Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 4051 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 4051 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15/2021 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), rappresentata e difesa dagli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE);
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE CORTE APPELLO CAMPOBASSO, domiciliato in INDIRIZZO, rappresentato e difeso dall’ AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (P_IVA);
– controricorrente-
avverso SENTENZA della CORTE D’APPELLO DI CAMPOBASSO n. 87/2020, depositata il 20/03/2020;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20/09/2023 dal Consigliere NOME COGNOME.
RILEVATO CHE:
1. Il Tribunale di Campobasso annullava l’ordinanza n. 1/2015 recante l’ingiunzione a carico di NOME COGNOME per il pagamento del la somma di €25.822,85 a titolo di sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal combinato disposto nell’art. 15, comma 5, della legge 10 dicembre 1993, n. 515 (disciplina delle campagne elettorali), e dell’art. 4, lett. g) della legge 23 febbraio 1995, n. 43. La sanzione era stata comminata dal RAGIONE_SOCIALE presso la Corte d’Appello di Campobasso a séguito dell’inadempimento – da parte della candidata ingiunta (non eletta) alle elezioni del Consiglio RAGIONE_SOCIALE del Molise del 24-25 febbraio 2013 – dell’obbligo di depositare, presso quel RAGIONE_SOCIALE, la dichiarazione inerente alle spese elettorali sostenute per la partecipazione alla competizione elettorale. Nell’atto di diffida ad adempiere spedito a mezzo posta presso l’indirizzo di residenza il 14.03.2014, il RAGIONE_SOCIALE informav a la COGNOME che, decorso inutilmente il termine di 15 giorni, avrebbe applicato la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’art. 15, commi 5 e 8, della legge n. 515 del 1993. Alla diffida seguiva atto di formale contestazione ex art. 14, comma 2, legge n. 689 del 1981 della violazione, adottato dal RAGIONE_SOCIALE in data 17 settembre 2014.
1.1. Il Tribunale adíto annullava l’ordinanza n. 1/2015, sul rilievo della tardività della contestazione e notifica della violazione rispetto al termine previsto dall’art. 14, comma 2, della legge n. 24 novembre 1981, n. 689, emessa il 17.09.2014 quando, invece, i 90 giorni prescritti sarebbero scaduti il 23.07.2014. La pronuncia veniva impugnata dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di
Campobasso quale patrocinante ex lege del RAGIONE_SOCIALE.
La Corte d’Appello di Campobasso, con sentenza n. 87/2020, accoglieva il gravame, sostenendo che (per quel che qui ancora rileva): a) trova conferma la tesi sostenuta dall’appellante nella costante giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. 2, n. 8443 del 01.04.2008; Cass. Sez. 2, n. 7138 del 17.03.2008; Cass. 4 novembre 2019 n. 28262), che la Corte condivide pienamente: una volta inviata la diffida di cui all’art. 15 comma 8, della legge n. 515/1993 non è necessaria – ove il trasgressore non provveda a sanare l’omissione nel termine fissato con la diffida e, quindi, non presenti la dichiarazione sulle spese -una nuova contestazione ai sensi dell’art. 14 della legge n. 689/1981 ed è, di conseguenza, non applicabile il termine di 90 giorni decorrente dalla scadenza del termine fissato con la diffida, quale termine di decadenza per l’esercizio della legittima potestà punitiva da parte dell’autorità amministrativa; b) il fatto che un’ulteriore contestazione dell’illecito ex art 14 della legge n 689/1981 sia stata inoltrata nel caso di specie al trasgressore è del tutto irrilevante ai fini che occupano, trattandosi di un’ulteriore, non necessaria contestazione a fronte dell’invio della diffida, che di per sé è anche atto di contestazione.
Contro la predetta pronuncia ricorreva per Cassazione NOME AVV_NOTAIO COGNOME, affidando il ricorso a quattro motivi.
Si difendeva l’Avvocatura Generale dello Stato depositando controricorso.
In prossimità dell’adunanza entrambe le parti depositavano memorie.
CONSIDERATO CHE:
1. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 14, commi 2 e 6, art. 12, art. 9 legge n. 689 del 1981 e dell’art. 15, commi 5, 8 e 19 legge n. 515/1993, con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ. La ricorrente ritiene applicabile al caso di specie l’art. 14, comma 2, legge n. 689 del 1981, che per la comminazione della sanzione pecuniaria prevede la contestazione entro 90 giorni decorrenti dall’accertamento della violazione, non essendo sufficiente una mera diffida. A sostegno di tale affermazione viene prospettata un’interpretazione diversa dei due istituti della diffida ex art. 15, comma 8, legge n. 515 del 1993 e della contestazione ex art. 14, comma 2, legge n. 689 del 1981: la prima avrebbe il fine di evitare la comminazione della sanzione, essendo una sorta di avviso al quale non seguirà alcun procedimento partecipativo, rispetto alla quale il destinatario può solo adempiere depositando la dichiarazione richiesta; la seconda assurge, invece, a procedimento amministrativo di erogazione della sanzione rispetto ad una violazione già accertata. Ne discende che avendo la sanzione ex art. 15, comma 5, natura amministrativa non può essere avulsa dalle regole del procedimento amministrativo sotteso a tutte le sanzioni pecuniarie disciplinate dalla legge generale n. 689 del 1981. Del resto, dalla lettera dell’art. 15 legge n. 515/1993 si desume con chiarezza che essa nulla deroga rispetto alle modalità di accertamento della violazione e di comminazione della sanzione, non prevedendo alcun iter diverso rispetto a quello contemplato dall’art. 14 legge n. 689 del 1981. Si deve, quindi, escludere nella specie il principio di specialità di cui all’art. 9 della legge n. 689/1981, o dell’art. 15, comma 19, legge n. 515/1993: lo stesso art. 15, comma 19 citato, prevede espressamente che non si applichi l’art. 16 della legge n.
689 del 1981, mentre nulla dice rispetto all’art. 14 della citata legge generale.
1.1. Il motivo è inammissibile, ex art. 360bis , n. 1, cod. proc. civ. Questa Corte ha costantemente espresso un indirizzo -rispetto al quale l’esame del motivo non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa – in virtù del quale la diffida di cui all’art. 15, comma 8, della legge 10 dicembre 1993, n. 515 – in base alla quale il RAGIONE_SOCIALE invita il candidato che l’abbia omessa a presentare, nel termine di quindici giorni, la dichiarazione concernente le spese sostenute e le obbligazioni assunte per la propaganda elettorale assolve alla duplice funzione di offrire al trasgressore la possibilità di sanare l’illecito e, nel contempo, di avvertirlo della pendenza del procedimento sanzionatorio. Non è dunque, condivisibile l’assunto prospettato nel mezzo di gravame dalla ricorrente, ossia che diffida e contestazione rappresenterebbero due istituti diversi; al contrario, l’atto di contestazione e diffida di cui all’art. 15, comma 8, legge n. 515 del 1993 ha natura complessa, confluendo in esso sia l’accertamento della condotta, che resta cristallizzato al momento della mancata presentazione da parte del privato, ora per allora, della originaria prestazione -ovverosia della dichiarazione sulle spese elettorali sostenute quale candidato della consultazione elettorale – sia la conseguente sanzione pecuniaria. Ne consegue che, in siffatto contesto, è superfluo l’invio di un’ulteriore contestazione prima della concreta irrogazione della sanzione amministrativa, essendo l’interessato già a conoscenza della natura dell’addebito e della pendenza della procedura (Cass. Sez. 2, n. 17751 del 21.06.2023, richiamata anche in memoria
dalla, ricorrente; Cass. Sez. 1, Ord. n. 28262 del 2019;Cass. 1° aprile 2008 n. 8443; Cass. 17 marzo 2008 n. 7138).
1.2. Nella duplice funzione assolta dalla diffida, questa Corte di legittimità ha, quindi, escluso l’applicabilità dell’art. 14 legge 689/81 e della contestazione ivi prevista al secondo comma. L’art. 15, al comma 19 della legge n. 515 del 1993, con previsione di chiusura, stabilisce -quanto alle sanzioni amministrative pecuniarie previste in materia elettorale – l’applicazione delle disposizioni generali contenute nelle sezioni I e II del capo I della legge 24 novembre 1981, n. 689, «salvo quanto diversamente disposto», stabilendo altresì, espressamente, che non si applica l’art. 16 della medesima legge n. 689 del 1981. Con tali espressioni il legislatore, da un lato, ha rinviato genericamente a quanto disposto, appunto, dal «microcosmo normativo» disegnato dalla disciplina delle campagne elettorali e culminante proprio nell’istituto della diffida il quale, conferendo all’ingiunto la possibilità di sanare la condotta omissiva ab origine , mediante presentazione della dichiarazione sulle spese, ovvero dell’at testazione ex art. 2, comma 1, 3) legge 5 luglio 1982, n. 441, comporta un trattamento di favore rispetto a quello stabilito in via generale dalla legge n. 689 del 1981; dall’altro lato , ha voluto espressamente escludere il pagamento in misura ridotta previsto dall’art. 16 della legge generale più volte menzionata, al fine di renderlo istituto estraneo al «microcosmo normativo» di cui alla legge speciale n. 515 del 1993.
1.3. I principi affermati da questa Corte di legittimità e le sottese ragioni divengono, così, portatori di una natura speciale dell’atto descritto all’art. 15, comma 8, della legge n. 515/1993 e sostengono la deroga della norma all’applicazione della più
generale disciplina, da valere in materia di sanzioni amministrative, come contenuta nella legge n. 689 del 1981 (Cass. 4 novembre 2019 n. 28262, conf. da: Cass. Sez. 2, n. 8263 del 24.03.2021).
Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 15 comma, 5 e dell’art. 7, comma 6, legge n. 515/1993; art. 1, legge n. 689/1981 – violazione e falsa applicazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ., per omessa motivazione, con riferimento all’art. 360, comma 1, nn. 3) e 4) cod. proc. civ. Nella prospettazione della ricorrente, la disposizione sanzionatoria di cui al richiamato art. 15, comma 5, legge n. 515/1993 sarebbe riferibile unicamente all’omessa dichiarazione di spesa; la disposizione, pertanto, non trova applicazione al caso di specie, in virtù del divieto di applicazione analogica delle leggi che prevedono sanzioni amministrative sancito dall’art. 9 legge n. 689 del 1981, in quanto la ricorrente era tenuta all’attestazione di cui all’art. 2, n. 3), legge n. 441/1982, e non alla dichiarazione di spesa. Sul punto, la sentenza impugnata non offre alcuna motivazione, ed è quindi viziata per violazione di legge ex 132, comma 2, n. 4) cod. proc. civ., nella parte in cui non espone le ragioni di fatto e di diritto legittimanti l’applicazione della norma sanzionatoria al caso di specie.
Con il terzo motivo si deduce omesso esame del fatto decisivo avente ad oggetto l’omessa attestazione ex art. 7, comma 6, legge n. 515/1993 e non la dichiarazione di spesa – difetto di motivazione con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5) cod. proc. civ. Nella prospettazione della ricorrente, ove anche fosse ritenuto applicabile al caso di specie l’istituto dell’omessa attestazione equiparato all’omessa dichiarazione di spesa, manca nella
sentenza impugnata una seppur minima motivazione sull’ambito applicativo della norma. Si tratta, prosegue la ricorrente, di omissione di un fatto, ossia di una circostanza fattuale corrispondente all’omessa attestazione, che rappresenta un fatto decisivo, inteso nella sua accezione storico fenomenica, la cui esistenza risulta dagli atti processuali (ricorso in primo grado e comparsa di appello), decisivo per il giudizio in quanto se il giudice dell’appello avesse debitamente considerato che la fattispecie i n esame non è riconducibile all’omessa dichiarazione, ma all’omessa attestazione, avrebbe necessariamente concluso nel senso opposto a quello a qui censurato.
Il secondo e terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente, in quanto affrontano la medesima questione, ossia l’inapplicabilità della sanzione amministrativa di cui si discute alla mancata produzione dell’attestazione di cui all’art. 2, n. 3), legge n. 441/1982, sebbene censurando la pronuncia impugnata sotto profili diversi.
4.1 . L’art. 2, comma 1, n. 3) legge 5 luglio 1982, n. 441, recita: «: 3. una dichiarazione concernente le spese sostenute e le obbligazioni assunte per la propaganda elettorale ovvero l’attestazione di essersi avvalsi esclusivamente di materiali e di mezzi propagandistici predisposti e messi a disposizione dal partito o dalla formazione politica della cui lista hanno fatto part e, con l’apposizione della formula “sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero”. Alla dichiarazione debbono essere allegate le copie delle dichiarazioni di cui al terzo comma
dell’articolo 4 della legge 18 novembre 1981, n. 659, relative agli eventuali contributi ricevuti. L’utilizzo della disgiunzione «ovvero» (che la grammatica italiana annovera tra le congiunzioni coordinative di specie aggiuntiva) sta a significare la coordinazione e l’equiparazione tra due fattispecie diverse e alternative, a seconda della situazione in cui si trovi il candidato (che sia o no eletto). Tanto che, esemplificativamente, la legge speciale in esame fa solo riferimento alla prima delle due fattispecie equiparate (la dichiarazione) nel corso della disciplina dedicata (v. art. 7, commi 6 e 7; art. 15, commi 5 e 8). In definitiva, l’ art. 2, comma 1, n. 3 la legge n. 441 del 1982, richiamato dalla legge n. 515 del 1993, art. 7, comma 6, prevedendo l’alternativa alla «dichiarazione concernente le spese sostenute e le obbligazioni assunte per la propaganda elettorale», quale l’attestazione di «essersi avvalso esclusivamente di materiali e mezzi propagandistici messi a disposizione dal partito o dalla formazione politica di appartenenza», con la finale apposizione della formula solenne «sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero», lascia chiaramente intendere che anche i candidati che non abbiano sostenuto oneri personali, o ricevuto contributi esterni, siano tenuti a rendere in forma negativa, detta dichiarazione autocertificativa, in assenza della quale sarebbero del tutto vanificate le sopra evidenziate finalità perseguite dalla norma, che vanno individuate nell’esigenza di assicurare la trasparenza delle fonti di finanziamento delle campagne elettorali e garantire eventuali controlli. Sicché, anche nei «casi limite» di candidati i quali, oltre a non sostenere personalmente oneri o ricevere contributi, neppure si siano avvalsi di strutture e mezzi propagandistici collettivi di partito, gli stessi sono tenuti a
dichiararlo, assumendosene la relativa responsabilità nella prevista solenne forma. Non essendo, dunque, necessaria alcuna prova in ordine alle circostanze che il candidato avesse sostenuto spese o ricevuto contributi, ovvero si fosse avvalso dell’apparato propagandistico collettivo predisposto dal partito di appartenenza, ma sufficiente il rilievo che il medesimo aveva omesso di presentare alcuna dichiarazione al riguardo sia pure negativa, persistendo nel silenzio non ammesso dalla legge anche dopo aver ricevuto la notifica della diffida, deve ritenersi fondata la conseguente pretesa sanzionatoria (Cass. Sez. 2, n. 8263 del 24.03.2021; Cass. n. 8443 del 2008).
4.2. Tanto precisato, devono disattendersi entrambi i mezzi di gravame: il terzo, perché la mancata produzione dell’attestazione di essersi avvalsa esclusivamente di materiali e mezzi propagandistici messi a disposizione dal partito o dalla formazione politica di appartenenza non rappresenta -per le ragioni sopra esposte -un fatto decisivo ai sensi e per gli effetti del n. 5), art. 360, comma 1, cod. proc. civ.
4.2.1. Quanto alla censura espressa nel secondo mezzo di impugnazione, si deve ritenere che la Corte del merito abbia omesso di pronunciarsi sul motivo riproposto in questa sede. La questione, infatti, era stata sollevata da NOME COGNOME in comparsa di appello (oltre che dedotta in primo grado), come emerge dagli atti del giudizio di merito, cui la Corte accede direttamente in ragione della natura processuale del vizio dedotto ( ex multis di recente: Cass. n. 36728/2022). Alla luce dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111, comma 2, Cost., ed in base a lettura dell’art. 384 cod. proc. civ. (come modificato dall’art. 121, legge n. 40 del
2006) conforme a tali principi, la corte di legittimità (investita, dalla citata novella procedimentale, di più estese funzioni rescissorie), può invero, una volta verificata l’omessa pronuncia su di un motivo di appello, omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito, purché la questione di diritto introdotta dal motivo non richieda -come nel caso che ci occupa -ulteriori accertamenti in fatto (così da ultimo: Sez. L, n. 29880 del 18.11.2019 – Rv. 655857 -01;Cass. Sez. 5, n. 16171 del 28.06.2017; Cass. Sez. 5, n. 21968 del 2015). Come argomentato supra al punto 4.1., le due espressioni «dichiarazione» e «attestazione» devono ritenersi equivalenti sotto il profilo delle fattispecie sanzionabili ex art. 15, commi 5 e 8 legge n. 151 del 1993, e la doglianza deve ritenersi infondata.
5. Con il quarto motivo si deduce omesso esame e difetto di motivazione sul legittimo affidamento e l’errore di diritto in buona fede circa l’incombenza sul partito dell’onere di comunicazione e rendicontazione per assenza di spesa diretta, con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5) cod. proc. civ. Nella comparsa in appello, la ricorrente argomentava al riguardo dell’errore di diritto commesso in buona fede sull’incombenza dell’onere di comunicazione e rendicontazione, posto che la buona fede – quale esimente da responsabilità per illecito amministrativo – rileva quando risulti che il trasgressore abbia fatto tutto il possibile per conformarsi al precetto di legge. Orbene, la ricorrente aveva addotto sul punto la circostanza di abitare a Cassino, e non presso l’indirizzo cui erano pervenute la diffida e la contestazione dell’illecito amministrativo. La ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia omesso di pronunciarsi sul punto.
5.1. A riguardo, può ritenersi che la Corte territoriale, pronunciando sull’irrilevanza dell’ulteriore e non necessaria contestazione della violazione, effettuata dal RAGIONE_SOCIALE ex art. 14 legge n. 689 del 1981, abbia implicitamente anche ritenuto non provata la buona fede e la scusabilità dell’errore, nella parte in cui afferma la piena legittimità dell’esercizio della potestà punitiva da parte dell’organo amministrativo appellante, «a fronte dell’omessa trasmissione, da parte della COGNOME, di dichiarazione di spesa nel termine fissato con la diffida ad adempiere» (v. sentenza p. 6, 3° capoverso).
In ogni caso, a ritenere l’omessa pronuncia, vale quanto già ritenuto al punto 4.2.1, per cui, una volta ritenuto il vizio in oggetto, questa Corte può esaminare nel merito la questione, ed a riguardo si osserva quanto segue.
5.2. Agli effetti dell’art. 139, primo comma, cod. proc. civ., la notificazione non effettuata in mani proprie «deve essere fatta nel comune di residenza del destinatario, ricercandolo nella casa di abitazione o dove ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio». Non essendo mai stata contestata dalla ricorrente la validità della notifica, né ricorrendo l’ipotesi di cui all’art. 140 cod. proc. civ. (il quale presuppone che il luogo di residenza, dimora o domicilio del destinatario dell’atto sia stato esattamente individuato ma che la copia da notificare non possa essere consegnata per mere difficoltà di ordine materiale, quali la momentanea assenza, l’incapacità o il rifiuto delle persone indicate nel precedente articolo 139 cod. proc. civ.), opera la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 cod. civ., superabile solo se la persona destinataria dia prova di essersi trovata senza sua colpa nell’impossibilità di prendere cognizione del plico (Sez. 6 – L,
Ordinanza n. 31724 del 04/12/2019-Rv. 656033 -01; Cass. n. 15315 del 04/07/2014), a nulla rilevando convincimenti personali che abbiano «distratto» la destinataria dall’onere di controllare la casella postale.
5.3. Né è possibile invocare l a scusabilità dell’errore, ex art. 3, comma 2, legge n. 689/1981, posto che all’elemento positivo esterno richiesto dall’orientamento costante di questa Corte -ricollegabile, spiega il ricorso (p. 16, 1° capoverso), al comportamento dell’autorità amministrativa che avrebbe indotto la ricorrente a confidare nell’assenza di qualsiasi onere a suo carico, non avendo sostenuto nessuna spesa direttamente -deve comunque accompagnarsi la condizione che da parte dell’autore sia stato fatto tutto il possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero possa essergli mosso, così che l’errore sia stato incolpevole, non suscettibile cioè di essere impedito dall’interessato con l’ordinaria diligenza (v. Cass. nn. 16320/10, 13610/07, 11012/06, 9862/06, 5426/06 e 11253/04). Come detto sopra a proposito della conoscibilità della notificazione (punto 5.1.), non è stata dimostrata dall’odierna ricorrente l’incolpevolezza della non effettiva conoscenza della notificazione degli atti con i quali la COGNOME veniva prima diffidata ad adempiere e poi sanzionata per il mancato ottemperamento alla diffida. Del resto, l’onere della prova degli elementi positivi che riscontrano l’esistenza della buona fede è a carico dell’opponente, e la relativa valutazione costituisce un apprezzamento di fatto di stretta competenza del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. Sez. 2, n. 8788 del 12.05.2020, richiamata nel ricorso; Cass., Sez.
2, n. 21280/2015; V. anche Cass. n. 19759/2015; Cass. n. 23019/09).
In definitiva, il RAGIONE_SOCIALE rigetta il ricorso, liquida le spese secondo soccombenza come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso, condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore del controricorrente, che liquida in € 3.400,00 per compensi, oltre le spese prenotate a debito.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis , del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda