Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 13271 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 13271 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5845/2023 R.G. proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
CONSIGLIO DI DISCIPLINA NAZIONALE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI E DEGLI ESPERTI CONTABILI, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO MESSINA n. 9/2022 depositata il 10/08/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 06/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Viste le conclusioni motivate, ai sensi dell’art. 23, comma 8 -bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge
18 dicembre 2020, n. 176, formulate dal P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso.
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale che ha concluso riportandosi alle conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
In relazione a un incarico conferito al dr. COGNOME dall’Azienda RAGIONE_SOCIALE di Taormina, il Consiglio di disciplina istituito presso l’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di Messina comminava al dr. NOME COGNOME la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per 13 mesi, contestando la violazione dell’art. 6, comma 3, del Codice deontologico; dell’art. 8 comma 2; dell’art.8 comma 4 e dell’art. 8 comma 6.
Tale statuizione è stata confermata dal Consiglio di Disciplina Nazionale, che ha rigettato il ricorso proposto dal professionista.
Con sentenza n. 6/2021 pubblicata in data 9.06.2021 il Tribunale di Messina accoglieva parzialmente il reclamo proposto ex artt. 32 d.lgs. 139/2005 dallo COGNOME NOME avverso la già menzionata decisione, ma confermava la sanzione irrogata.
In particolare, il Tribunale escludeva la sussistenza delle violazioni ex art. 8, comma 4 e comma 6.
Investita del gravame proposto dal professionista, la Corte d’appello di Messina ha confermato la decisione.
Per la cassazione della decisione COGNOME Giuseppe ha proposto ricorso, affidato a tre motivi.
Il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, depositando anche la memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. ─ I motivi di ricorso possono così sintetizzarsi.
a) ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 8, comma 2, del Codice di disciplina: « Il professionista non deve accettare incarichi professionali in materie nelle quali non ha un’adeguata competenza, tenuto conto della complessità della pratica e di ogni altro elemento utile alla valutazione’.
In contrasto con la norma, la quale impone che la competenza sia valutata ex ante , sulla base dei titoli e dell’esperienza acquisita nel corso della professione, la Corte d’appello, così come l’organo di disciplina, ha ricondotto tale mancanza di competenza alla negligenza nell’espletamento dell’incarico -asseritamente manifestata dal ricorrente nell’espletamento dell’incarico.
«Tale applicazione di legge è del tutto errata perché un soggetto può essere competente, avendo le necessarie conoscenze e esperienza, ma assolvere negligentemente a un incarico»;
b) ex art. 360, comma 1, n. 4, per nullità della pronuncia per violazione dell’art. 112 cpc per aver deciso ultra petita , per avere la Corte d’appello introdotto l’aggravante del danno rilevante, che non era stata addebitata dal Tribunale;
c) ex art. 360, comma i, n. 3, per violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 8, comma 2, lett. a) del codice di disciplina: nonostante il Consiglio di disciplina avesse ritenuto che tutte le violazione fossero sanzionabili con la censura, la Corte d’appello ha poi confermato la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per 13 mesi, laddove la corretta applicazione delle norm e, pur considerando l’aggravante del danno
rilevante, avrebbe imposto di contenere la sanzione nei limiti dei due mesi di sospensione;
d) ex art. 360, comma 1, n. 4, per nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cpc per omesse esposizioni delle ragioni di fatto e di diritto.
La sentenza di appello ritiene che la sanzione sia congrua anche richiamando l’art. 6, comma III del Codice delle Sanzioni che prevede la ‘sospensione per un periodo superiore ad un anno e fino al massimo di due anni si applica per le infrazioni di particolare gravità commesse con dolo o colpa grave e che comportino anche un significativo danno a terzi e all’immagine della professione’.
Nonostante le contestazioni mosse dall’attuale ricorrente in ordine all’applicabilità della norma sia per quanto riguarda l’identificazione dei danneggiati, sia in ordine al profilo soggettivo, sia in ordine alla rilevanza del danno, la sentenza esibisce una motivazione apparente in relazione a tutte le considerazioni che hanno indotto la Corte d’appello a confermare la sanzione.
2. ─ Il primo motivo è infondato, essendo invero petizione di principio che la competenza sia da valutare ex ante e in astratto. La norma richiama il professionista a una precisa assunzione di responsabilità, imponendogli di non assumere incarichi per i quali non abbia una adeguata competenza, intesa in senso soggettivo e non quale mero possesso del titolo abilitante.
Il secondo motivo è inammissibile. In tema di ricorso per cassazione, l’esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio di merito, riconosciuto alla S.C. ove sia denunciato un error in procedendo , presuppone l’ammissibilità del motivo, ossia che la parte riporti in ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza, gli elementi ed i riferimenti che consentono di individuare, nei suoi
termini esatti e non genericamente, il vizio suddetto, così da consentire alla Corte di effettuare il controllo sul corretto svolgimento dell’iter processuale senza compiere generali verifiche degli atti (Cass. n. 23834/2019; Cass, n. 3612/2022).
Il motivo non soddisfa tale requisito, perché la sua sintetica esposizione non consente di comprendere il significato della censura. Si ricorda che il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c., come il principio del tantum devolutum quantum appellatum ” (artt. 434 e 437 c.p.c.), implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene della vita – diverso da quello richiesto ( petitum mediato ) – oppure di emettere qualsiasi pronuncia – su domanda nuova, quanto a causa petendi – che non si fondi, cioè, sui fatti ritualmente dedotti o, comunque, acquisiti al processo -anche se ricostruiti o giuridicamente qualificati dal giudice in modo diverso rispetto alle prospettazioni di parte – ma su elementi di fatto, che non siano, invece, ritualmente acquisiti come oggetto del contraddittorio (Cass. n. 11039/2006; n. 513/2019; n. 6533/2024).
In verità, per quanto è dato comprendere, il motivo non pare denunziare una violazione rientrante in tale ambito, che si verifica quando il giudice d’appello abbia esteso le sue statuizioni a punti non ricompresi, neanche implicitamente, nel tema esposto nei motivi d’impugnazione (Cass. n. 30129/2024; n. 9202/2018). In realtà, la censura sembra alludere al fatto che il giudice d’appello avrebbe ritenuto sussistente l’aggravante del danno rilevante, che non era stata contestata dal Consiglio di disciplina: in altre parole, sembra che il ricorrente abbia inteso denunziare il principio dell’immutabilità della contestazione disciplinare (cfr. Cass. n. 11540/2020). Il motivo, tuttavia, rimane oscuro anche in relazione
a questo profilo, se è vero che il medesimo ricorrente, già a pag. 2 del ricorso, nell’identificare le contestazioni, include l’aggravante della ‘significatività del danno’.
Il terzo motivo è infondato. Il motivo suppone che il Consiglio di disciplina avesse scelto quale sanzione base la censura, mentre nella specie, come risulta già dall’esposizione fatta in ricorso, è stato applicato il comma 3 dell’art. 6 del codice delle sanzioni disciplinari ( infra ). Insomma, il ricorrente ipotizza un ‘fatto’ diverso da quello considerato dal giudice di merito, il quale, nell’esame del motivo riguardante la sanzione, richiama, appunto, il terzo comma dell’art. 6 del codice di disciplina: «La sospensione per un periodo superiore ad un anno e fino ad un massimo di due anni si applica per le infrazioni di particolare gravità commesse con dolo o colpa grave e che comportino anche un significativo danno a terzi e all’immagine della professione». Risulta che è stato poi applicato l’art. 8, comma 2, del Codice delle sanzioni, ravvisando la sussistenza delle aggravanti di cui al comma 1: a) la commissione di più violazioni contemporanee o derivanti dal medesimo fatto; b c) la significatività della violazione o del danno arrecato; d) la reiterazione di comportamenti che abbiano determinato provvedimenti disciplinari nei confronti dell’iscritto»: ciò ha comportato l’irrogazione di un ulteriore mese di sospensione.
In rapporto a tale disciplina la decisione impugnata, nel confermare la sanzione irrogata, non è incorsa in alcun errore di diritto. Questa Suprema Corte ha chiarito che l’applicazione di una norma a una fattispecie concreta ricostruita dal provvedimento impugnato in modo erroneo o carente non ridonda necessariamente in violazione di quella stessa norma, ma può anche costituire espressione di un giudizio di merito la cui censura, in sede di legittimità, è possibile,
sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi (violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnata in modo evidente dal fatto che solo quest’ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 15499/2004).
A ciò si deve aggiungere che la Corte d’appello ha riconosciuto che la sanzione sarebbe comunque appropriata anche se fosse stata scelta, quale sanzione base, la censura (come infondatamente pretende il ricorrente), in considerazione della pluralità delle circostanze aggravanti, il che allontana definitivamente la configurabilità della violazione ipotizzata con il motivo in esame.
Solo per completezza di esame va precisato che il concorso di più aggravanti, in aggiunta a quella del danno rilevante, giustificherebbe comunque l’applicazione dell’art. 8 del Codice delle sanzioni, pure in presenza dell’originaria applicazione della più grave sanzione comminata dall’art. 6, comma 3.
Sono in proposito condivisibili i rilievi proposti con il controricorso.
Il quarto motivo è manifestamente infondato. Si ricorda che «La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza
della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione» (Cass., S.U., n. 8053/2014). In rapporto a tale principio la motivazione è tuttavia esistente e niente affatto inferiore al c.d. minimo costituzionale, risultando da essa che il giudice, seppure in sintesi o per implicito, ha riscontrato la sussistenza della violazione, così come contestata dall’organo di disciplina, avendo dato una spiegazione logica e adeguata della decisione adottata, come emerge dal relativo contenuto, sopra riportato (Cass. n. 7662/2020).
3. ─ In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con addebito di spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore de controricorrente, liquidate € 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00 e agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte
del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda