavia, pur sempre evocano il nesso causale con la condotta illecita di Snia anteriore alla scissione, essendo dovute -si dice in sentenza -“all’incuria nella gestione attuale e passata dell’ ex -area produttiva, legata ad attività precedenti al 2004”. Da qui l’univoca conclusione della c.t.u., recepita dalla Corte d’appello di Milano e costituente specifico accertamento di fatto, che per tutte le aree esiste il nesso causale tra attività industriale specifica posta in essere dalle società riconducibili al gruppo Snia e le contaminazioni presenti in loco. Occorre aggiungere che un tale nesso appare esser stato definito in coerenza con la normativa europea in materia di danno ambientale di cui alla Comunicazione 2021/C, 118/01, del 7.4.2021. Codesta, con riferimento alla pronuncia della Corte di giustizia in causa C378/08, ha riconosciuto, “per quanto riguarda il nesso di causalità”, che, qualora la legislazione di uno Stato membro lo preveda, “è sufficiente presumere l’esistenza del nesso sulla base di indizi plausibili”, che siano in
grado “di dare fondamento alla presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività”. Il che è proprio quanto si desume dalla sentenza definitiva, in termini ben vero neppure specificamente censurati sul versante della motivazione ».
In un contesto fattuale come quello così accertato, la medesima ordinanza interlocutoria n. 32362/2022 ha inquadrato il problema giuridico posto dal secondo motivo di ricorso, ricordando ( cfr . pag. 23) che « La ricorrente principale sostiene che, ai sensi dell’art. 2506 -bis cod. civ., non si potrebbero attribuire a essa beneficiaria i danni generati da condotte (omissive o commissive) tenute successivamente alla scissione, in violazione del limite temporale posto dalla normativa in rapporto agli “elementi del passivo” o ai “debiti” già esistenti al tempo della scissione medesima. Sicché la sentenza non definitiva è censurata per i riflessi sulla definitiva, in quanto avrebbe omesso di rilevare la differenza di ambito applicativo che sussiste tra le evocate discipline, essendo l’art. 2506 -bis cod. civ. incentrato sugli “elementi del passivo” e l’art. 2506quater viceversa sui “debiti”. La distinzione tra i concetti -asseritamente disattesa dalla corte territoriale -dovrebbe condurre ad includere nella nozione (contabile) di “debito” solo le passività di natura determinata ed esistenza certa, con scadenza e ammontare determinato, non confondibile con i “fondi” per rischi, con gli oneri e con gli “impegni”, visto che codesti -per l’appunto costituenti “elementi del passivo” -sarebbero rilevanti solo ai diversi fini dell’art. 2506 -bis cod. civ. ».
La risposta di detta ordinanza su questo punto è stata ( cfr . pag. 23-25), « in base alla norma di diritto interno, negativa in ordine alla presunta necessità di distinguere, anche ai fini della responsabilità solidale, i debiti dagli elementi del passivo col fine di intendere la norma stessa come tesa a riferire la solidarietà della beneficiaria solo al passivo già determinato prima della operazione di scissione. Non solo, infatti, la diversa affermazione di NOME involge profili di merito, oltre tutto con formulazione generica in
ordine alla postulata irrilevanza del nesso causale tra gli accertati fatti di sfruttamento ambientale (e di inquinamento) e le conseguenze determinatesi negli anni, ma non tiene conto -come già sottolineato -della motivazione con la quale la corte territoriale ha accertato l’esistenza di un nesso di causalità tra l’attività imputabile a RAGIONE_SOCIALE e alle società a essa nel tempo riferibili e l’inquinamento di tutte e tre le aree di cui è causa. Né la diversa affermazione di COGNOME si palesa congruente con l’essere stata quella di Snia una condotta inquadrabile nella categoria dell’illecito permanente. Il carattere permanente dell’illecito suppone che anteriori alla scissione debbano essere semplicemente i fatti generatori delle conseguenze dannose poi accertate, in questo caso da intendere sulla base della identificazione dell’attività idonea a determinare la responsabilità dell’agente per la definizione di un danno ambientale: fatti la cui anteriorità cronologica al 13 maggio 2003 la corte d’appello ha stabilito con netta sicurezza alla luce delle risultanze delle relazioni del c.d.a. di Snia (e dello stesso comitato di controllo) del 2002 e del 2003. Discorrendosi di scissione societaria, è in ciò da riscontrare l’esistenza anteriore del debito risarcitorio ai fini dell’eventuale solidarietà, sembrando codesto chiaramente compreso nella più ampia espressione (“elementi del passivo”) impiegata dal legislatore italiano nell’art. 2506 -bis cod. civ.; la quale espressione non implica alcuna predeterminata caratteristica qualitativa ai fini della potenziale assegnazione, potendo gli elementi del passivo ben essere rappresentati anche e proprio da debiti, e perfino da debiti autonomi rispetto agli asset che vengono scissi. Quel che resta decisivo, dunque, ai fini dell’esegesi della norma interna, è che dal giudice del merito è stata accertata, a carico di Snia, l’anteriorità della condotta generativa del danno ambientale come configurata sia dalla legge n. 349 del 1986 che dal d.lgs. n. 152 del 2006 (cd. T.u.a.), artt. 300 e seg. Questa identifica l’ambito della responsabilità risarcitoria per il conforme illecito permanente. Il fatto rilevante può consistere nella violazione di una qualunque prescrizione riferita ad attività umana da cui possa derivare un’alterazione o un deterioramento significativo dell’ambiente desumibile dall’insieme delle
regole dell’ordinamento, tra le quali rientrano sicuramente quelle relative all’illecito aquiliano e alla responsabilità derivante dall’esercizio di attività pericolose (art. 2050 cod. civ.). E difatti la nozione stessa di danno ambientale, tanto se declinata ai sensi dell’art. 18 della legge n. 349 del 1986, quanto se associata al T.u.a. (art. 300), comprende -è stato detto in modo condivisibile -tutte le conseguenze dei fatti accertati, dalla perdita definitiva (correlabile alla distruzione) o al deterioramento (o peggioramento qualitativo) di una risorsa ambientale, e finanche all’alterazione del bene ambiente in sé considerato, consistente nella modificazione definitiva dell’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio con una visibile modificazione degli assetti precedenti (cfr. Cass. Sez. 3 n. 8662-17, Cass. Sez. 3 n. 8468-19) ».
Quella stessa ordinanza, infine, ha ritenuto ( cfr . pag. 25-27) che « Questa interpretazione della norma di diritto interno è, ad avviso del Collegio, da prediligere senz’altro anche in funzione della ratio di tutela del creditore che la sottende. La stessa Corte di giustizia, con la sentenza 30-12020, esaminando rispetto alle scissioni delle società a responsabilità limitata il problema della tutela degli interessi dei creditori della società scissa ai fini dell’azione pauliana, ha d’altronde esplicitamente riconosciuto che la VI Direttiva impone, a termini dell’ottavo considerando, che “i creditori, obbligazionisti o no, ed i portatori di altri titoli delle società partecipanti alla scissione devono essere tutelati onde evitare che la realizzazione della li leda”. E che quindi ogni interpretazione delle afferenti norme deve garantire la sicurezza giuridica nelle relazioni sia fra le società partecipanti alla scissione che fra queste e i terzi. Tuttavia, è ovvio che l’interpretazione dell’art. 2506 -bis cod. civ. qui prediletta implica una conforme esegesi della corrispondente formula che caratterizza la VI Direttiva CE, rilevante pro tempore rispetto ai fatti accertati in causa. L’art. 3 della VI Direttiva, applicabile anche alla scissione mediante costituzione di nuove società (art. 22), contiene invero la regola per cui “se un elemento del patrimonio passivo non è attribuito nel progetto di scissione e l’interpretazione di quest’ultimo non permette di deciderne la ripartizione,
ciascuna delle società beneficiarie ne è solidalmente responsabile. Gli Stati membri possono prevedere che questa responsabilità solidale sia limitata all’attivo netto attribuito a ciascuna società beneficiaria”. In sostanza, si basa su dicitura incentrata su concetto analogo a quello poi trasposto nella norma interna: “elemento del patrimonio passivo non attribuito nel progetto di scissione “».
Pertanto, -si è concluso in quella sede -« La sostanziale equivalenza di formulazione impone a questa Corte, quale giudice di ultima istanza, di attivare, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia onde verificare dunque l’inesistenza, nella Direttiva, di ostacoli interpretativi rispetto alla anzidetta esegesi della norma interna ». Si è sottoposto, dunque, alla Corte di giustizia, il seguente quesito: « Se l’art. 3 della VI direttiva, applicabile (art. 22) pure alla scissione mediante costituzione di nuove società, -nella parte in cui stabilisce che (a) “se un elemento del patrimonio passivo non è attribuito nel progetto di scissione e l’interpretazione di quest’ultimo non permette di deciderne la ripartizione, ciascuna delle società beneficiarie ne è solidalmente responsabile” , e che (b) “gli Stati membri possono prevedere che questa responsabilità solidale sia limitata all’ attivo netto attribuito a ciascuna società beneficiaria” -osti a un’interpretazione della norma di diritto interno costituita dall’art. 2506 -bis, terzo comma, cod. civ. che intenda la responsabilità solidale della beneficiaria riferibile, quale “elemento del passivo” non attribuito dal progetto, oltre alle passività di natura già determinata, anche (i) a quelle identificabili nelle conseguenze dannose, prodottesi dopo la scissione, di condotte (commissive o omissive) venute in essere prima della scissione stessa o (ii) delle condotte successive che ne siano sviluppo, aventi natura di illecito permanente, generative di un danno ambientale, i cui effetti, al momento della scissione, non siano ancora compiutamente determinabili ».
5.3. A questo interrogativo la Corte di Giustizia ha dato risposta con la sentenza del 29 luglio 2024, nella causa C-713/22, nella quale ha sancito che « L’art. 3, paragrafo 3, lettera b), della sesta direttiva 82/891/CEE del Consiglio, del 17 dicembre 1982, basata sull’art. 54, paragrafo 3, lettera g),
del Trattato e relativa alle scissioni delle società per azioni, deve essere interpretato nel senso che: la regola della responsabilità solidale delle società beneficiarie enunciata da tale disposizione si applica non soltanto agli elementi di natura determinata del patrimonio passivo non attribuiti in un progetto di scissione, ma anche a quelli di natura indeterminata, come i costi di bonifica e per danni ambientali che siano stati constatati, valutati o definiti dopo la scissione di cui trattasi, purché essi derivino da comportamenti della società scissa antecedenti all’operazione di scissione ».
In particolare, i giudici eurounitari hanno ritenuto che: i ) « la nozione di ‘elementi del patrimonio passivo’, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 3, lettera b), prima frase, della sesta direttiva 82/891, esige che i debiti in questione siano, di principio, esistenti. Infatti, poiché un progetto di scissione deve contenere la descrizione e la ripartizione esatte degli elementi del patrimonio passivo da trasferire, tali elementi devono essere venuti ad esistenza anteriormente alla scissione in questione. Nel caso di costi di bonifica e per danni ambientali, tale requisito implica, dunque, che l’illecito o il fatto generatore di tali danni si sia verificato anteriormente alla scissione, ma non che, a questa data, tali danni siano stati constatati o valutati, o anche che siano stati definiti » ( cfr . § 64); ii ) « per quanto riguarda gli obiettivi della sesta direttiva 82/891, occorre ricordare che il quinto considerando di quest’ultima menziona, tra tali obiettivi, la tutela degli interessi dei soci e dei terzi. Risulta, inoltre, dall’ottavo considerando della citata sesta direttiva che quest’ultima mira altresì a tutelare i creditori e i portatori di altri titoli e precisa che questi devono essere tutelati onde evitare che la realizzazione della scissione in questione li leda. Discende, infine, dall’undicesimo considerando della medesima sesta direttiva che quest’ultima mira ad assicurare la certezza del diritto sia nei rapporti fra le società partecipanti alla scissione, sia nei rapporti fra queste ed i terzi nonché tra gli azionisti di tali società. Orbene, la nozione di ‘ terzi ‘ utilizzata segnatamente nei considerando quinto e undicesimo della sesta direttiva 82/891 è più ampia di quella, utilizzata nell’ottavo considerando della
medesima direttiva, di ‘ creditori, obbligazionisti o no, ed i portatori di altri titoli delle società partecipanti alla scissione ‘ , tenendo presente che tali creditori e tali portatori di altri titoli costituiscono l’oggetto di talune misure specifiche di tutela previste, segnatamente, agli articoli 12 e 13 della sesta direttiva sopra citata (v., per analogia, sentenza del 5 marzo 2015, RAGIONE_SOCIALE, C-343/13, EU:C:2015:146, punto 31). Occorre dunque considerare che tra i terzi dei quali la sesta direttiva 82/891 mira a tutelare gli interessi rientrano persone che, alla data della scissione di cui trattasi, non sono ancora qualificabili come creditori o portatori di altri titoli, ma che possono essere così qualificate dopo tale scissione in virtù di situazioni sorte prima di quest’ultima, come la commissione di violazioni del diritto dell’ambiente che vengano constatate tramite decisione soltanto dopo la scissione in parola (v., per analogia, sentenza del 5 marzo 2015, Modelo Continente RAGIONE_SOCIALE, C-343/13, EU:C:2015:146, punto 32). Tale interpretazione della nozione di ‘ terzi ‘ , ai sensi della sesta direttiva 82/891, corrobora quella della nozione di ‘ elementi del patrimonio passivo ‘ , di cui all’articolo 3, paragrafo 3, lettera b), prima frase, della medesima direttiva, nel senso che essa ricomprende anche le passività di natura indeterminata, come i costi di bonifica e per danni ambientali che siano stati constatati, valutati o definiti dopo la scissione in questione, ma che derivino da comportamenti antecedenti a tale scissione. Qualora non si accogliesse tale interpretazione della nozione di ‘ elementi del patrimonio passivo ‘ , di cui all’articolo 3, paragrafo 3, lettera b), prima frase, della sesta direttiva 82/891, una scissione potrebbe costituire un mezzo per un’impresa per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti da essa eventualmente commessi, a discapito dello Stato membro interessato o di altri eventuali interessati (v., per analogia, sentenza del 5 marzo 2015, RAGIONE_SOCIALE, C-343/13, EU:C:2015:146, punto 33). Infatti, sarebbe sufficiente a tal fine che tale impresa procedesse ad un’operazione di scissione prima che siano stati valutati i costi di bonifica e per danni ambientali risultanti da comportamenti antecedenti a tale scissione. Orbene, dai considerando menzionati al punto 65 della presente sentenza risulta
altresì che la sesta direttiva 82/891 mira per l’appunto ad evitare che un’impresa si sottragga ai propri obblighi nei confronti dei soggetti cointeressati, come i suoi soci, i suoi azionisti, i suoi creditori od anche i terzi riguardati, per effetto della scissione di una società per azioni ricadente sotto il suo controllo. Inoltre, occorre rilevare che tale interpretazione non conferisce ai terzi una tutela eccessiva a discapito delle società di nuova costituzione, dato che la seconda frase dell’articolo 3, paragrafo 3, lettera b), della sesta direttiva 82/891 permette agli Stati membri di limitare la responsabilità solidale di dette società all’importo dell’attivo che è stato ad esse attribuito nel progetto di scissione di cui trattasi » ( cfr . §§ 65-70); iii ) la nozione di ‘ elementi del patrimonio passivo ‘, desunta dalla Sesta direttiva, « mira ad evitare che l’impresa che è all’origine dell’attività inquinante possa sottrarsi ai propri obblighi nei confronti dei soggetti cointeressati per effetto di una scissione di una società per azioni ricadente sotto il suo controllo » ( cfr . § 71); iv ) « la nozione di ‘elementi del patrimonio passivo’, di cui all’articolo 3, paragrafo 3, lettera b), prima frase, della sesta direttiva 82/891, ricomprende non soltanto le passività di natura determinata, ma anche quelle di natura indeterminata, come i costi di bonifica e per danni ambientali che siano stati constatati, valutati o definiti dopo la scissione di cui trattasi, risultanti da comportamenti antecedenti a tale scissione. Per contro, per quanto riguarda i comportamenti successivi all’operazione di scissione che sono lo sviluppo di comportamenti della società scissa antecedenti a tale operazione, risulta dal punto 64 della presente sentenza che la nozione di ‘ elemento del patrimonio passivo ‘ , ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 3, lettera b), della sesta direttiva 82/891, ricomprende soltanto i costi di bonifica e per danni ambientali risultanti da comportamenti della società scissa già realizzati alla data di tale scissione. La sesta direttiva 82/891 prevede soltanto un sistema minimo di tutela degli interessi dei terzi, menzionati al punto 67 della presente sentenza, per gli elementi del patrimonio passivo che scaturiscono da comportamenti antecedenti alla scissione in questione (v., per analogia, sentenza del 30 gennaio 2020, I.G.I., C-394/18, EU:C:2020:56, punti 67 e 74). Pertanto, la questione se
dei comportamenti successivi a tale scissione, che siano però lo sviluppo di comportamenti antecedenti della società scissa, possano essere imputati a tale società, con la conseguenza che l’obbligo di risarcire i danni così cagionati, in quanto elementi del patrimonio passivo, verrà trasferito alle società beneficiarie secondo le modalità definite dalla sesta direttiva 82/891, deve essere risolta sulla base del diritto nazionale (v., in tal senso, sentenza del 13 luglio 2017, Túrkevei Tejtermelő Kft., C -129/16, EU:C:2017:547, punto 45 e la giurisprudenza ivi citata) » ( cfr . §§ 72-74).
5.4. Orbene, alla luce della riportata pronuncia della Corte di Giustizia, la descritta soluzione di diritto interno prospettata nell’ordinanza interlocutoria n. 32365/2022 -che questo Collegio, condividendola, intende, ove necessario, ribadire -non trova ostacolo nella disciplina eurounitaria, tanto più che, come osservato dalla menzionata Corte, la Sesta direttiva è una direttiva di armonizzazione minima, non precludendo agli Stati membri di istituire strumenti ulteriori di tutela dei creditori.
Nella specie, dunque, deve trovare applicazione la normativa nazionale, secondo l’interpretazione offerta ne dalla citata ordinanza interlocutoria, che prevede non solo la responsabilità della società beneficiaria per le condotte antecedenti alla scissione, ma anche per le conseguenze successive che ne siano sviluppo. Ciò anche perché la disciplina in materia di scissione tende a garantire l’esigenza di fondo di piena neutralità dell’operazione rispetto alla posizione dei creditori ed altresì dei ‘cointeressati’, secondo l’esegesi del termine proposta dalla pronuncia sopra menzionata del giudice eurounitario.
Invero, come si è già detto richiamandosi, in parte qua , l’ordinanza interlocutoria che ha sollevato la questione pregiudiziale, « in punto di fatto, è stato accertato dalla Corte di Appello … che esiste un nesso di causalità tra l’attività svolta da RAGIONE_SOCIALE e dalle società a essa nel tempo riferibili e l’inquinamento delle aree di cui è causa », ragione per cui quel provvedimento, « in base alla norma di diritto interno », ha inteso fornire risposta « negativa in ordine alla presunta necessità di distinguere, anche ai fini della responsabilità solidale, i debiti dagli elementi del passivo col fine di intendere la norma stessa come tesa a riferire la solidarietà della
beneficiaria solo al passivo già determinato prima della operazione di scissione »: ciò in ragione del fatto che « il carattere permanente dell’illecito … suppone che anteriori alla scissione debbano essere semplicemente i fatti generatori delle conseguenze dannose poi accertate ». In altri termini, « quel che resta decisivo, ai fini della norma interna, è che dal giudice di merito è stata accertata, a carico di Snia, l’anteriorità della condotta generativa del danno ambientale come configurata sia dalla legge n. 349 del 1986 che dal d.lgs. n. 152 del 2006 (c.d. T.u.a.), art. 300 e seg. ».
Si deve concludere, allora, che, nella fattispecie in esame, alla stregua degli accertamenti fattuali descritti dalla corte distrettuale: i ) non è più in discussione, in virtù della consulenza tecnica espletata in appello, l’esistenza di un nesso di causalità tra l’attività svolta da RAGIONE_SOCIALE e l’inquinamento delle aree di cui è causa, essendo stata accertata la responsabilità della prima, quale proprietaria delle aree e degli stabilimenti e/o quale gestore diretto e capogruppo delle società via via partecipate e acquisite, per un’intensa attività di sfruttamento ambientale protrattasi nei tre siti de quibus con gravissime conseguenze di inquinamento ( cfr . pag. 50 della sentenza definitiva n. 3294 del 2021); ii ) dopo la scissione avvenuta nel maggio 2003, ma avente effetto dal 2 gennaio 2004, è stata verificata l’inesistenza di fenomeni incrementali dei livelli di inquinamento nei siti di Torviscosa e di Colleferro, e che, invece, un incremento si è avuto nel sito di Brescia. Più precisamente, detto incremento è stato ricondotto alla presenza -pur dopo il 2004 -di ulteriori sorgenti di contaminazione (e, in particolare, di mercurio) attive fino ad oggi. Sorgenti di contaminazione che, tuttavia, pur sempre evocano il nesso causale con la condotta illecita di Snia anteriore alla scissione, essendo dovute all’incuria della gestione attuale e passata dell’ ex area produttiva, legata ad attività precedenti al 2004 ( cfr., amplius , pag. 48-49 della medesima sentenza); iii ) i debiti che RAGIONE_SOCIALE ritiene essere successivi alla scissione, sono, in realtà, il risultato dell’inevitabile aggravamento del disastro ambientale post scissione per non avere Snia provveduto ad adempiere gli obblighi di bonifica, anche a causa dello spostamento di risorse di cui ha beneficiato RAGIONE_SOCIALE (oggi RAGIONE_SOCIALE
PLC); iv ) l’assunto della odierna ricorrente principale secondo cui sarebbero stati illegittimamente ascritti alla RAGIONE_SOCIALE (oggi RAGIONE_SOCIALE, quale beneficiaria della scissione, anche gli aggravamenti del danno verificatisi dopo la scissione, non merita seguito, atteso che, come già chiarito, del tutto condivisibilmente, nell’ordinanza interlocutoria n. 32365/2022 pronunciata da questa Corte, « il carattere permanente dell’illecito suppone che anteriori alla scissione debbano essere semplicemente i fatti generatori delle conseguenze dannose poi accertate ».
Alteris verbis , è certo che le attività industriali che hanno causato i danni ambientali nei tre siti interessati iniziarono molto prima del 13 maggio 2003, data di adozione del progetto di scissione, e del 2 gennaio 2004, data di efficacia della scissione medesima, e dipesero tutte da decisioni di RAGIONE_SOCIALE, sia quale gestore diretto delle attività, sia quale capogruppo delle società che svolsero le attività stesse. La responsabilità di Snia per le attività dannose in questione dipende, inoltre, dal fatto che quest’ultima, anteriormente al 13 maggio 2003 ed al 2 gennaio 2004, era proprietaria, o comunque aveva la disponibilità tramite società satelliti, dei siti nei quali le attività inquinanti si svolsero. Tali attività cessarono in misura pressoché integrale anteriormente al 13 maggio 2003 ed al 2 gennaio 2004, ma ciò non fece venire meno le loro conseguenze inquinanti, che continuarono a prodursi, come tuttora in larga misura si producono. È altresì certo che Snia non realizzò, né prima né dopo il 13 maggio 2003 ed il 2 gennaio 2004, le attività di ripristino ambientale rese necessarie dal processo di inquinamento da essa causato e tuttora in atto.
Si tratta di circostanze tutte accertate dalla corte distrettuale ( cfr . soprattutto la sentenza non definitiva n. 3294 del 2021), né suscettibili di rivisitazione in questa sede di legittimità. Snia, quindi, era responsabile del danno ambientale in questione da data ben anteriore al 13 maggio 2003 ed al 2 gennaio 2004, e rimane tuttora, ininterrottamente, responsabile del danno stesso, che continua a prodursi in mancanza da parte sua di attività di ripristino idonee ad eliminarlo. Pertanto, i debiti che NOME PLC ritiene essere successivi alla scissione altro non sono che il risultato dell’inevitabile
aggravamento del disastro ambientale post scissione per non avere Snia provveduto ad adempiere gli obblighi di bonifica, anche a causa dello spostamento di risorse di cui ha beneficiato RAGIONE_SOCIALE (oggi RAGIONE_SOCIALE). Né può dirsi che tali debiti siano stati illegittimamente ascritti alla RAGIONE_SOCIALE (oggi RAGIONE_SOCIALE), quale beneficiaria della scissione, anche quanto agli aggravamenti dei danni verificatisi dopo la scissione, dovendosi qui nuovamente ribadire che il carattere permanente dell’illecito suppone che anteriori alla scissione debbano essere semplicemente i fatti generatori delle conseguenze dannose poi accertate.
Va ricordato, infine, che ” L’operatore non è tenuto a sostenere i costi ” soltanto ” quando è in grado di dimostrare che i danni in questione sono opera di un terzo e si sono verificati nonostante l’esistenza di idonee misure di sicurezza o sono conseguenza di un ordine o di un’istruzione impartiti da un’autorità pubblica ” ( cfr . art. 8, par. 3, direttiva 2004/35, applicabile anche alle fattispecie -come quella di cui qui di discute -in cui persiste la contaminazione ambientale. Cfr. Corte Giust. 1.6.2017, C-529/15). Tuttavia, qui non si versa in alcuna di queste ipotesi di esclusione, sicché la doglianza in esame non può che essere rigettata. Opinare diversamente significherebbe fornire un commodus discessus all’autore della violazione, altresì vanificando (o comunque depotenziando) la disciplina eurounitaria che persegue l’obiettivo dell’internalizzazione dei costi ambientali da parte delle imprese, le quali, invece, nello svolgimento della loro attività, sono tenute a prendere in considerazione gli effetti delle scelte gestionali e della strategia produttiva, effettuando ex ante un’analisi costi-benefici, se vogliono prevenire conseguenze dannose ( cfr . Corte Giust. 9.3.2010, C378/08). Proprio per questo, la direttiva 2004/35 prevede che, quando un danno si è verificato, gli operatori devono adottare ” tutte le iniziative praticabili per controllare, circoscrivere, eliminare o gestire in altro modo, con effetto immediato, gli inquinanti in questione e/o qualsiasi altro fattore di danno, allo scopo di limitare o prevenire ulteriori danni ambientali e effetti nocivi per la salute umana o ulteriori deterioramenti dei servizi ” (art. 6, par. 1, lett. a). Del resto, è ormai consolidata nell’ordinamento
eurounitario la necessità di imporre al soggetto inquinatore di riparare anche le conseguenze future eziologicamente addebitabili alla propria condotta, attiva od omissiva, in applicazione non solo della direttiva 2004/35, ma altresì dei principi eurounitari in materia: in particolare, il principio ” chi inquina paga ” e quello di ” correzione in via prioritaria alla fonte “, per effetto della cui applicazione, come condivisibilmente riferito dalla difesa erariale, « le esternalità negative vengono ( rectius : devono essere) addossate al soggetto cui sia riferibile l’attività, così evitando alterazioni di mercato, senza oneri per la collettività ovvero costi assunti in via definitiva dall’ente pubblico » ( cfr . pag. 4 della memoria dell’Avvocatura dello Stato del 13 febbraio 2025).
6. Il terzo motivo del ricorso principale (n.r.g. 31634/2021) di RAGIONE_SOCIALE denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2497 cod. civ. e, in subordine, dell’art. 2043 del medesimo codice, per avere la sentenza (non definitiva) imputato a Snia le responsabilità ambientali delle controllate a titolo di capogruppo, in violazione della disciplina sulla responsabilità da direzione e coordinamento e di quella sulla distinta personalità giuridica delle singole società. La critica di RAGIONE_SOCIALE si dipana dal rilievo che la disciplina di cui all’art. 2497 cod. civ. in tema di responsabilità da direzione e coordinamento ha natura prettamente sostanziale e, pertanto, non sarebbe direttamente applicabile ad una domanda che investe condotte ed eventi di danno realizzati già in epoca precedente l’entrata in vigore del d.lgs. n. 6 del 2003. Poiché la scissione si è perfezionata, nel caso concreto, il 2 gennaio 2004, le uniche condotte rilevanti ai fini dell’insorgenza di eventuali responsabilità in capo a RAGIONE_SOCIALE (in solido con RAGIONE_SOCIALE) avrebbero dovuto essere quelle precedenti alla scissione. Da tanto la corte d’appello avrebbe dovuto dedurre l’inapplicabilità dell’art. 2497 cod. civ. al caso di specie. Dopodiché, la ricorrente principale aggiunge che, in ogni caso, l’art. 2497 cod. civ., riguardando l’azione fatta valere dai creditori di una società eterodiretta per il danno subito a causa della lesione all’integrità del patrimonio causata dalla eterodirezione abusiva, non sarebbe pertinente: questo in ragione del fatto che la parte attrice, nel concreto, non è stata
riconosciuta come creditrice della eterodiretta, cioè della società RAGIONE_SOCIALE, non essendo stata ammessa allo stato passivo di quest’ultima, né sarebbe stata legittimata ad esercitare l’azione perché, essendo Caffaro in amministrazione straordinaria, ai sensi dell’art. 2497 cod. civ. l’azione spettante ai creditori di RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto essere esercitata dal commissario straordinario. Del resto, la sentenza -tanto la parziale quanto la definitiva -non avrebbe individuato le condotte di Snia determinative dell’impoverimento della società RAGIONE_SOCIALE e neppure affermato, invero, il carattere abusivo dell’eterodirezione di Snia.
6.1. Questa doglianza si rivela complessivamente insuscettibile di accoglimento perché inammissibilmente volta, in sostanza, a contestare accertamenti fattuali compiuti dal giudice di merito (e di cui si è dato ampiamente conto scrutinandosi il precedente motivo) circa la responsabilità di RAGIONE_SOCIALE, diretta o come capogruppo, per non aver controllato o non aver impedito condotte pregiudizievoli (anche) delle società da essa controllate, alcune delle quali, peraltro, erano state incorporate per fusione dalla stessa RAGIONE_SOCIALE, succeduta, pertanto, nelle loro corrispondenti obbligazioni.
In proposito, infatti, è doveroso ricordare, da un lato, che una fonte della responsabilità RAGIONE_SOCIALE è stata ricondotta proprio alla sua posizione successoria nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, a seguito della fusione per incorporazione nella prima avvenuta il 21 marzo 2000, ed alla sua qualità di socio unico di RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE, poi divenuta, dal 2004, RAGIONE_SOCIALE) a far data dal 3 aprile 2000, ex art. 2462, comma 2, cod. civ., per omissione della dichiarazione di unipersonalità di cui all’art. 2470, comma 4, cod. civ. ( cfr. amplius , pag. 2628, lett. d] , della sentenza non definitiva n. 973/2019) ; dall’altro, che, quanto all’ imputabilità a RAGIONE_SOCIALE (oggi RAGIONE_SOCIALE di condotte di Snia successive all ‘avvenuta scissione con efficacia dal 2 gennaio 2004, già si è esaustivamente detto respingendosi il motivo precedente.
Il tutto non senza evidenziare che la problematica dei debiti sorti o constatati successivamente rispetto alla scissione è cosa evidentemente diversa rispetto alla responsabilità ex artt. 2497 o 2043 cod. civ.
Conseguentemente, è sufficiente qui ribadire che il giudizio di legittimità non può essere trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative ( cfr . Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. nn. 32026 e 40493 del 2021; Cass. nn. 30435, 35041 e 35870 del 2022; Cass. nn. 27522, 30878 e 35782 del 2023; Cass. nn. 10712, 19423, 25495 e 33909 del 2024; Cass. nn. 1918, 2040 e 2115 del 2025).
6.2. A tanto deve aggiungersi che la responsabilità della società controllante, in presenza di situazioni analoghe a quelle descritte dall’art. 2497 cod. civ. ed in relazione a periodi precedenti all’entrata in vigore di quest’ultima disposizione , comunque può essere recuperata agevolmente sulla base del principio generale del neminem laedere di cui all’art. 2043 cod. civ. ( cfr . Cass. n. 14876 del 2022), sicché proprio l’invocabilità d i quest’ultimo consente di non limitare l’area risarcitoria a quanto espressamente previsto dal citato art. 2497 cod. civ.
In definitiva, oltre alla responsabilità iure successionis , va ritenuta, nella specie, la responsabilità diretta della controllante (se del caso anche ex art. 2043 e/o 2050 cod. civ.), che ha chiaramente ammesso (come rimarcato alle pagg. 25-26 della sentenza non definitiva n. 973/2019) di avere significativamente indirizzato l’attività delle controllate, per i danni ambientali reclamati dai Ministeri ( cfr . il principio chi inquina paga , di cui all’art. 3 -ter , T.U. Amb.).
Il quarto motivo del ricorso principale in esame denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 18 della legge n. 349 del 1986, 311 e 300 del Testo unico dell’ambiente ( brevite r, T.u.a.) e degli artt. 17 del d.lgs. n. 92 del 1997 e 2043 cod. civ., per avere la corte d’appello
fornito una interpretazione errata del principio ” chi inquina paga “, nonché una errata estensione retroattiva dell’applicazione delle obbligazioni di bonifica anche in combinato disposto con l’art. 2504bis cod. civ. nella versione anteriore alla riforma. Si sostiene che la corte d’appello, interpretando ed applicando correttamente il suddetto principio di matrice comunitaria, avrebbe dovuto rilevare che il danno ambientale lamentato dalle Pubbliche Amministrazioni era relativo, in realtà, ad una situazione di contaminazione non riconducibile, nella sua interezza, alle attività del RAGIONE_SOCIALE né, tantomeno, alle singole società del Gruppo che si erano succedute ed avevano operato nei siti, per lo meno in mancanza di una precisa e rigorosa allegazione e prova di quali forme di contaminazione fossero state riconducibili alle società suddette rispetto a quelle riconducibili ad altre fonti, naturali o artificiali.
7.1. Questa doglianza, stante la chiara connessione che li caratterizza, può essere scrutinata congiuntamente al settimo motivo del medesimo ricorso principale, in cui è stata lamentata la violazione o falsa applicazione dell’art. 303 del T.u.a. (d.lgs. n. 152 del 2006) e degli artt. 18 della legge n. 349 del 1986 e 2043 cod. civ., per avere l’impugnata sentenza applicato retroattivamente la disciplina della Parte VI del testo unico citato rispetto a fenomeni di inquinamento manifestatisi prima della sua entrata in vigore.
7.2. Entrambe si rivelano infondate alla stregua delle considerazioni tutte di cui appresso.
7.3. Per valutare tali censure, che investono pure i requisiti normativi per ritenere la sussistenza del danno ambientale, è necessario riassumere la successione e le modifiche intervenute nel tempo delle norme in materia.
Orbene, come ricordato da Cass. n. 8662 del 2017 ( cfr . 32 e ss. della motivazione), anteriormente all’attuazione della Direttiva 2004/35/CE da parte del d.lgs. n. 152/2006, in Italia coesistevano essenzialmente tre discipline dei danni provocati all’ambiente, previste dalle seguenti disposizioni normative: l’art. 18 della legge n. 349 del 1986, l’art. 17 del d.lgs. n. 22/1997, in tema di bonifica dei siti contaminati, e l’art. 58 del d.lgs. n. 152/1999, in materia di tutela delle acque. Tutte e tre le
disposizioni prevedevano una responsabilità a carico di chiunque danneggiasse l’ambiente, non espressamente ed esclusivamente a carico dell’operatore nell’ambito di un’attività professionale, come stabilisce, invece, la Direttiva 2004/35/CE. Tutte prescrivevano l’obbligo di ripristino salvo, però, la legge n. 349 del 1986 che prevedeva anche la possibilità di risarcimento per equivalente qualora il ripristino non fosse possibile.
L’art. 18 della legge n. 349 del 1986 succede all’elaborazione, da parte della giurisprudenza, di un sistema di responsabilità basato sugli strumenti privatistici tradizionali, che delimitavano la tutela a situazioni giuridiche soggettive, come proprietà e salute, oltreché sulle norme contenute nella Costituzione, sulle quali si è tentato di costruire un diritto all’ambiente salubre.
7.3.1. Questa Corte ha più volte affermato che l’ambiente in senso giuridico, quale bene unitario ma anche immateriale, è espressione di un autonomo valore collettivo, specifico oggetto, come tale, di tutela da parte dell’ordinamento, che non si è realizzata soltanto a partire dalla legge n. 349 del 1986, il cui art. 18, pur essendo norma non retroattiva, ha avuto una funzione ricognitiva di un assetto che già trovava radice nella Carta costituzionale (artt. 2, 3, 9, 32, 41 e 42 Cost.) e, ai fini di una tutela piena ed organica, nell’art. 2043 cod. civ., là dove il citato art. 18 è intervenuto a definire e tipizzare l’illecito ambientale, richiedendone, quale elemento costitutivo, una condotta dolosa o colposa che sia violatrice ” di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge, che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte “. Pertanto, ai fini dell’integrazione della responsabilità civile per danno ambientale in relazione a fatti anteriori alla legge n. 349 del 1986 -e, dunque, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. -il danno ingiusto deve essere determinato da una condotta, attiva od omissiva, sorretta dall’elemento soggettivo intenzionale, cioè dal dolo o dalla colpa. Mentre, nella vigenza della legge speciale, la predetta condotta deve anche essere qualificata dalla ” violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge ” ( cfr . Cass n. 3259 del 2016).
Ai sensi dell’art. 18 suddetto, ” qualunque fatto doloso o colposo, in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a Legge, che comprometta l’ambiente ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato “. La responsabilità prevista è di tipo soggettivo e l’ampiezza della nozione di danno ambientale prevede, oltre al danno, inteso come la perdita di una qualità della risorsa, il deterioramento, cioè il peggioramento qualitativo della risorsa, la distruzione, cioè la perdita definitiva dell’intera risorsa ambientale interessata, oltre che l’alterazione della stessa. Per il sorgere della responsabilità ai sensi della legge n. 349/1986, quindi, era sufficiente una modificazione di una caratteristica qualitativa della risorsa ambientale, non necessariamente peggiorativa, né irreversibile. Titolare del diritto al risarcimento è lo Stato ma la legittimazione concorrente spetta altresì agli enti territoriali sui quali insistono i beni ambientali lesi. Infatti, nella scelta degli elementi che il giudice deve considerare per determinare, in via equitativa, l’ammontare del danno qualora una precisa quantificazione non sia possibile, deve considerare, oltre al costo necessario per il ripristino dell’ambiente danneggiato, la gravità della colpa individuale ed il profitto conseguito dal responsabile in conseguenza della trasgressione di legge che ha causato il danno. Nonostante l’espressa abrogazione, da parte del d.lgs. n. 152/2006, dell’art. 18 della legge del 1986, esso rimane applicabile ai danni ambientali causati da fatti illeciti compiuti precedentemente alla sua entrata in vigore.
7.3.2. L’Italia, successivamente, ha attuato la Direttiva 2004/35 adottando il d.lgs. n. 152 del 2006, che costituisce il Testo Unico sull’Ambiente (TUA). In apertura, l’art. 3ter prevede che la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante un ‘ adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente.
La Parte VI del TUA, intitolata ” Norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente “, prevede ben tre procedure, due di natura amministrativa ed una giudiziale. Ai sensi dell’art. 300, n. 1, del d.lgs. n. 152/2006, è danno ambientale ” qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima “. Inoltre, ai sensi dell’art. 300, n. 2, del medesimo d.lgs., la definizione di danno ambientale riprende espressamente la definizione di danno contenuta nella Direttiva, la quale specifica le matrici ambientali prese in considerazione: le specie e gli habitat naturali protetti, le acque interne e costiere ed il terreno, così come circoscritte nel testo comunitario.
La legge italiana, dunque, sembra attuare una maggior tutela, contemplando un concetto più ampio di danno ambientale (art. 300, nn. 1 e 2) che può investire una qualsiasi risorsa naturale e la sua utilità, in conformità al favore disposto dalla normativa europea nei confronti di disposizioni nazionali più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale.
Il Titolo III del TUA, intitolato ” Risarcimento del danno ambientale “, contiene una disciplina di natura prevalentemente pubblicistica, ma con caratteri di tipo privatistico. Innanzitutto, è prevista l’alternativa tra l’azione giudiziaria di risarcimento, in sede civile e penale, ed il potere di istruttoria e di ingiunzione del risarcimento in forma specifica e per equivalente del danno ambientale. Di entrambi titolare è esclusivamente il Ministro dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare.
Il modello di responsabilità disciplinato nel d.lgs. n. 152/2006 rievoca quello configurato con l’art. 18 dalla legge n. 349 del 1986, che, a sua volta, era plasmato sulla figura della responsabilità aquiliana. Da entrambi eredita la natura soggettiva e dalla prima il presupposto della violazione di leggi e regolamenti quale elemento essenziale dell’illecito, oltreché la contemplazione della semplice ” alterazione “, sufficiente a configurare il danno ambientale. È sancito che il responsabile è obbligato all’effettivo ripristino a sue spese della precedente situazione e, in mancanza, all’adozione di misure di riparazione complementare e compensativa di cui
alla Direttiva 2004/35/CE. Ma si aggiunge che quando l’effettivo ripristino o l’adozione di misure di riparazione complementare o compensativa risultino in tutto o in parte omessi, impossibili o eccessivamente onerosi ex art. 2058 cod. civ. o comunque attuati in modo incompleto o difforme rispetto a quelli prescritti, il danneggiante è obbligato in via sostituiva al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato.
7.3.3. Il successivo d.l. 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, ha precisato, poi, all ‘ art. 5bis -per neutralizzare la prima contestazione della UE del 2008 -(con normativa applicabile anche ai giudizi in corso in luogo della previgente legge n. 349 del 1986, art. 18, salva la sola formazione del giudicato) che il danno all’ambiente deve essere risarcito con le misure di riparazione ” primaria “, ” complementare ” e ” compensativa ” previste dalla Direttiva 2004/35/CE: stabilendo un eventuale risarcimento per equivalente pecuniario esclusivamente se le misure di riparazione del danno all’ambiente fossero state in tutto o in parte omesse, impossibili o eccessivamente onerose o fossero state attuate in modo incompleto o difforme rispetto a quelle prescritte.
7.3.4. Allo scopo di conformare la disciplina italiana a quella dettata dalla Direttiva n. 35/2004 e di porre fine alle procedure di infrazione aperte dalla Commissione UE, è stata emanata la Legge Europea 6 agosto 2013, n. 97. Viene aggiunto l’art. 298bis che introduce la distinzione tra tipi di responsabilità a seconda delle attività coinvolte, ai sensi della Direttiva. In particolare, esso dispone che ” la disciplina della parte sesta del presente decreto si applica a) al danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell’allegato 5 …. b) al danno ambientale causato da un’attività diversa da quelle elencate nell’allegato V in caso di comportamento doloso o colposo “. E continua: ” 2) La riparazione del danno ambientale deve avvenire …. anche mediante l’esperimento dei procedimenti finalizzati a conseguire dal soggetto che ha causato il danno, o la minaccia imminente di danno, le risorse necessarie a coprire i costi relativi alle misure di riparazione da adottare e non attuate dal medesimo
soggetto ‘ . All’art. 299, comma 1, è soppresso il riferimento alla ” Direzione generale per il danno ambientale “, mentre, al comma 5, è eliminato il riferimento all ‘ ” equivalente patrimoniale “. Nell’art. 303, comma 1, lettera f), sono soppresse le parole da ” i criteri di determinazione dell’obbligazione risarcitoria ” fino alla fine della lettera. All’ art. 303, comma 1, la lettera i] , è abrogata. All’art 311, nella rubrica, le parole ” e per equivalente patrimoniale ” sono soppresse. Il comma 2 è sostituito dal seguente: ” Quando si verifica un danno ambientale cagionato dagli operatori le cui attività sono elencate nell’allegato 5 alla presente parte sesta, gli stessi sono obbligati all’adozione delle misure di riparazione di cui all’allegato 3 alla medesima parte sesta secondo i criteri ivi previsti, da effettuare entro il termine congruo di cui all’art. 314, comma 2, del presente decreto. Ai medesimi obblighi è tenuto chiunque altro cagioni un danno ambientale con dolo o colpa. Solo quando l’adozione delle misure di riparazione anzidette risulti in tutto o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, il MATTM determina i costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione e agisce nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti “. Il comma 3 è sostituito dal seguente: ” Il MATTM provvede in applicazione dei criteri enunciati negli allegati 3 e 4 della presente parte sesta alla determinazione delle misure di riparazione da adottare e provvede con le procedure di cui al presente titolo II all’accertamento delle responsabilità risarcitorie. Con decreto del MATTM, sentito il Ministro dello sviluppo economico, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 39 400, sono definiti, in conformità a quanto previsto dal punto 1.2.3. dell’allegato 3 alla presente parte sesta i criteri ed i metodi, anche di valutazione monetaria, per determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa. Tali criteri e metodi trovano applicazione anche ai giudizi pendenti non ancora definiti con sentenza passata in giudicato alla data di entrata in vigore del decreto di cui al periodo precedente. Nei casi di concorso nello stesso evento di danno,
ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale. Il relativo debito si trasmette, secondo le leggi vigenti, agli eredi, nei limiti del loro effettivo arricchimento “. All’articolo 313, comma 2, le parole: ‘ o il ripristino risulti in tutto o in parte impossibile, oppure eccessivamente oneroso ai sensi dell’articolo 2058 del codice civile, il MATTM con successiva ordinanza, ingiunge il pagamento, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica, di una somma pari al valore economico del danno accertato o residuato, a titolo di risarcimento per equivalente pecuniario ‘ sono sostituite dalle seguenti: ‘ o all’adozione delle misure di riparazione nei termini e modalità prescritti, il MATTM determina i costi delle attività necessarie a conseguire la completa attuazione delle misure anzidette secondo i criteri definiti con il decreto di cui al comma 3 dell’articolo 311 e, al fine di procedere alla realizzazione delle stesse, con ordinanza ingiunge il pagamento, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica, delle somme 40 corrispondenti ‘ All’articolo 314, comma 3, il secondo e il terzo periodo sono soppressi.
7.4. Dall’esame delle norme succedutesi nel tempo, si osserva, allora, che, per quanto riguarda l’identificazione dell’attività idonea a determinare la responsabilità dell’agente e per la definizione di danno ambientale, deve farsi riferimento alla norma vigente al momento in cui si sono verificati i fatti. Solo per quanto riguarda i criteri di liquidazione del danno, anche per i giudizi in corso, per espressa previsione normativa, deve farsi riferimento ai criteri individuati dall’ultima norma entrata in vigore, vale a dire l’art. 311 comma 3, TUA come modificato dalla legge 6 agosto 2013, n. 97.
Di conseguenza, in relazione all’epoca di commissione dei fatti oggetto di causa si applicano, nella specie, per la definizione di danno ambientale e per l’attribuzione della responsabilità, l’art. 2043 cod. civ. e l’art. 18 della legge n. 349/86. La mancata specificazione del tipo di disposizioni di legge o di provvedimento adottato in base alla legge porta a considerare quella configurata dall’art. 18 della legge n. 349/1986 una condotta non legata alla commissione di uno specifico reato a protezione dell’ambiente, bensì comprensiva di qualunque prescrizione riferita ad attività umana da cui potesse derivare un’alterazione dell’ambiente, quindi, dell’insieme delle
regole sulla responsabilità dell’ordinamento, e sicuramente, tra esse, la responsabilità aquiliana, e quella derivante dall’esercizio di attività pericolose. Nello stesso senso, del resto, può essere letto anche l’art. 311 predetto, slegato dal riferimento specifico a norma di protezione ambientale, con il riferimento al danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell’allegato 5 …. b) al danno ambientale causato da un’attività diversa da quelle elencate nell’allegato V in caso di comportamento doloso o colposo.
Può concludersi, dunque, nel senso che, sia nella vigenza dell’art. 18 della legge n. 349/86, che in quella della normativa introdotta successivamente per adeguarsi alla normativa europea, mai il legislatore ha richiesto che la condotta generativa di danno ambientale si identifichi nella commissione di uno specifico reato a protezione dell’ambiente.
7.5. La nozione di danno ambientale, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 349/1986, comprende -come si è già anticipato -oltre al danno, inteso come la perdita di una qualità della risorsa, al deterioramento, cioè il peggioramento qualitativo della risorsa, nonché alla distruzione, cioè la perdita definitiva dell’intera risorsa ambientale interessata, anche l’alterazione della risorsa. Del resto, come emerge dalle norme succedutesi nel tempo, ancora oggi, alla luce della pluralità di nozioni di danno previste dall’art. 298bis , è qualificato danno ambientale non solo la distruzione, la perdita, ma anche l’alterazione del bene ambiente.
7.6. Deve rimarcarsi, poi, che, come ricordato da Cass., SU, n. 3077 del 2023 ( cfr . pag. 11 e ss. della motivazione), la disciplina multilivello in tema di prevenzione e riparazione del danno ambientale procede, con accelerazioni adeguatrici non sempre progressive, dall’applicazione interna -oltre che dell’obiettivo -valore dello sviluppo sostenibile , basato anche su tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente , così l’art. 3 , comma 3, Trattato UE -di due principi già presenti nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (ora art. 191 TFUE) per cui la politica dell’Unione contribuisce a perseguire, tra gli altri, salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente, protezione della salute umana, utilizzazione
accorta e razionale delle risorse naturali (comma 1), così mirando a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione e fondandosi sui principi della precauzione e dell’azione preventiva … della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga” (comma 2); la conseguente Direttiva 21 aprile 2004 del Parlamento europeo e del Consiglio (2004/35/CE) si è proposta di far applicare alle legislazioni nazionali la prevenzione e la riparazione del danno ambientale secondo il ripetuto principio « chi inquina paga » (artt.1 e 7, All. II), coerentemente con lo sviluppo sostenibile, sancendo che l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale (cons. 2), dunque privilegiando nettamente l’obiettivo della eliminazione in natura del danno ambientale rispetto alla prospettiva risarcitoria (per equivalente) e fissando una funzionalità altrettanto chiaramente imperniata sulla rilevanza anche giuridica delle attività professionali che presentano un rischio per la salute umana o l’ambiente (cons. 8); ne deriva, così, che è l’operatore che provoca un danno ambientale o è all’origine di una minaccia imminente di tale danno a dover di massima sostenere il costo delle necessarie misure di prevenzione o di riparazione , mentre il costo dell’intervento di supplenza dell’autorità competente andrebbe posto a carico dell’operatore, includendo il costo della valutazione del danno ambientale ed eventualmente della valutazione della minaccia imminente (cons. 18 e secondo la definizione dell’art. 2, comma 16); a sua volta, è netta la definizione dell’operatore (art. 2 comma 6), quale soggetto che esercita o controlla un’attività professionale o al quale sia delegato un potere economico decisivo sul funzionamento tecnico di tale attività .
7.6.1. I mporre al soggetto inquinatore l’obbligo di riparare il danno o, in alternativa, quello di tenere indenne la comunità territoriale che l’abbia evitato o rimosso, pertanto, significa addossare -non in chiave etica ma di
efficacia, come rilevato nell’analisi economica di tale sistema le esternalità negative (conseguenti alla produzione o al commercio di beni e servizi) a carico del soggetto cui sia riferibile l’attività, evitando alterazioni di mercato, senza oneri per la collettività ovvero costi assunti in via definitiva dall’ente pubblico; viene scongiurato, così, ogni scenario di alternativa monetizzazione dell’inquinamento, disincentivato dallo scaricarsi sui soli prezzi, senza altri interventi ed invece declinandosi il principio riassuntivo ‘ chi inquina paga ‘ nella riparazione più diretta del danno ambientale (nei contesti di acque, terreno e biodiversità, i soli dell’art. 2 Direttiva), ad opera dell’autore (operatore in attività classificata pericolosa o terzo imputabile ad altro titolo) o, in sua vece e con recupero dei costi, a cura dell’ente pubblico.
I l criterio d’imputazione della responsabilità proprio della Direttiva è ricavabile, invero, per un verso, dalla sua valorizzazione di tipo oggettivo, la più efficace a tutela dell’ambiente e tuttavia con la possibilità, permessa agli Stati membri, di mediare le esigenze dello sviluppo economico, costruendo modelli di responsabilità mista, come forme eccezionali di esonero se il danno è riconducibile ad una terza fonte e nonostante ogni misura di sicurezza o per effetto di un ordine dell’autorità (art. 8 , comma 3); parimenti, rileva il principio della colpa del soggetto agente, come previsto dall’art. 8, co mma 4, lett. a) e b) , per il quale l’operatore può essere escluso dal sostenere i costi delle azioni di riparazione assunte secondo la Direttiva se provi che non gli sia attribuibile un comportamento doloso o colposo; per altro verso, e, pertanto, ai sensi dell’art. 3 e per quanto qui d’interesse, la mancata elencazione di un’attività professionale tra quelle pericolose determina che il danno o la sua minaccia implichino una responsabilità solo ai sensi di un preciso criterio d’imputazione psicologico della relativa condotta, nell’ulteriore presupposto di una prova del nesso causale tra attività svolta dall’operatore, come in premessa definito dalla Direttiva e perciò individuabile e danno ambientale.
Il testo del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (C odice dell’ambiente), anche a seguito di due procedure d’infrazione comunitaria (comunicazione del
31.1.2008 e parere del 26.1.2012) volte a superare il rilievo interno ancora proprio del rimedio della riparazione pecuniaria e le ambiguità sulla responsabilità colposa, ha previsto, dunque, in pressoché adesivo allineamento alla citata direttiva, le reazioni ordinamentali al danno ambientale come effettivo ripristino (riparazione primaria) o, a seguire, riparazione complementare e compensativa conformemente ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché al principio ” chi inquina paga ” (art. 3ter ); la stessa Corte di cassazione se ne è occupata (nelle pronunce nn. 9012 e 16806 del 2015) innanzitutto chiarendo detti criteri risarcitori; così, la riparazione primaria, ha lo scopo di riportare le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle condizioni originarie; quella complementare, ove essi non tornino alle condizioni originarie, tende a compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati; la riparazione compensativa pareggia la perdita temporanea di risorse dalla data di verificazione del danno a quella in cui la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo; ma la definitiva armonizzazione della disciplina italiana rispetto a quella UE ha reso esplicito il conseguente principio per cui « non residua alcun danno ambientale economicamente quantificabile e quindi risarcibile – né in forma specifica, né a maggior ragione per equivalente – ogniqualvolta, avutasi la riduzione al pristino stato, non persista la necessità di ulteriori misure sul territorio reso oggetto dell’intervento inquinante o danneggiante, soltanto il costo (ovvero il rimborso) delle quali potrà essere oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti: misure che vanno ora tutte verificate alla stregua della nuova normativa », con l’importante applicazione officiosa e retroattiva ai giudizi pendenti per fatti anteriori proprio della onnicomprensività del nuovo criterio riparatore a superamento di quello per equivalente ( cfr . Cass. 14935 del 2016; così anche Cass. n. 8662 del 2017 e Cass. n. 5705 del 2013 sui criteri di liquidazione del danno).
7.7. È chiaro, poi, che, una volta individuata l’origine dell’inquinamento, l’autore della contaminazione non può non rispondere anche delle
conseguenze future della sua condotta, attiva o omissiva, o comunque delle condotte che costituiscono sviluppo di quelle precedentemente realizzate.
Costituisce fatto notorio, e comunque bagaglio di esperienza comune, che i fenomeni di inquinamento maggiormente gravi ed impattanti sul valore dell’ambiente sono quelli cd. storici, in relazioni ai quali le condotte inquinanti si sono protratte per un lungo periodo di tempo, innescando meccanismi di dannosa interazione con le matrici ambientali che proseguono anche quando le condotte inquinanti sono cessate, fintanto che non si pone in essere una condotta proattiva (bonifica) che interrompe tali fenomeni dannosi. Proprio in considerazione di ciò, questa tipologia di condotta dannosa è pacificamente ricostruita in termini di illecito permanente. Infatti, poiché le conseguenze dannose possono essere fermate con una condotta attiva di segno contrario da parte del responsabile, il permanere dei meccanismi inquinanti nel tempo non può essere qualificato come mero effetto di una condotta ormai consumata. Si colloca, del resto, in tale alveo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Cassazione in materia di danno ambientale, secondo cui la condotta antigiuridica consiste nel mantenimento dell’ambiente nelle condizioni di danneggiamento, sicché il termine prescrizionale dell’azione di risarcimento inizia a decorrere solo dal momento in cui tali condizioni siano state volontariamente eliminate dal danneggiante, ovvero la condotta sia stata resa impossibile dalla perdita incolpevole della disponibilità del bene da parte di quest’ultimo (cfr. Cass. n. 3259 del 2016). Ciò rende ancor più centrale l’esigenza di perseguire anche a distanza di tempo l’autore dell’inquinamento, se si vuole garantire l’effettività del principio ” chi inquina paga “.
Nel caso di persone giuridiche, tale esigenza deve confrontarsi, in concreto, con la normale evoluzione delle compagini societarie, fornendo risposte che garantiscano la possibilità di non vedere dissolta in mutamenti soggettivi la figura degli enti responsabili. Diversamente opinando, si offrirebbe ai soggetti che hanno cagionato l’inquinamento, un chiaro strumento di fuga dalle proprie responsabilità. Del resto, proprio la
pronuncia della Corte di Giustizia provocata dal presente giudizio (e di cui si è dato ampiamente conto scrutinandosi il secondo motivo) conferma che l’applicazione della normativa unionale non può tollerare comportamenti strumentali degli operatori economici. Le imprese potrebbero sfuggire alla riparazione per il semplice fatto che la propria identità è stata modificata. Sarebbe sufficiente realizzare un’operazione straordinaria per consentire che si possa rispondere dell’inquinamento ambientale (che pur trova le sue cause in una condotta antecedente) solo per gli effetti verificatisi fino alla data dell’operazione straordinaria, nel caso di specie fino alla costituzione della nuova società, frutto della scissione. Tale possibile degenerazione è stata pienamente colta e stigmatizzata dalla pronuncia della Corte di Giustizia sopra richiamata.
Come emerge dalle considerazioni che precedono, allora, occorre tenere presente la nozione di danno ambientale risultante dal diritto interno e dal diritto dell’Unione e declinare tale nozione alla disciplina delle scissioni societarie, in particolare in relazione alla tutela dei creditori delle società coinvolte nella scissione.
Nel caso in esame, come si è ampiamente detto in precedenza, è certo che le attività industriali che hanno causato i danni ambientali nei tre siti interessati iniziarono molto prima del 13 maggio 2003, data di adozione del progetto di scissione RAGIONE_SOCIALE, e del 2 gennaio 2004, data di efficacia della scissione medesima, e dipesero tutte da decisioni di RAGIONE_SOCIALE, sia quale gestore diretto delle attività, sia quale capogruppo delle società che svolsero le attività stesse. La responsabilità di RAGIONE_SOCIALE per le attività dannose in questione dipende, inoltre, dal fatto che la stessa, anteriormente al 13 maggio 2003 ed al 2 gennaio 2004, era proprietaria, o comunque aveva la disponibilità tramite società satelliti, dei siti nei quali le attività inquinanti si svolsero. Le attività inquinanti cessarono in misura pressoché integrale anteriormente al 13 maggio 2003 ed al 2 gennaio 2004, ma ciò non fece venire meno le loro conseguenze inquinanti, che continuarono a prodursi, come tuttora in larga misura si producono. È altresì certo che NOME non realizzò, né prima né dopo il 13 maggio 2003 e il 2 gennaio 2004, le attività
di ripristino ambientale rese necessarie dal processo di inquinamento da essa causato e tuttora in atto. Tutte queste circostanze di fatto sono state acclarate nella causa in esame dalla consulenza tecnica d’ufficio disposta dalla corte distrettuale e sono puntualmente riferite nella sentenza di quest’ultima n. 3294 del 2021 . La corte suddetta correttamente ha sostenuto che ‘ il principio chi inquina paga va declinato secondo un concetto europeo di impresa che prescinde dalle distinzioni societarie per concentrarsi su chi poteva e doveva intervenire e su chi si è giovato delle attività inquinanti ‘ ( cfr. pag. 26 della sentenza non definitiva n. 973 del 2019). A fronte di tale conclusione, RAGIONE_SOCIALE assume di avere « allegato e dimostrato, per ogni sito, la presenza di fonti di contaminazione (di natura industriale e naturale) alternative rispetto a Snia » ( cfr . pag. 47 del ricorso n.r.g. 31634 del 2021). Si tratta, tuttavia, di affermazione espressamente smentita dalla pronuncia definitiva della corte di appello (n. 3294 del 2021), la quale richiama la consulenza tecnica di ufficio, secondo la quale il rapporto eziologico fra il gruppo RAGIONE_SOCIALE e l’inquinamento, per tutti e tre i siti di interesse, ‘ non è ragionevolmente passibile di contestazione ‘ , e giunge ad evidenziare una continuità normativa, in tema di responsabilità e di conseguenze riparatorie, al cospetto dell’autore dell’inquinamento. Essa ha spiegato, affatto condivisibilmente, che chi ha inquinato è tenuto ad intervenire nel momento in cui la criticità esiste e persiste e tale intervento è obbligato. L’articolata ricostruzione storico -giuridica in materia ambientale che la stessa corte descrive nelle pagine da 36 a 43 della sentenza parziale n. 973/2019 costituisce il presupposto che le consente di giungere, poi, alle conclusioni compendiate a pag. 45 della medesima sentenza laddove, nel disporre la consulenza tecnica di ufficio, ha chiesto ai periti di provvedere, per ciascuno dei siti inquinati, ad: a ) accertare nei suoi esatti termini il danno ambientale verificatosi concretamente; b ) individuare le misure di ripristino ambientale che trovano titolo negli artt. 305, 306 d.lgs. n. 152/06, già previste nell’art. 17, c omma 13bis , del d.lgs. n. 22/97 ed a quantificare i relativi oneri di bonifica. La disciplina del risarcimento del danno, dunque, si integra a quelle delle bonifiche, trovando applicazione sinergica e
complementare nel caso di specie. Peraltro, come segnalato da ll’ordinanza interlocutoria resa da Cass. n. 32365 del 2022, « quel che resta decisivo, ai fini della norma interna, è che dal giudice del merito è stata accertata, a carico di Snia, l’anteriorità della condotta generativa del danno ambientale come configurata tanto dalla l. n. 349 del 1986 che dal d.lgs. n. 152 del 2006 ».
7.8. In definitiva, quindi, i giudici di appello correttamente hanno fatto riferimento all’art. 18 della legge n. 349/1986 per individuare gli elementi costitutivi della responsabilità per danno ambientale, del resto non sostanzialmente dissimili nelle norme successive.
Le censure in esame, dunque, nella misura in cui insistono nel negare la responsabilità di Snia si rivelano complessivamente inammissibili perché sostanzialmente volte ad ottenere una rivisitazione degli accertamenti fattuali, peraltro ampiamente motivati, svolti dalla corte distrettuale, nuovamente dimenticando che il giudizio di legittimità non può essere trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative ( cfr . Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. nn. 32026 e 40493 del 2021; Cass. nn. 30435, 35041 e 35870 del 2022; Cass. nn. 27522, 30878 e 35782 del 2023; Cass. nn. 10712, 19423, 25495 e 33909 del 2024; Cass. nn. 1918, 2040 e 2115 del 2025).
Laddove, invece, lamentano l’errone ità della disciplina ritenuta applicabile mostrano di non considerare che la corte territoriale, nel ricostruire quella in materia ambientale, ha individuato una piena copertura normativa ai fini della valutazione della responsabilità di Snia, venendosi ad integrare, nel caso di specie, i presupposti fattuali e giuridici sia per gli oneri di bonifica che per il risarcimento del danno, in sintonia con il diritto eurounitario. Secondo un consolidato indirizzo della Corte di Giustizia ( cfr . la pronuncia 13.7.2017, n. 129), la disciplina ambientale ” istituisce un quadro per la responsabilità ambientale basato sul principio e su un alto livello di
protezione dell’ambiente “, laddove – una volta accertato il rapporto causale – è l’autore dell’inquinamento a doverne rispondere.
7.9. Resta solo da aggiungere che: i ) nella specie, la violazione del principio di responsabilità personale di cui all’art. 311, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006 è stata esclusa con gli accertamenti in fatto svolti dalla sentenza non definitiva e già sopra richiamati, che, ovviamente, non possono essere rimessi in discussione in questa sede; ii ) la riferibilità della complessiva situazione di inquinamento a questa o a quella delle società satelliti o per questo o quel periodo, comunque caratterizzato dalla situazione ancillare di tali società rispetto alla capogruppo, rimane irrilevante, come ben descritto nella sentenza non definitiva, n. 973/2019, alle pag. 24-27, ed in quella definitiva, n. 3294/2021, alle pagg. 50-51. Né può lamentarsi una applicazione retroattiva dell’art. 17 del d.lgs. 5.2.1997, n. 22 (poi trasfuso nell’art. 253, T.u. amb.), in quanto in causa non si controverte direttamente della violazione di un obbligo di messa in sicurezza, bonifica e ripristino delle aree contaminate, non applicabile a condotte precedenti tale normativa ( cfr . Cass. n. 36651 del 2021), ma del danno ambientale cagionato nell’esercizio di un’attività pericolosa e comunque sussumibile sotto l’impero del precetto generale di cui all’art. 2050 cod. civ . e, in particolare, dalla violazione dell’obbligo di attivarsi al fine di porre in essere atti e comportamenti unitariamente finalizzati al recupero ambientale del sito ( cfr. Cass. n. 8662 del 2017; Cass. n. 5705 del 2013); iii ) il risarcimento dei danni, ovviamente, non può che ricomprendere anche i costi affrontati dalle Pubbliche Amministrazioni competenti per elidere le conseguenze dannose della predetta attività e per riportare la situazione ambientale ad uno stato di non pericolosità. A tale proposito, ex art. 5bis , comma 1, lett. c) , del d.l. 25.10.2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20.11.2009, n. 166, i criteri di determinazione dell’obbligazione risarcitoria stabiliti dall’art. 311, comma 2 e 3, t.u. amb., si applicano anche alle domande di risarcimento proposte o da proporre ai sensi dell’art. 18 della legge 8.7.1986, n. 349 ( cfr . Cass. n. 5705 del 2013); iv ) con specifico riguardo al settimo motivo, che, come si è
ampiamente detto in precedenza (e come confermato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 126 del 2016), la legge n. 349/1986 non segna la nascita della responsabilità aquiliana da inquinamento, la quale, pur avendo subìto varie modificazioni legislative, resta riconducibile, comunque, al precetto generale dell’art. 2043 c od. civ. e, nel caso di specie, anche dell’art. 2050 c od. civ., sicché l’individuazione di un momento preciso di verificazione di un singolo fenomeno di inquinamento nell’ambito di una situazione protrattasi per un secolo appare operazione del tutto irrilevante ai fini della quantificazione del danno risarcibile.
8. Il quinto motivo di questo ricorso principale lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2462 cod. civ., in tema di responsabilità di RAGIONE_SOCIALE quale socio unico della RAGIONE_SOCIALE, e la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. Si assume che: i ) la corte territoriale non avrebbe rilevato che la corresponsabilità in capo alla controllante, che abbia omesso la dichiarazione di unipersonalità, si verifica solo a far data dal perfezionamento della condizione dell’insolvenza della società controllata, con la conseguente esclusione di una responsabilità in capo a RAGIONE_SOCIALE in via solidale con RAGIONE_SOCIALE per le obbligazioni sorte in capo a quest’ultima solo successivamente alla scissione; ii ) il mancato corretto inquadramento della questione, oggetto dell’appello incidentale proposto da COGNOME, avrebbe comportato la conseguente omessa pronuncia sulla questione ivi dedotta.
8.1. Questa doglianza si rivela infondata.
Non sussiste certamente la lamentata omissione di pronuncia, posto che la sentenza non definitiva n. 973/2019 della corte distrettuale ha espressamente affrontato (e risolto negativamente per la odierna ricorrente principale) la corrispondente questione ( cfr . pag. 28 della sentenza predetta) ivi lamentata.
A tanto deve aggiungersi che, come pure condivisibilmente osservato dal Pubblico Ministero nelle sue conclusioni scritte ( cfr . pag. 6), l ‘art. 2462, comma 2, cod. civ. non riconnette la responsabilità illimitata a carico dell’unico socio per i debiti della società da questi interamente partecipata ad alcun evento in particolare; discendendo tale responsabilità
semplicemente dall’insorgenza del debito a carico della società interamente ed unipersonalmente partecipata fin quando non sia stata attuata la pubblicità prescritta dall’art. 2470 cod. civ. ( nella specie effettuata solo il 12 febbraio 2009, vale a dire quasi nove anni dopo che RAGIONE_SOCIALE a far data dal 3 aprile 2000, era divenuta socio unico di RAGIONE_SOCIALE, come accertato, in fatto -e, dunque, insindacabilmente in questa sede -dalla corte distrettuale).
Il sesto motivo del medesimo ricorso principale lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2497 cod. civ., in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno ambientale, avendo la sentenza omesso di considerare che, a partire dal 2 gennaio 2004 (ossia dalla sua costituzione), la RAGIONE_SOCIALE non aveva avuto la disponibilità dei siti e, quindi, la possibilità di adottare alcuna misura riparatoria e/o ripristinatoria.
9.1. Questa censura non merita seguito.
9.2. Invero, anche volendosi prescindere dal rilievo che la stessa presuppone accertamenti di natura chiaramente fattuale (quanto alla disponibilità, o meno, della odierna ricorrente principale, dei siti inquinati, a decorrere da una certa data), e, come tali, incompatibili con il giudizio di legittimità, resta comunque il fatto che l’avvenuta considerazione dell’illecito in questione come di carattere permanente consente l’applicazione del principio di diritto, sancito da Cass. n. 9012 del 2015 (e ribadito, in motivazione, dalla successiva 3259 del 2016), secondo cui « In materia di danno ambientale, la condotta antigiuridica consiste nel mantenimento dell’ambiente nelle condizioni di danneggiamento, sicché il termine prescrizionale dell’azione di risarcimento inizia a decorrere solo dal momento in cui tali condizioni siano state volontariamente eliminate dal danneggiante ovvero la condotta sia stata resa impossibile dalla perdita incolpevole della disponibilità del bene da parte di quest’ultimo ».
Si tratta di principio che, sebbene relativo a fattispecie di danno ambientale determinatosi in costanza della vigenza dell’art. 18 della legge n. 349 del 1986 (per fatti precedenti al 1994 o a partire da tale epoca), è
predicabile, comunque, anche in riferimento a fattispecie sussumibili nell’art. 2043 cod. civ.
Si è detto, invero, che questa Corte ha più volte affermato che l’ambiente in senso giuridico, quale bene unitario ma anche immateriale, è espressione di un autonomo valore collettivo, specifico oggetto, come tale, di tutela da parte dell’ordinamento, che non si è realizzata soltanto a partire dalla legge n. 349 del 1986, il cui art. 18, sebbene quale norma non retroattiva, ha avuto soltanto una funzione ricognitiva di un assetto che già trovava radice nella Carta costituzionale (artt. 2, 3, 9, 32, 41 e 42 Cost.) e, ai fini di una tutela piena ed organica, nell’art. 2043 cod. civ. ( cfr ., tra le altre, Cass. n. 1087 del 1998; ma, analogamente, per l’affermazione che l’art. 18 cit. non ha introdotto nel nostro ordinamento una nozione di danno ambientale, Cass. n. 25010 del 2008 e Cass. n. 5705 del 2013), là dove il citato art. 18 è intervenuto a definire e tipizzare l’illecito ambientale, richiedendone, quale elemento costitutivo, una condotta dolosa o colposa che sia violatrice ” di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge, che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte “. Pertanto, ai fini dell’integrazione della responsabilità civile per danno ambientale in relazione a fatti anteriori alla legge n. 349 del 1986 -e, dunque, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. -il danno ingiusto (ossia l’evento lesivo della modificazione, alterazione o distruzione dell’ambiente naturale considerate da un mero punto di vista obiettivo, nella sua materialità) deve essere determinato da una condotta, attiva od omissiva, sorretta dall’elemento soggettivo intenzionale e cioè dal dolo o dalla colpa. Mentre, nella vigenza della legge speciale, la predetta condotta deve anche essere qualificata dalla ” violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge “. Quindi, pure in epoca precedente all’entrata in vigore della legge n. 349 del 1986, rileva la condotta colposa o dolosa di danneggiamento dell’ambiente, nei termini anzidetti, che persiste nel tempo fino a quando il danneggiante mantenga (in base a libera determinazione, sempre reversibile) le condizioni di lesione ambientale (nella specie, di
inquinamento) che sono dipese dal suo stesso comportamento. Di talché, la prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione della situazione illegittima anzidetta ovvero dalla perdita di disponibilità del bene ” ambiente ” danneggiato, non potendosi più determinare liberamente rispetto ad esso.
Una tale ricostruzione giuridica non fa leva sull’esistenza di un ” obbligo legale ” di provvedere alla bonifica del sito contaminato ed al ripristino ambientale delle aree compromesse e, segnatamente, sulla disciplina che un tale obbligo pone(va) in capo al soggetto che inquina (art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997, poi abrogato dall’art. 264 del d.lgs. n. 152 del 2006, con annessa previsione di regolamentazione transitoria), così da individuare, anche in funzione della decorrenza della prescrizione, una condotta omissiva in contrasto con l’obbligo ex lege di attivarsi ai predetti fini, la quale, tuttavia, non potrebbe ritenersi imposta retroattivamente (sulla efficacia irretroattiva del richiamato art. 17, cfr ., tra le altre, Cass. n. 5705 del 2013, cit.). È evidente, infatti, la differenza che corre tra la situazione che attiene alla cessazione di una condotta lesiva, di compromissione del bene ambiente, con relativa rimozione delle condizioni che la determinino, e la situazione che fa leva, invece, sul comportamento (direttamente imposto dalla legge) volto a porre in essere misure, lato sensu , ripristinatorie della funzionalità ambientale del sito inquinato.
9.3. A tanto va solo aggiunto, per mera completezza, che, come condivisibilmente rimarcato dal Pubblico Ministero nelle sue conclusioni scritte ( cfr . pag. 6), « La prescrizione della responsabilità di RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE non può assumere quale exordium praescriptionis la data della scissione societaria. La responsabilità solidale in un debito non può conoscere diversi termini prescrizionali fra i vari coobbligati; neppure se la corresponsabilità discende da un evento successivo all’insorgenza dell’originario debito. Ciò si desume dal principio espresso dall’art. 1310, comma 1, c.c., sulla estensione a tutti i coobbligati dell’effetto interruttivo di un atto compiuto nei confronti di uno solo fra questi. Le uniche eccezioni conosciute dall’ordinamento concernono la sospensione della prescrizione, avente carattere strettamente personale (art. 1310, comma 2, c.c.), e la rinunzia
alla prescrizione di cui all’art. 1310, comma 3, c.c., anch’essa strettamente personale (Cass. Sez. III, 2633/1964) ».
10. Insuscettibile di accoglimento si rivela pure l’ottavo motivo di questo ricorso principale, recante violazione o falsa applicazione dell’art. 303, comma 1, lett. g) , del d.lgs. n. 152/2006 (TUA), in combinato disposto con gli artt. 18 della legge n. 349/86 e 2043 cod. civ., per avere la corte di appello applicato la disciplina della Parte VI del TUA a fenomeni di inquinamento risalenti ad oltre trenta anni prima rispetto al danno attuale. Si assume che quella corte, errando, non avrebbe ritenuto di dare applicazione alla specifica disciplina prevista per gli inquinamenti cd. ” storici “, ancora una volta ” riducendo ” la contaminazione ad un unico compatto fenomeno (seppure nel tempo società distinte avessero operato nei siti, producendo sostanze chimiche diverse in tempi diversi); altrettanto erroneamente, dunque, avrebbe deciso alla luce del solo criterio della permanenza di un danno attuale.
10.1. Invero, è sufficiente qui richiamare quanto si è già detto, scrutinandosi i precedenti motivi, circa il fatto che, nel caso in esame, è certo che le attività industriali che hanno causato i danni ambientali nei tre siti interessati iniziarono molto prima della scissione da cui era sorta RAGIONE_SOCIALE (oggi RAGIONE_SOCIALE e dipesero tutte da decisioni di RAGIONE_SOCIALE, della cui responsabilità pure si è già ampiamente riferito, qui dovendosi aggiungere soltanto che tra l’altro, qui il danno di cui si discute, lungi dal derivare da una singola condotta o da un singolo evento, si è rivelato essere la conseguenza di condotte tenute ininterrottamente per oltre cinquanta anni.
10.2. Va considerato, poi, che, per la definizione di danno ambientale e l’identificazione dell’attività idonea a determinare la responsabilità dell’agente, deve farsi riferimento -come si è già spiegato -alla normativa vigente al momento in cui si sono verificati i fatti ( cfr . Cass. n. 8468 del 2019; Cass. n. 8862 del 2017). Né la legge n. 349/1986, né il d.lgs. n. 22/1997, contenevano disposizioni analoghe a quella la cui violazione si lamenta, entrata in vigore solo il 12 agosto 2006.
10.3. Infine , anche a voler ritenere che l’art. 303 indicato nella rubrica del motivo abbia introdotto un limite temporale insuperabile per l’azione risarcitoria a fronte di danni ambientali risalenti a comportamenti ormai remoti nel tempo (cioè antecedenti il 12 agosto 1976), va rammentato che, come si è già riferito, l’illecito ambientale riveste , nella specie, un carattere permanente, nel quale il momento consumativo si trascina fino al protrarsi delle condotte, omissive o commissive che lo hanno provocato ( cfr . Cass. n. 21190 del 2006) e nel mantenimento dell’ambiente nelle condizioni di danneggiamento ( cfr . Cass. n. 9012 del 2015). Il che esclude comunque l’applicabilità del suddetto limite temporale.
11. Il nono motivo del ricorso principale in esame denuncia la nullità della sentenza (definitiva) per acquisizione ed utilizzo di documenti tardivi e, quindi, inammissibili, in violazione dell’art. 345 cod. proc. civ. Si sostiene che, nel corso del giudizio d’appello, le pubbliche amministrazioni avevano prodotto molteplici documenti, poi considerati rilevanti dalla corte territoriale ai fini della quantificazione del danno ambientale, e si eccepisce che detti documenti non si sarebbero potuti ritenere accessibili dai c.t.u. ai fini dell’accertamento di un deterioramento ambientale e della quantificazione degli importi corrispondenti alle misure di riparazione del danno.
11.1. Questa doglianza si rivela complessivamente infondata.
Invero, pure volendosene sottacere la poca chiarezza, -sotto il profilo che non viene specificato se RAGIONE_SOCIALE abbia inteso contestare la consulenza tecnica di ufficio perché ha utilizzato documenti tardivamente prodotti oppure l’avvenuta produzione documentale tardiva di per sé -ritiene il Collegio che la stessa, quanto al primo di tali profili, comunque deve essere disattesa alla stregua di quanto sancito da Cass., SU, n. 3086 del 2022, a tenore della quale, in materia di consulenza tecnica di ufficio: i ) « , il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può acquisire, anche prescindendo dall’attività di allegazione delle parti -non applicandosi alle attività del consulente le preclusioni istruttorie vigenti a loro carico -,
tutti i documenti necessari al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non siano diretti a provare i fatti principali dedotti a fondamento della domanda e delle eccezioni che è onere delle parti provare e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di documenti diretti a provare fatti principali rilevabili d’ufficio »; ii ) « , l’accertamento di fatti diversi dai fatti principali dedotti dalle parti a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio, o l’acquisizione nei predetti limiti di documenti che il consulente nominato dal giudice accerti o acquisisca al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli in violazione del contraddittorio delle parti, è fonte di nullità relativa rilevabile ad iniziativa di parte nella prima difesa o istanza successiva all’atto viziato o alla notizia di esso ». Nella specie, in evidente inosservanza del principio di autosufficienza del ricorso, lo stesso non contiene indicazioni che consentano di ricavare, con certezza, che un siffatto vizio della consulenza tecnica di ufficio fu tempestivamente eccepito da NOME PLC nella prima difesa successiva al deposito della relazione dei nominati consulenti.
A tanto deve aggiungersi che, come sancito da Cass. n. 1763 del 2024 ( cfr . pag. 11-13 della motivazione), al consulente tecnico di ufficio nominato per una consulenza cd. percipiente (quale innegabilmente era quella disposta dalla corte distrettuale), -in cui, come è noto, l’ausiliario è incaricato non solo della valutazione ma, ancor prima, dell’accertamento di fatti, la cui stessa percezione richiede il possesso di cognizioni tecniche -è consentito acquisire documenti, anche non tempestivamente prodotti dalle parti, relativi a fatti secondari (e tali erano, nella specie, quelli interessati dalla documentazione prodotta in appello, come espressamente riferito -cfr . pag. 10 -nella sentenza definitiva qui impugnata).
11.2. Resta solo da rimarcare, quanto al secondo dei profili di potenziale significato della censura in esame, che la produzione documentale in sede di gravame , normalmente preclusa in forza dell’art. 345 c od. proc. civ., la cui formulazione è stata resa vieppiù restrittiva nel tempo, non opera quando il
giudice, in tale grado, eserciti il proprio potere officioso di disporre indagini tecniche ( cfr . Cass. n. 15945 del 2017; Cass. n. 13343 del 2000).
Nella specie, tale potere officioso è stato esercitato con la parte della sentenza non definitiva della corte territoriale, n. 973/2019, che ebbe a dispose la prosecuzione del giudizio proprio per consentire lo svolgimento della ivi contestualmente disposta consulenza tecnica di ufficio. Solo da tale momento, pertanto, poteva dirsi sorto per le parti l’onere di produrre documentazione tecnica a sostegno delle loro posizioni nell’ambito delle operazioni consulenziali; sia pure limitatamente alla dimostrazione di fatti secondari (tali riconosciuti, giova ripeterlo, dalla sentenza definitiva a pag. 10, con statuizione rimasta non censurata).
12. Il decimo motivo di questo ricorso principale prospetta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1223, 2056, 2057 e 2058 cod. civ. e dell’art. 2506bis cod. civ., nonché della complessiva disciplina del T.u.a., in relazione ai criteri di liquidazione del danno. Il motivo compendia distinte doglianze, tutte relative ai criteri liquidatori prescelti dal giudice a quo : ( a ) la liquidazione mediante l’adozione del ” deposito fruttifero “, rispetto alla quale si obietta che il danno è costituito dalla contaminazione di una falda acquifera, e che si tratta di un danno attuale, suscettibile di essere rimosso con le giuste misure; ( b ) l’avvenuta adozione di una misura di stampo cautelativo, anziché risarcitorio, oltre tutto per un tempo indefinito rimesso all’arbitraria valutazione della controparte, visto che il momento finale della detta misura, costituito dalla restituzione del capitale a RAGIONE_SOCIALE non sarebbe identificabile; ( c ) l’intervenuta violazione dei principi di sostenibilità e di proporzionalità, in quanto il costo ambientale discendente dalla statuizione, integrato da una misura come il deposito fruttifero di una somma esorbitante a copertura di costi minimi, e per giunta potenzialmente inefficace, sarebbe ” non sostenibile ” per l’operatore, e come tale sproporzionato rispetto all’ipotetico vantaggio in termini di ripristino ambientale; ( d ) la violazione della regola di risarcibilità del danno ambientale, stante la ritenuta identificazione del danno col superamento della semplice soglia di contaminazione (cd. CSC), anziché della più
specifica e stringente soglia di rischio (cd. CSR); ( e ) la necessità di escludere in ogni caso i sedimenti dalle matrici ambientali considerate come risorse contaminate, giacché l’art. 300 del T.u.a. non li contemplerebbe tra le risorse medesime; ( f ) l’erronea identificazione delle cd. misure riparatorie compensative, che sarebbero state identificate per effetto di una non corretta interpretazione della normativa tratta dalla Direttiva 2004/35-CE, la quale imporrebbe -si dice -un’analisi di equivalenza per determinare il tipo e la quantità di risorse e servizi perduti a causa del danno ambientale e la quantità di azioni di riparazione complementare e compensativa necessarie per compensare la perdita.
12.1. Questa doglianza, così come complessivamente articolata, concerne la concreta determinazione del danno per cui la corte distrettuale ha pronunciato condanna. Di essa, dunque, per una maggior chiarezza di motivazione, verranno affrontati separatamente ciascuno dei profili di cui si compone.
a) La liquidazione del danno nelle forme di deposito fruttifero.
Con riferimento al sistema di barrieramento idraulico presente nei tre siti (Brescia, Colleferro e Torviscosa) e volto alla bonifica delle falde acquifere, la corte distrettuale, recependo la corrispondente indicazione dei consulenti nominati in appello, ha condannato RAGIONE_SOCIALE al deposito di una somma (complessivamente pari ad € 155.874.699,63) a titolo di capitale fruttifero, i cui interessi dovranno essere utilizzati per coprire i costi annuali dell’attività di pompaggio, trattamento delle acque e monitoraggio necessari per la riparazione e la rimozione delle conseguenze dell’inquinamento. Trattasi, in altri termini, del deposito di una somma, a copertura dei costi necessari per le attività suddette, da restituire alla parte soccombente, senza interessi, una volta che le concentrazioni di contaminanti nei relativi acquiferi si fossero assestate al di sotto i limiti di legge, come dettagliato nella Relazione dei consulenti. Tanto, sostanzialmente, sul presupposto che le misure di barrieramento idraulico attualmente in essere nei tre siti potrebbero non essere pienamente efficaci
e richiedere di essere mantenute in opera oltre il limite temporale previsto nei progetti.
In particolare, si legge nella sentenza definitiva n. 3294/2021 oggi impugnata, che ( cfr . pag. 56), « In effetti, il deposito fruttifero comporta solo la temporanea immobilizzazione e non la definitiva confisca del capitale, che rimane di proprietà della parte, ed i cui soli interessi servono a finanziare un costo a carico della P.A., non ragionevolmente prevedibile in termini di estensione temporale. L’alternativa sarebbe stata quella di definire un orizzonte temporale cautelativo (ragionevolmente lungo) per il quale predisporre il sequestro di un corrispondente ammontare finanziario a garanzia del finanziamento delle misure di isolamento idraulico attivo. In particolare, la durata delle barriere idrauliche (progettate prima, durate e dopo le attività di bonifica e variabili da sito a sito) è stata approvata nell’ambito di progetti di bonifica che sono sempre accompagnati da estesi piani di monitoraggio sullo stato chimico delle acque soggette al pompaggio. Nei progetti di bonifica si prevede quindi che la durata effettiva delle barriere possa essere maggiore o minore di quanto preventivato in fase di progetto, in funzione dei risultati delle analisi. La predisposizione di un deposito fruttifero appare, quindi, adeguata in questo contesto. Il deposito fruttifero potrà essere rimodellato di anno in anno, in funzione dei risultati del monitoraggio . » .
Appare chiaro, dunque, che un tale deposito non costituisce la quantificazione, in una determinata misura, del danno sostanzialmente costituito, nella specie, dalla contaminazione di falde acquifere, ma solo una modalità esecutiva per consentire l’accantonamento periodico di frutti atti a coprire le spese, a loro volta periodiche, necessarie per le già menzionate attività di pompaggio, trattamento delle acque e monitoraggio occorrenti per la riparazione e la rimozione delle conseguenze dell’inquinamento.
Orbene, rileva il Collegio che quello costituito dalla contaminazione di una falda acquifera è chiaramente un danno attuale, che, con le giuste misure, può essere rimosso (in base al tipo di misure, occorrerà più o meno tempo, ma è un danno di per sé rimovibile).
Giova rimarcare, poi, che, come condivisibilmente sottolineato da RAGIONE_SOCIALE ( cfr . pag. 94 e ss. del suo ricorso iscritto al n.r.g. 31634/2021 e pag. 13-14 della sua memoria del 14 febbraio 2025), le uniche forme di risarcimento del danno ammissibili nel nostro ordinamento sono quella per equivalente, mediante la condanna al pagamento di una somma capitale determinata secondo i parametri specifici stabiliti dagli artt. 1223, 1226 e 1227 cod. civ ., ovvero, ‘ qualora sia in tutto o in parte possibile ‘ , la reintegrazione in forma specifica (art. 2058 cod. civ .). Solo nell’ipotesi di ‘ danno alle persone (avente) carattere permanente ‘ la liquidazione può farsi ‘ sotto forma di una rendita vitalizia ‘ (art. 2057 c.c.). Tuttavia, come è pacifico, si tratta di una norma eccezionale relativa ad una fattispecie ben definita che, come tale, non può trovare applicazione analogica ( cfr . art. 14 Preleggi). Nel caso di specie, invece, la corte territoriale ha condannato RAGIONE_SOCIALE all’immobilizzazione di una ingente somma di denaro per un periodo di tempo indeterminato e potenzialmente illimitato, sostanzialmente rimesso alla discrezionalità delle Pubbliche Amministrazioni, le sole che hanno il potere di accertare e decretare il raggiungimento degli ‘ obiettivi di bonifica ‘ e , quindi, la liberazione delle somme immobilizzate.
Si è al cospetto, dunque, da un punto di vista sostanziale, di una forma di condanna estranea alle forme di risarcimento contemplate dall’Ordinamento . Da un punto di vista processuale, peraltro, l’operatività di una tale misura necessiterebbe di un costante aggiornamento della somma capitale vincolata nelle forme del deposito fruttifero (al fine di scongiurare qualsivoglia eventuale violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità nella determinazione della forma di risarcimento imposti dall’ordinamento ), ma ciò non sembra possibile stante l’assenza (e/o almeno la notevole difficoltà di individuare) uno strumento giuridico, in sede di esecuzione, che renda possibile un tale monitoraggio.
In definitiva, come sottolineato pure dal Pubblico Ministero nelle sue conclusioni scritte ( cfr . pag. 8), « La previsione, sotto forma di condanna, di un deposito fruttifero destinato ad essere restituito allorquando i frutti erogati avranno colmato il debito risarcitorio da riparazione riveste, in
realtà, la funzione concreta della garanzia di un debito pecuniario » (così, del resto, la definiscono le Amministrazioni controricorrenti: « L’emungimento mediante barriera idraulica è tecnicamente una misura di messa in sicurezza temporanea finalizzata a garantire il contenimento della contaminazione fintantoché non vengano completati gli interventi di rimozione della sorgente inquinante. All’evidenza, dunque, la soluzione proposta non costituisce una forma di risarcimento per equivalente, bensì una necessaria garanzia -di natura finanziaria -dell’ininterrotta operatività di una misura di riparazione ». Cfr . pag. 63 del loro controricorso depositato nel procedimento n.r.g. 31634/2021). Né persuade appieno l’assunto delle medesime Amministrazioni secondo cui , « il deposito fruttifero non è a garanzia di un credito pecuniario, ma piuttosto costituisce garanzia di attuazione della misura di riparazione e, più concretamente, presenta il fine di assicurare la provvista per la riparazione » ( cfr . pag. 10 della loro memoria del 13 febbraio 2025).
In parte qua , pertanto, il motivo in esame merita accoglimento, non vedendosi come la previsione, sebbene sotto forma di condanna, di un deposito fruttifero, avente, in realtà, la funzione concreta della garanzia di un debito pecuniario (o anche, come assumono le controricorrenti, di attuazione della misura di riparazione ), possa essere imposta in una sentenza di condanna, destinata ad accertare l’ an ed il quantum debeatur , ma non certo le modalità per garantire la concreta esecuzione della condanna stessa a favore della parte creditrice (salva l’eventuale applicazione di misure ex art. 614bis , cod. proc. civ.).
b) Sull’accertamento di un danno ambientale ‘risarcibile’: violazione e falsa applicazione delle Parti IV e VI del TUA per avere ritenuto che la contaminazione/il danno ambientale si identifichi con il superamento delle sole CSC.
NOME RAGIONE_SOCIALE assume che il T esto Unico sull’Ambiente prevede specifiche ‘ soglie di concentrazione ‘ di sostanze contaminanti (art. 240). Da un lato, vi sono le ‘ soglie di concentrazione ‘ oltre le quali un sito può dirsi ‘ potenzialmente contaminato ‘ e suscettibile di ulteriori indagini ( id est ,
‘ Concentrazioni Soglia di Contaminazione ‘ o, in breve, ‘ CSC ‘). Laddove , invece, i contaminanti superino tali concentrazioni (o CSC), la disciplina prevede si debba procedere con una apposita procedura (cd. ‘ Analisi di Rischio ‘) sito -specifica che identifichi delle ulteriori soglie di concentrazione oltre le quali un sito può dirsi ‘ contaminato ‘ ( id est , ‘ Concentrazioni Soglia di Rischio ‘ o, in breve, ‘ CSR ‘). Se (e solo se) i contaminanti superano tali concentrazioni, sorge il conseguente obbligo di bonifica e ripristino. Muovendo da tale premessa, la ricorrente principale suddetta contesta alla corte territoriale di avere fatto proprie le errate conclusioni dei consulenti, intercambiando i due differenti parametri fissati dal TUA per la determinazione dello stato di contaminazione di un sito e dei relativi interventi da effettuare. In altri termini, viene ascritto a quella corte l’ avvenuta individuazione di un danno risarcibile nel superamento della Concentrazione Soglia di Contaminazione (CSC), anziché nella Concentrazione Soglia di Rischio (CSR), in violazione dell’art. 240 T.U. amb.
Ad avviso di questo Collegio, tale doglianza non merita seguito, perché volta, in realtà, a rimettere in discussione scelte insindacabili di merito.
Va premesso che nella sentenza definitiva n. 3294/2021 oggi impugnata, si legge, tra l’altro (cfr. pag. 55 -56 e ss.) che « La distinzione tra concentrazione soglia di contaminazione (CSC) e contaminazione soglia di rischio (CSR) è definita nel d.lgs. n. 152/2006 ed è stata sollevata ripetutamente da COGNOME in sede di operazioni peritali e discussa nelle Risposte dei CTU (pagg. 4, 16). Tuttavia, COGNOME pare estendere la critica all’uso delle CSC in modo assoluto a tutta la valutazione di CTU. La CSR è applicata nell’ambito delle bonifiche di siti contaminati (Parte IV del T.U.A.) in quanto i CTU ritengono che, se il recettore finale (umano, ecosistema, etc.) non corre alcun rischio di contatto con il contaminante, per effetto della situazione attuale o degli interventi di bonifica, allora il non superamento della CSR rappresenta l’obiettivo della bonifica, ma non il fatto che il sito non sia contaminato. Ed in effetti quando si parla di danno ambientale (Parte VI T.U.A.) il recettore finale è dato dalle matrici ambientali stesse, le quali sono contaminate, per definizione, una volta
superata la CSC. LivaNova sembra sovrapporre Parte IV e Parte VI del TUA, per ridurre la responsabilità da danno ambientale a mero intervento di bonifica dei siti contaminati (riparazione primaria, in senso stretto), che invece è percorso logico e legislativo del tutto diverso. Unica eccezione a questo ragionamento è quella relativa alla sola matrice dei terreni e dei sedimenti (affrontata peraltro nelle risposte di CTU, pag.4, 16), cioè, a fronte di una situazione estesa di contaminazione dei terreni e dei sedimenti, ricondurre le valutazioni ad un mero raggiungimento della sola concentrazione soglia di rischio (CSR) che può, ma non deve, essere usata alternativamente alla concentrazione soglia di contaminazione (CSC) (All.3 Parte VI D.Lgs.n.152/2006). Pertanto, per il principio di precauzione (art. 301 D.Lgs.n.152/2006), i CTU si sono attenuti strettamente al raggiungimento del CSC per terreni e sedimenti contaminati, laddove la CSR non sia stata valutata ».
Fermo quanto precede, rileva il Collegio che CSC e CSR sono standards strumentali all’individuazione di obiettivi di risanamento ambientale, determinati sulla base di modelli di differente livello di approfondimento.
Nell’odierna vicenda, l a determinazione delle CSR avrebbe dovuto essere effettuata dal gruppo Snia che aveva l’obbligo, non adempiuto, di applicare la procedura di analisi di rischio alle aree interne ed esterne oggetto del rilascio di inquinanti da parte dei relativi stabilimenti. Tale inadempienza, dunque, come condivisibilmente dedotto dalle Amministrazioni controricorrenti ( cfr. amplius , pag. 66 e ss. del loro controricorso depositato nel procedimento n.r.g. 31634/2021), non può ridondare a carico di queste ultime, né può inficiare e/o delimitare le scelte dei consulenti fatte proprie dalla corte di appello.
I consulenti hanno operato una valutazione, incensurabile in sede di legittimità, sulla base dei dati a disposizione e degli approfondimenti già effettuati dalle Autorità deputate alla tutela dell’ambiente e della salute. In altri termini, la procedimentalizzazione che invoca RAGIONE_SOCIALE di analisi di rischio è già stata svolta attraverso la validazione dei progetti richiamati in sede di perizia e, per gli interventi di risanamento che non sono stati ancora
oggetto di approvazione, gli esperti hanno svolto il ruolo richiesto, secondo il mandato conferitogli dalla corte di merito, indicando interventi del tutto coerenti seguiti dall’Autorità per l’esame dei progetti già approvati.
L’invocazione , da parte della ricorrente principale suddetta, della distinzione fra CSC/CSR si rivela essere, dunque, l’occasione per svolgere una critica radicale alle scelte operate dai periti, ma insindacabili da questa Corte.
A tanto deve aggiungersi che la bonifica ed il risarcimento del danno costituiscono voci separate nella disciplina del TUA, tanto da essere confluite, con la compilazione codicistica, in parti distinte (IV e VI), che si applicano senza sovrapporsi ai fini della tutela ambientale. La stessa corte distrettuale, del resto, nel disattendere le osservazioni di NOME RAGIONE_SOCIALE alla relazione dei consulenti, ha puntualizzato, affatto condivisibilmente, che « la riparazione primaria (bonifica) è solo un aspetto del danno ambientale » ( cfr . pag. 54 della sentenza definitiva n. 3294/2021), onde segnalare che la distinzione fra CSC e CSR non ha alcuna rilevanza ai fini del danno ambientale che si sostanzia nel deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato alle specie e agli habitat naturali protetti, alle acque interne ed al terreno. La normativa in materia di risarcimento del danno ambientale, dunque, è estranea alla dicotomia CSC/CSR. Il risarcimento del danno disciplinato dalla Parte VI del TUA costituisce un quid pluris rispetto alla bonifica di cui alla Parte IV d i quest’ultimo . La bonifica (Parte IV), infatti, tende alla riqualificazione ambientale con una finalità di fruibilità della risorsa contaminata; il risarcimento del danno (Parte VI) completa la tutela, intendendo restituire l’ambiente naturale bene giuridico ex se tutelato -alla sua condizione originaria. L’art. 300, comma 1 , del TUA, del resto, qualifica testualmente come danno ambientale ‘ qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima ‘.
Infine, si rivela assolutamente significativo che l’art. 240, c omma 1, lett. q) , ricompreso nella Parte IV del TUA, definisca operazioni di ‘ ripristino ambientale ‘: ‘ gli interventi di riqualificazione ambientale e paesaggistica,
anche costituenti complemento degli interventi di bonifica o messa in sicurezza permanente, che consentono di recuperare il sito alla effettiva e definitiva fruibilità per la destinazione d’uso conforme agli strumenti urbanistic i’. Diversamente, l’art. 302, c omma 9, inserito nella Parte VI del TUA, così definisce il ‘ ripristino ‘: ‘ nel caso delle acque, delle specie e degli habitat protetti, il ritorno delle risorse naturali o dei servizi danneggiati alle condizioni originarie; nel caso di danno al terreno, l’eliminazione di qualsiasi rischio di effetti nocivi per la salute umana e per la integrità ambientale ‘, precisando che, ‘ in ogni caso, il ripristino deve consistere nella riqualificazione del sito e del suo ecosistema, mediante qualsiasi azione o combinazione di azioni, comprese le misure di attenuazione o provvisorie, dirette a riparare, risanare o, qualora sia ritenuto ammissibile dall’autorità competente, sostituire risorse naturali o servizi naturali danneggiati ‘.
I l ‘ ripristino ambientale ‘ , dunque, assume significati differenti in quanto sono eterogenee le finalità: nel contesto della Parte VI, l’obiettivo di queste operazioni è il ‘ ripristino ‘ della situazione ex ante ; nel contesto della Parte IV, invece, esse mirano a conseguire la ‘ sicurezza ‘ e ‘ fruibilità ‘ del sito, così come previsto dall’art. 240 TUA.
Nel caso di specie, allora, come affermato dalla corte di appello, rileva che, in tema di danno ambientale (Parte VI TUA), il recettore finale è dato dalle matrici ambientali stesse per le quali è stata invocata tutela, sicché sarebbe lesivo del principio di precauzione di cui all’articolo 301, c omma 1, del d.lgs. n. 152/06, assumere le CSR come standard di riferimento per discriminare l’entità del fenomeno inquinante che oggettivamente è stato accertato in sede di perizia come conseguenza diretta della contaminazione prodotta dal gruppo RAGIONE_SOCIALE. In virtù del citato principio di precauzione, quindi, l’operazione di ripristino potrà dirsi ultimata solo allorquando sia garantito un ‘ alto livello di protezione ‘, ovvero quando sia escluso qualsiasi fattore di rischio ‘ anche solo potenziale ‘ per l’ambiente e per la salute umana (art. 301 del TUA).
È doveroso osservare, infine, che -come ancora consivisibilmente rimarcato dalla difesa erariale ( cfr . pag. 71 del controricorso
precedentemente indicato) -il suddetto principio di precauzione è richiamato, in via generale, dall’art. 3 -ter del TUA e trova un ‘ apposita formulazione normativa nella sua P arte VI, all’art. 301, che gli affida una funzione specifica nel contesto del danno ambientale. In questo ambito, il canone di precauzione non rappresenta un criterio temporale, che determina quando il soggetto inquinante o l’amministrazione debbano attivarsi, bensì un indice qualitativo che presiede le modalità di espletamento del risanamento ambientale, imponendo che essa sia espletata conseguendo il minor rischio per l’ambiente e per la salute umana. Del resto, anche la giurisprudenza penale di legittimità ha preso posizione sul tema. Nella sentenza n. 50018 del 2018, infatti, questa Corte ha opinato che: i ) « il riferimento alla definizione di sito “potenzialmente contaminato” non vale certo ad escludere, con riguardo al suggestivo potere evocativo dell’avverbio, la prova indiziaria della contaminazione e, in ogni caso, quest’ultima condizione non è richiesta per affermare la compromissione della matrice ambientale »; ii ) « quanto al particolare profilo qui esaminato, deve osservarsi che il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 240 e le definizioni in esso contenute valgono a disciplinare l’attività di bonifica dei siti quale prevista dal Titolo 5 del decreto, in relazione ai profili di rischio sanitario e ambientale sulla salute umana derivanti dall’esposizione prolungata all’azione delle sostanze presenti nelle matrici ambientali contaminate. Con riguardo al reato di inquinamento ambientale, deve invece affermarsi il principio secondo cui il delitto di danno previsto dall’art. 452bis c.p. (al quale è tendenzialmente estranea la protezione della salute pubblica) ha quale oggetto di tutela penale l’ambiente in quanto tale e postula l’accertamento di un concreto pregiudizio a questo arrecato, secondo i limiti di rilevanza determinati dalla nuova norma incriminatrice, che non richiedono la prova della contaminazione del sito nel senso indicato dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 240 ss. »; « sotto quest’ultimo angolo visuale, va rilevato come, sin dalle prime applicazioni giurisprudenziali della fattispecie, questa Corte abbia riconosciuto che la “compromissione” e il “deterioramento” di cui al nuovo delitto di
inquinamento ambientale consistono in un’alterazione, significativa e misurabile, della originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema, caratterizzata, nel caso della “compromissione”, da una condizione di squilibrio funzionale, incidente sui processi naturali correlati alla specificità della matrice o dell’ecosistema medesimi e, nel caso del “deterioramento”, da una condizione di squilibrio “strutturale”, connesso al decadimento dello stato o della qualità degli stessi (Sez. 3, n. 46170 del 21/09/2016) ‘.
L ‘appena descritta pronuncia, pertanto, depone nel senso che non è necessario provare il superamento della soglia di CSR per ritenere sussistente un deterioramento ambientale (anche ai sensi dell’art. 300 TUA), costituendo quest’ultimo ‘ un’alterazione, significativa e misurabile, della originaria consistenza della matrice ambientale ‘, già documentata dal superamento della soglia di CSC. Nella specie, pertanto, la c orte d’ appello, ha correttamente applicato la disciplina prevista dalla Parte VI del TUA.
Sull’identificazione delle sole matrici ambientali considerate risorse contaminate (con esclusione dei sedimenti): violazione e/o falsa applicazione dell’art. 300 TUA e dell’allegato 3 della parte sesta del TUA.
NOME PLC invoca la necessità di escludere, in ogni caso, i sedimenti dalle matrici ambientali considerate come risorse contaminate, giacché l’art. 300 TUA non li comprenderebbe fra tali risorse. Con la conseguenza che dal danno andrebbero esclusi i costi necessari alla rimozione dei sedimenti.
In particolare, richiamata la nuova definizione di danno ambientale introdotta d all’art. 300 TUA , si assume che la stessa rileva sotto il profilo della quantificazione del danno, posto che, per identificare le misure di riparazione occorre preliminarmente identificare quali matrici si devono sotto porre a bonifica. A tal riguardo -prosegue la medesima ricorrente principale -« il riferimento normativo è contenuto nell’allegato 2 alla Direttiva 2004/35, recepito nell’allegato 3 del TUA che identifica ‘qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie’. Pertanto, se l’allegato 3 consente (o meglio impone) di adottare misure di riparazione primaria in relazione alle
risorse danneggiate e, ai sensi dell’art. 300 TUA, i sedimenti non sono contemplati quale risorsa, non vi è appiglio giuridico per condannare un operatore (né tantomeno NOME, per via della sua solidarietà passiva) all’adozione (o al rimborso) di misure di riparazione destinate ai sedimenti. Tale assunto trova espressa conferma nella recente sentenza della Corte di Cassazione, Sez. III, 2 luglio 2021, n. 18811, ove si afferma che i sedimenti non sono, per loro stessa natura, assimilabili alle ‘risorse naturali’, ma sono da considerare ‘solo in quanto possibile fonte di danno per il bene ‘acqua’ del lago e per il relativo ecosistema’. I Giudici della Corte d’Appello, allineandosi ai CTU, hanno invece ritenuto di considerare quale danno risarcibile il deterioramento ambientale subito dai sedimenti, con ciò attribuendo alla norma un significato che non ha » (cfr. pag. 117-118 del suo ricorso introduttivo del procedimento n.r.g. 31634/2021).
Questa doglianza non merita accoglimento, essendo volta, in realtà, a sindacare una valutazione di merito che, pertanto, sfugge al sindacato di legittimità, dovendo escludersi, peraltro, che i sedimenti non possano essere considerati ‘risorse naturali’.
Invero, come condivisibilmente osservato dalla difesa erariale ( cfr . pag. 72 del suo già menzionato controricorso), sedimenti e terreni possono qui considerarsi sinonimi. « I processi geologici e geomorfologici che danno origine ai sedimenti sono gli stessi che danno origine ai terreni. Entrambi i termini si riferiscono a materiali derivanti da processi naturali di erosione, trasporto e deposito. I sedimenti costituiscono il fondale del corpo idrico e concorrono in maniera significativa a determinare la qualità della risorsa acqua ».
A sua volta il Pubblico Ministero nelle conclusioni scritte depositate ( cfr . pag. 9-10), dopo aver ricordato il contenuto della pronuncia di legittimità invocata da RAGIONE_SOCIALE (Cass. n. 18811/2021), ha osservato che, in quell’occasione , « si trattava di valutare se fosse giustificabile un intervento di dragaggio su tutto il fondo del Lago Maggiore al fine di eliminare uno strato di sedimento di 15 cm. contaminato da DDT, a sua volta già ricoperto da altri sedimenti naturali i quali impedivano l’incremento di danni
all’ambiente cagionati dalla suddetta, più profonda, contaminazione; ciò, quand’anche si fossero dovuti verificare eventi atmosferici o tellurici di alta intensità. In sostanza, lo strato di sedimento inquinato non era più foriero di danno, grazie all’intervento autoriparatorio della Natura, prolungatosi per anni (cui si era aggiunto, comunque, un intervento della impresa danneggiante). La Corte di appello aveva escluso, pertanto, la necessità di un intervento di riparazione primaria tale da portare all’eliminazione dello strato profondo contaminato e la Corte di cassazione aveva ritenuto tale valutazione conforme al sistema riparatorio complessivo delineato dal t.u. amb. e dai relativi Allegati. La Corte di appello aveva, altresì, escluso che la parte più profonda, sovrastata da altri sedimenti, di un fondale lacuale potesse essere qualificata terreno, nel senso delineato dal § 2 del citato Allegato ». Nel caso di specie, invece, « la situazione non è assolutamente paragonabile a quella presa in esame dal predetto arresto di legittimità. Può leggersi (pag. 18 sentenza definitiva, ove si richiama la consulenza tecnica di ufficio) che durante periodi di piena, i PCB, attaccati ai sedimenti, possono essere trasportati nelle rogge e nelle aree circostanti Ed ancora (pag. 35 sentenza definitiva, ove si richiama la consulenza tecnica di ufficio), che a monte della confluenza del INDIRIZZO i sedimenti del fiume appaiono non contaminati, mentre lo sono a valle di tale confluenza. Pertanto, la bonifica dei sedimenti accumulati in questa rete di acque bianche, e particolarmente di quelli del INDIRIZZO, è stata giustamente considerata essenziale per limitare il potenziale della sorgente di contaminazione. Questo soprattutto alla luce del fatto che i pesticidi, e l’HCH in particolare, sono fortemente idrofobici e aderiscono facilmente ai sedimenti, e con questi sono mobilizzati (si consideri l’aumento di concentrazione nei campioni di acque non filtrate nel Fiume Sacco dopo eventi di piena). Ed ancora (pag. 39 sentenza definitiva, ove si richiama la consulenza tecnica di ufficio): appare tuttavia indiscutibile come i sedimenti di fondo del fiume Sacco siano una sorgente permanente di contaminazione a causa dei pesticidi assorbiti su tale matrice, e trasportati lentamente a valle per trasporto solido e mobilizzati in modo importante durante gli
eventi di piena. Pertanto, non è pensabile una riparazione del danno ambientale della valle del Sacco senza un intervento radicale di dragaggio del fiume ».
Il Collegio condivide queste considerazioni, posto che, nella fattispecie decisa da Cass. n. 18811/2021, non si è escluso che qualsiasi fondale possa essere considerato una matrice ambientale tout court , ma soltanto che uno specifico suolo lacustre possa essere assimilato a una species di matrice ambientale, sulla base di valutazioni strettamente ancorate al caso concreto. Quella pronuncia, quindi, non può essere invocata per affermare che i sedimenti siano soltanto fonte di deterioramento ambientale e non una risorsa naturale. Nel caso deciso dalla menzionata sentenza di legittimità, ‘ i sedimenti di DDT depositati negli anni 1990-1996 erano stati ricoperti da sedimenti depositati negli anni successivi, risultando in effetti non più attivi ‘, con la conseguenza che ‘ il recupero naturale è sicuramente preferibile all’intervento di dragaggio (…) In sostanza, quindi, la Corte d’Appello ha escluso la permanente esistenza di un danno alle acque, agli habitat naturali ed al terreno, non essendovi un rilascio di sostanze inquinanti ‘. Questo significa che, per il sito esaminato in quella sede, si era realizzato una sorta di tombamento naturale dei sedimenti di DDT attraverso un ripristino naturale. Nella vicenda all’esame di questa Corte, invece, accade esattamente il contrario essendo stato escluso un ripristino naturale ed occorre, quindi, un intervento di risanamento.
d) Sulla liquidazione del danno a titolo di ‘misure compensative’: violazione e/o falsa applicazione dell’allegato 3 alla Parte VI T UA.
Con questa censura -rivolta (anche) contro la sentenza non definitiva –NOME RAGIONE_SOCIALE lamenta l’erronea identificazione delle misure riparatorie compensative, per effetto di una non corretta interpretazione della normativa tratta dalla Direttiva 2004/35-CE, la quale imporrebbe un’analisi di equivalenza per determinare li tipo e la quantità di risorse e servizi perduti a causa del danno ambientale e la quantità di azioni di riparazione complementare e compensativa necessarie per compensare la perdita.
Tale doglianza si rivela, tuttavia, inammissibile, atteso che le modalità di quantificazione delle misure compensative costituiscono, in realtà, un profilo di merito, come tale sottratto al sindacato del giudice di legittimità.
Invero, la disciplina unionale in materia di determinazione delle misure compensative (all. 2 alla direttiva 35/2004, puntualmente riprodotta nel TUA ex all. 3 parte VI del d.lgs. n. 152/06) prevede che, per ‘ misura compensativa ‘ , debba intendersi ‘ qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo ‘. Ciò posto, entrambe le citate disposizioni precisano che ‘ nel determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa, occorre prendere in considerazione in primo luogo l’uso di metodi di equivalenza risorsa-risorsa o servizio. Con detti metodi vanno prese in considerazione, in primo luogo, azioni che forniscono risorse naturali e/o servizi dello stesso tipo, qualità e quantità di quelli danneggiati. Qualora ciò non sia possibile, si devono fornire risorse naturali e/o servizi di tipo alternativo. Per esempio, una riduzione della qualità potrebbe essere compensata da una maggiore quantità di misure di riparazione. Se non è possibile usare, come prima scelta, i metodi di equivalenza risorsa-risorsa o servizio-servizio, si devono utilizzare tecniche di valutazione alternative. L’autorità competente può prescrivere il metodo, ad esempio la valutazione monetaria, per determinare la portata delle necessarie misure di riparazione complementare e compensativa. Se la valutazione delle risorse e/o dei servizi perduti è praticabile, ma la valutazione delle risorse naturali e/o dei servizi di sostituzione non può essere eseguita in tempi o a costi ragionevoli, l’autorità competente può scegliere misure di riparazione il cui costo sia equivalente al valore monetario stimato delle risorse naturali e/o dei servizi perduti ‘.
Nel caso di specie, la corte di appello, sulla base della relazione dei nominati consulenti tecnici, ha individuato tali misure compensative proprio con le suddette tecniche alternative (valutazione monetaria), sulla base di apprezzamenti di merito che, come tali, restano insindacabili in questa
sede, in quanto non contrastanti con le anzidette disposizioni. Non resta che ribadire, dunque, che il giudizio di legittimità non può essere trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative ( cfr . Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. nn. 32026 e 40493 del 2021; Cass. nn. 30435, 35041 e 35870 del 2022; Cass. nn. 27522, 30878 e 35782 del 2023; Cass. nn. 10712, 19423, 25495 e 33909 del 2024; Cass. nn. 1918, 2040 e 2115 del 2025).
e) Sul limite del patrimonio netto attribuito a RAGIONE_SOCIALE ex art. 2506bis c.c. RAGIONE_SOCIALE assume che, ove dovesse essere confermata la sentenza parziale, la ‘ corretta applicazione dell’art. 2506 -bis c.c. ‘ avrebbe come ‘ inevitabile conseguenza … un limite nell’importo di euro 275 milioni euro, quale patrimonio netto assegnato alla beneficiaria ‘. Infatti, ‘ il patrimonio netto assegnato a Sorin non ammonterebbe più a 572 milioni di euro (come indicato nel progetto di scissione…) perché dovrebbero essere dedotte le spese di bonifica non allocate ‘, pari ad € 297 milioni, importo quantificato dalla corte di appello a titolo di misure di riparazione primaria e compensativa. Per l’effetto, la sua condanna dovrebbe essere ‘ limitata ad euro 275 milioni ‘.
Ad avviso del Collegio, tuttavia, – condividendosi quanto opinato sul punto anche dal Pubblico Ministero nelle sue conclusioni scritte ( cfr . pag. 11), né persuadendo appieno quanto osservato in contrario dalla menzionata ricorrente principale nella sua memoria del 14 febbraio 2025 ( cfr . pag. 11-13) -questa tesi non merita seguito perché condurrebbe, sostanzialmente, ad elidere la responsabilità solidale passiva verso i terzi della società beneficiaria con la società scissa.
Infatti, se dal limite di responsabilità costituito dal valore del patrimonio netto della società beneficiaria fosse detratta la misura dei debiti solidali su questa gravanti per via del meccanismo di corresponsabilità previsto dalla norma, ciò non significherebbe altro che limitare la responsabilità solidale
ad una parte residua del patrimonio della società beneficiaria. Responsabilità che, in caso di misura elevata del debito solidale, potrebbe addirittura essere del tutto annullata. Tanto meno residuerebbe una corresponsabilità solidale della società beneficiaria tanto più il debito della società scissa fosse elevato. Con evidente capovolgimento della ratio della norma. Sarebbe, in sostanza, una interpretazione tendente ad eludere il principio della responsabilità solidale in argomento. In altre parole, limitare la misura della responsabilità in funzione del debito solidale di cui si risponde porta ad un corto circuito logico che tende ad aggirare la funzione stessa di garanzia propria della corresponsabilità solidale o della responsabilità di un terzo per il debito altrui.
Peraltro, anche tenuto conto della letterale formulazione dell’art. 2506 -bis cod. civ., la censura non convince. La norma, al comma 3, parla di valore effettivo del patrimonio netto attribuito alla società beneficiaria. Esso è individuato dal progetto di scissione (art. 2506, comma 1, cod. civ.). Orbene, perché sorga la corresponsabilità solidale di società scissa e società beneficiaria, occorre che gli elementi passivi non siano desumibili dal progetto di scissione. Ne consegue che l’aggettivo netto attribuito al patrimonio, quale limite della responsabilità, non deve ingannare, in quanto non può tenere conto di passività non desumibili dal progetto di scissione. L’aggettivo netto, invece, può riguardare, unicamente, la somma algebrica fra elementi attivi ed elementi passivi, individuati nel progetto di scissione; questi ultimi estranei, per definizione, alla corresponsabilità solidale di cui all’art. 2506 -bis , comma 3, ultimo periodo, cod. civ.
13. L’undicesimo motivo del ricorso principale in esame prospetta la nullità della sentenza (definitiva) per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., essendo stata omessa la decisione su parte della domanda avanzata dalle Pubbliche Amministrazioni, e per ultrapetizione. La critica della ricorrente principale si appunta nuovamente sulla scelta di prevedere un risarcimento del danno in forma di ” capitale fruttifero “, sostenendosi che si sarebbe trattato di soluzione non rispondente alla domanda erariale, in quanto nessun importo sarebbe stato liquidato a titolo risarcitorio. Si aggiunge, poi,
che la statuizione legittimerebbe il concreto rischio che l’importo possa risultare, infine, superiore al danno effettivamente patito, esponendo la società a conseguenze dannose per un periodo indefinito.
13.1. Questa doglianza si rivela inammissibile laddove lamenta (in modo affatto singolare) l’omissione di pronuncia su domande dei Ministeri (ovviamente, se del caso, se ne sarebbe dovuta lamentare l’ Avvocatura dello Stato, che, però, non lo ha fatto).
13.2. Può considerarsi assorbita, invece, per quanto riguarda il tema della condanna ad un deposito fruttifero , tenuto conto di quanto si è già spiegato, proprio con riferimento a questo profilo, con riferimento alla prima censura del decimo motivo.
13.3. La stessa, infine, deve considerarsi fondata laddove lamenta un vizio di ultrapetizione in relazione a danni riguardanti il sito contaminato Bosco Faito , posto che, come chiaramente può desumersi dagli atti di causa, quest’ultimo non è stato oggetto delle specifiche allegazioni delle amministrazioni oggi controricorrenti.
Il dodicesimo motivo di questo ricorso principale, infine, denuncia la nullità della sentenza (definitiva) per violazione degli artt. 112, 153, 177, 178, 294 cod. proc. civ., 24 e 111 Cost., non avendo la corte d’appello provveduto sull’istanza di rimessione in termini avanzata da RAGIONE_SOCIALE al fine di discutere della rilevanza di un accordo intervenuto tra il Ministero dell’Ambiente e la Caffaro Brescia in data 18 ottobre 2021, asseritamente di rilevante impatto sulla determinazione del danno.
14.1. Questa doglianza non merita accoglimento.
Invero, l’istanza di cui si discute fu formulata come la stessa lascia intendere -il 4 novembre 2021, dunque successivamente alla rimessione della causa in decisione (avvenuta all’udienza del 23 giugno 2021 con assegnazione dei termini per il deposito degli scritti conclusionali di cui all’art. 190 cod. proc. civ.) , se non addirittura dopo la scadenza dei termini predetti (ma prima della decisione), sicché nessun obbligo di preoccuparsi della stessa poteva gravare sulla corte adita ( cfr . Cass. n. 13163 del 2013;
Cass. n. 10925 del 1992). Perciò solo, dunque, la denunciata omissione di pronuncia deve escludersi.
A tanto deve aggiungersi, comunque ed in via assolutamente dirimente, che, come condivisibilmente osservato dal Pubblico Ministero nelle sue conclusioni scritte ( cfr . pag. 12), nella specie si trattava non tanto di istanza di rimessione in termini, quanto di richiesta di riapertura della fase istruttoria in presenza di circostanze fattuali e/o prove documentali sopravvenute.
È sufficiente rimarcare, allora, che eventuali emergenze o sopravvenienza fattuali rilevanti in causa ma sopravvenute ai termini preclusivi per le allegazioni e le produzioni potranno, ricorrendone eventualmente gli estremi, formare oggetto di altri rimedi, quale quello previsto dall’art. 395, n. 3 ), cod. proc. civ. ( cfr . Cass. nn. 17175 e 4415 del 2020; Cass. n. 18464 del 2018).
15. In conclusione, dunque: i ) il ricorso principale di RAGIONE_SOCIALE iscritto al n.r.g. 25206/2019 deve essere dichiarato inammissibile ed altrettanto dicasi per il ricorso incidentale proposto, nel corrispondente procedimento, dalle Amministrazioni controricorrenti; ii ) il ricorso principale di RAGIONE_SOCIALE iscritto al n.r.g. 31634/2021 deve essere accolto, quanto si suoi motivi decimo ed undicesimo, nei soli limiti di cui si è detto, rigettandosene, invece, gli altri; iii ) il ricorso incidentale promosso dalle Amministrazioni controricorrenti nel procedimento n.r.g. 31634/2021 deve essere respinto.
15.1 Pertanto, deve essere cassata la sola sentenza definitiva della Corte di appello di Milano n. 3294/2021, in relazione ai motivi accolti del menzionato ricorso principale n.r.g. 31634/2021, e la causa va rinviata alla medesima corte di appello, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame e per la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
16. Infine, deve darsi atto -in assenza di ogni discrezionalità al riguardo ( cfr . Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto precisato da Cass., SU, n.
4315 del 2020 -che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte di RAGIONE_SOCIALE, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il suo ricorso principale n.r.g. 25206/2019, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre « spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento ».
Non sussistono, invece, i medesimi presupposti in relazione alle Amministrazioni controricorrenti, malgrado la declaratoria di inammissibilità ed il rigetto dei suoi ricorsi incidentali propositi, rispettivamente, nel procedimento n.r.g. 25206/2019 ed in quello n.r.g. 31634/2021, stante l’esenzione prevista, in via generale, dal menzionato d.P.R. n. 115/2002, per le Amministrazioni dello Stato ( cfr . Cass. n. 20682 del 2020) .
PER QUESTI MOTIVI
La Corte dichiara inammissibili il ricorso principale iscritto al n.r.g. 25206/2019 ed il ricorso incidentale proposto, nel corrispondente procedimento, dalle Amministrazioni controricorrenti.
Accoglie, nei soli limiti di cui in motivazione, il decimo e l’undicesimo motivo del ricorso principale iscritto al n.r.g. 31634/2021, rigettandone gli altri.
Rigetta il ricorso incidentale promosso dalle Amministrazioni controricorrenti nel procedimento n.r.g. 31634/2021.
Cassa la sola sentenza definitiva della Corte di appello di Milano n. 3294/2021 in relazione ai motivi accolti del menzionato ricorso principale n.r.g. 31634/2021 e rinvia la causa alla medesima corte di appello, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame e per la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di RAGIONE_SOCIALE, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a
quello previsto per il suo ricorso principale n. 25206/2019 a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile