Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 3538 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 3538 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14175/2021 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato COGNOME che lo rappresenta e difende -controricorrente- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA n. 1995/2021 depositata il 17/03/2021.Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
– Il ricorso riguarda la sentenza con cui la Corte d’Appello di Roma ha confermato la decisione del Tribunale di Cassino che ha
accolto l’opposizione proposta dalla società RAGIONE_SOCIALE al decreto ingiuntivo ottenuto da Banca Monte dei paschi di Siena s.p.a. quale cessionaria del credito – per effetto di un’operazione di anticipo fatture – vantato verso la società opponente da RAGIONE_SOCIALE L’opponente aveva dedotto che le fatture erano false figurando in esse prestazioni mai richieste né conseguite dalla COGNOME che, inoltre, non aveva mai accettato la cessione del credito. MPS aveva chiesto il rigetto dell’opposizione e – previa autorizzazione alla chiamata in causa di RAGIONE_SOCIALE che veniva dichiarata fallita poco prima della notifica della chiamata in giudizio – la condanna di quest’ultima a manlevarla dall’esborso di qualsiasi somma fosse stata riconosciuta dovuta a favore dell’opponente.
All’udienza del 11.1.2008 l’opposta aveva eccepito la carenza di legittimazione processuale in capo al sig. NOME COGNOME quale procuratore speciale della COGNOME non munito del relativo potere, sicché all’udienza successiva si costituiva nuovamente in giudizio la società in forza di procura alle liti rilasciata dal sig. NOME COGNOME.U. della società
Il Tribunale di Cassino con sentenza 30.6.2016, dichiarata inammissibile la domanda di garanzia proposta da RAGIONE_SOCIALE nei confronti della RAGIONE_SOCIALE dichiarata fallita (all’epoca dell’introduzione del giudizio di primo grado, prima della notifica della chiamata in manleva), ha respinto l’eccezione di carenza di legittimazione processuale dell’opponente, avendo la successiva costituzione della società in persona dell’A.U. sanato il vizio eccepito e ritenuto non provato il credito di MPS alla luce dell’esito dell’istruttoria orale (che aveva evidenziato l’assenza di collegamento tra le fatture azionate e le forniture in esse esposte, assenza confermata dalla mancata contabilizzazione delle fatture stesse da parte della società debitrice).
– La Corte territoriale ha respinto il gravame proposto da RAGIONE_SOCIALE ritenendo, per quanto qui ancora interessa, infondato il primo
motivo d’appello con cui era censurata l’erronea applicazione dell’art. 182 c.p.c. nella versione vigente ratione temporis , giacché la sanatoria del difetto di rappresentanza processuale eccepito non poteva impedire la decadenza della COGNOME dal diritto di proporre l’opposizione in quanto già verificata; invero la sentenza delle SS.UU n. 9217/2010 – in un caso del tutto analogo e sottoposto come questo alla previgente disciplina – aveva offerto una lettura della norma di fatto anticipatrice del testo novellato (ove è espressamente previsto che l’effetto della sanatoria si produca ex tunc ) il quale deve ritenersi, perciò, fungere da criterio interpretativo anche per il passato, avendo la Corte di legittimità chiarito « che la previsione secondo cui il giudice che rilevi un difetto di rappresentanza, di assistenza o autorizzazione, ‘può’ assegnare un termine per la regolarizzazione della costituzione in giudizio, deve essere interpretato anche alla luce della modifica apportata dall’art. 46 comma 2 l. n. 69/2009, nel senso che il giudice ‘deve’ promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del giudizio e indipendentemente dalle cause del predetto difetto, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa con effetti ex tunc , senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze processuali », orientamento confermato in altri pronunce (cita Cass. n. 4248/2016 e n. 2274/2016); pertanto nel caso di specie si era prodotta la sanatoria con efficacia retroattiva dell’iniziale carenza di legittimazione processuale della società opponente per effetto della spontanea nuova costituzione in giudizio della società opponente in forza di una nuova procura alle liti rilasciata dall’A.U. della società, con espressa ratifica da parte del procuratore neocostituito in giudizio di tutta l’attività processuale compiuta.
– Avverso la sentenza ha presentato ricorso affidandolo ad un unico motivo RAGIONE_SOCIALE quale mandataria di Siena RAGIONE_SOCIALE
s.r.l. affermatasi cessionaria del credito in questiona da parte di MPS. Ha resistito RAGIONE_SOCIALEp.a.
RAGIONI DELLA DECISIONE
– Va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso che parte resistente solleva sotto due profili:
la carenza di prova della legittimazione ad agire di RAGIONE_SOCIALE poiché « nel ricorso manca ogni specificazione ed indicazione dei passaggi, dei trasferimenti e delle cessioni in virtù dei quali la società ricorrente sarebbe divenuta titolare del credito controverso »; in particolare sottolinea la controricorrente che « la mancata indicazione della causale del (presunto) subentro della RAGIONE_SOCIALE nella titolarità del diritto (controverso), comunque il difetto della relativa prova, e la contestazione della circostanza come sopra formulata, determinano – almeno allo stato degli atti – la carenza (e/o la mancata prova) della legittimazione della ricorrente e la conseguente inammissibilità dell’impugnazione »; la ricorrente replica di aver provato la cessione del credito in parola tramite la produzione dell’estratto della Gazzetta Ufficiale dell’avviso della cessione ex art. 58 TUB, dal quale si evince che il credito controverso era compreso nel portafoglio cediti ceduto, anche in ragione dell’apposito link ivi indicato onde favorire la specifica verifica;
la mancata notifica del ricorso a tutte le parti del giudizio d’appello, poiché la sentenza impugnata sarebbe stata resa anche nei confronti della RAGIONE_SOCIALE dichiarata fallita e, nel giudizio d’appello, il relativo Fallimento cui pure era stata notificato l’atto d’appello, era stato dichiarato contumace: reputa la resistente che, essendosi nel frattempo chiuso il fallimento della RAGIONE_SOCIALE con decreto del Tribunale di Cassino il 27 Febbraio 2020, con l’effetto della decadenza degli organi fallimentari, la notifica del ricorso per cassazione della sentenza d’appello doveva considerarsi nulla ed inefficace in quanto eseguita nei confronti dell’avv. NOME COGNOME
NOME già Curatore della procedura concorsuale; sul punto la ricorrente replica che le ragioni di inammissibilità così dedotte sono infondate in quanto, da un lato, non è configurabile nella specie un litisconsorzio necessario poiché le domande della MPS nei confronti della GSM sono state dichiarate inammissibili dal primo giudice, e detta statuizione – non essendo stata impugnata – è passata in giudicato, quindi non vi era alcun interesse della GSM a partecipare al giudizio; dall’altro, poiché la procedura fallimentare è stata chiusa con un decreto pubblicato nel registro delle imprese il 4.3.2020 – quindi in pendenza del giudizio d’appello – il curatore avrebbe mantenuto la legittimazione processuale anche per il giudizio di cassazione.
1.1. – L’esame del primo motivo di inammissibilità del ricorso merita di essere preceduto da una ricognizione della giurisprudenza di legittimità sulla questione, previa individuazione corretta della stessa che, attenendo alla carenza di prova della legittimazione ad agire della ricorrente, riguarda – è bene anzitutto precisare – non la legittimazione processuale, bensì la prova della titolarità del diritto che la parte « afferma » onde ottenerne la tutela in questo grado di giudizio, ovvero ad una questione di merito o di legittimazione sostanziale.
1.1.1. – Ciò precisato, e premesso che vanno distinte le questioni (i) della prova dell’avvenuta cessione in blocco quale vicenda traslativa, (ii) della prova che detta cessione riguardi la posizione creditoria controversa, (iii) della efficacia della cessione verso i debitori ceduti agli effetti di cui all’art. 1264 c.c., si osserva che questa Corte (v. Cass. 17944/2023) ha di recente svolto sul punto una ricognizione della questione affermando per quanto qui interessa:
che «in linea generale, ai fini della prova della cessione di un credito, benché non sia di regola necessaria la prova scritta, di certo non può ritenersi idonea, di per sé, la mera notificazione della
stessa operata al debitore ceduto dal preteso cessionario ai sensi dell’art. 1264 c.c., quanto meno nel caso in cui sul punto il debitore ceduto stesso abbia sollevato una espressa e specifica contestazione, trattandosi, in sostanza, di una mera dichiarazione della parte interessata anche se la cessione sia avvenuta nell’ambito di un’operazione di cessione di crediti individuabili in blocco da parte di istituti bancari a tanto autorizzati e la notizia della cessione sia eventualmente stata data dalla banca cessionaria mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell’art. 58 T.U.B .»;
b) che « la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale esonera, sì, la cessionaria dal notificare la cessione al titolare del debito ceduto» ma «non prova l’esistenza di quest’ultima (così espressamente Cass. n. 22151/2019; cfr. già in precedenza Cass. n. 5997/2006 secondo cui « la parte che agisca affermandosi successore a titolo particolare del creditore originario, in virtù di un’operazione di cessione in blocco secondo la speciale disciplina di cui all’art. 58 del d.lgs. n. 385 del 1993, ha anche l’onere di dimostrare l’inclusione del credito medesimo in detta operazione, in tal modo fornendo la prova documentale della propria legittimazione sostanziale, salvo che il resistente non l’abbia esplicitamente o implicitamente riconosciuta» (Cass. n. 24798/2020; Cass. n. 4116/2016 )».
premesso inoltre che « la prova della cessione di un credito non è, di regola, soggetta a particolari vincoli di forma; dunque, la sua esistenza è dimostrabile con qualunque mezzo di prova, anche indiziario, e il relativo accertamento è soggetto alla libera valutazione del giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità » e che « va, comunque, sempre distinta la questione della prova dell’esistenza della cessione (e, più in generale, della fattispecie traslativa della titolarità del credito) dalla questione della prova dell’inclusione di un determinato credito nel novero di quelli oggetto di una operazione di cessione di crediti individuabili
in blocco ai sensi dell’art. 58 T.U.B. , si può certamente confermare, in primo luogo, che, in caso di cessione di crediti individuabili blocco ai sensi dell’art. 58 T.U.B., quando non sia contestata l’esistenza del contratto di cessione in sé, ma solo l’inclusione dello specifico credito controverso nell’ambito di quelli rientranti nell’operazione conclusa dagli istituti bancari, l’indicazione delle caratteristiche dei crediti ceduti, contenuta nell’avviso della cessione pubblicato dalla società cessionaria nella Gazzetta Ufficiale, può ben costituire adeguata prova dell’avvenuta cessione dello specifico credito oggetto di contestazione, laddove tali indicazioni siano sufficientemente precise e consentano, quindi, di ricondurlo con certezza tra quelli compresi nell’operazione di trasferimento in blocco, in base alle sue caratteristiche concrete. In tal caso, infatti, in mancanza di contestazioni specificamente dirette a negare l’esistenza del contratto di cessione, quest’ultimo non deve essere affatto dimostrato (in quanto i fatti non contestati devono considerarsi al di fuori del cd. thema probandum): il fatto da provare è costituito soltanto dall’esatta individuazione dell’oggetto della cessione ».
1.1.2. – Traendo le conclusioni di questi principi nel caso di specie, il Collegio osserva che qui non si tratta di una contestazione specifica sulla sussistenza della cessione come vicenda traslativa in sé, avendo la resistente espressamente contestato la legittimazione « sostanziale » della ricorrente in questi termini: « la mancata indicazione della causale del (presunto) subentro della Siena NPL 2018 nella titolarità del diritto (controverso), comunque il difetto della relativa prova, e la contestazione della circostanza come sopra formulata, determinano – almeno allo stato degli atti – la carenza (e/o la mancata prova) della legittimazione della ricorrente e la conseguente inammissibilità dell’impugnazione», argomentazione che si riferisce chiaramente alla « titolarità del diritto (controverso) » ovvero del credito per cui è causa.
1.1.3. – Con la produzione dell’estratto della G.U. relativo alla pubblicazione dell’avviso – già allegata al ricorso sub doc. 6 – dal quale è possibile evincere, in ragione della descrizione dell’operazione e del link specificamente a ciò deputato, la ricorrente ha fornito idonea prova della titolarità de rapporto controverso, sicché l’eccezione di inammissibilità sollevata in proposito è infondata.
1.2. – Quanto al secondo motivo di inammissibilità del ricorso, concernente la mancata notifica dello stesso alla RAGIONE_SOCIALE, esso va respinto poiché non si ravvisa in questo caso un’ipotesi di litisconsorzio c.d. processuale necessario che imponga l’applicazione dell’art. 331 c.p.c., né i presupposti di cui all’art. 332 c.p.c.
Giova ricordare che agli effetti di risolvere la specifica questione di diritto valgono i seguenti principi:
per la verifica del se e del come il litisconsorzio, realizzatosi in primo grado, possa proseguire nelle fasi di gravame, occorre distinguere fra tre categorie di cause: quelle inscindibili (con la precisazione che, quando è inscindibile, la causa è unica e una sola, benché con pluralità di parti che hanno legittimazione a contraddire); quelle tra loro dipendenti (bisognose di decisioni tra loro coordinate); quelle scindibili; invero la disciplina dettata in tema di pluralità di parti e pluralità di cause in sede d’impugnazione deve prioritariamente tener conto della inscindibilità e/o scindibilità delle cause, prima ancora che della categoria del litisconsorzio: tendenzialmente, l’una manifesta e regola il « cumulo soggettivo » (come nel litisconsorzio necessario sostanziale) o anche « oggettivo » di posizioni giuridiche (anche dipendenti) che siano portate all’attenzione dell’organo giudicante sin dalla sua introduzione oppure nello sviluppo del giudizio di primo grado (per via degli interventi o delle chiamate in causa); l’altro, altrettanto tendenzialmente, costituisce istituto processuale funzionale alla
necessità, oppure alla utilità o, infine, alla mera opportunità, che per cause che abbiano percorso un tratto in comune nel processo di primo grado, sussistano ancora i presupposti perché il percorso prosegua unitariamente in sede di gravame; oppure, al contrario, che per talune di esse potrebbero essersi esaurite le ragioni di questo comune cammino (v. Cass. n. 11676/2024, in motivazione);
b) nel caso in cui il convenuto chiami un terzo in causa, esperendo nei suoi confronti una domanda di garanzia c.d. impropria, fondata su un titolo diverso ed indipendente rispetto a quello posto a base della domanda principale (come nella specie), soltanto laddove il terzo non si limiti a contrastare la domanda di manleva, ma contesti anche il titolo dell’obbligazione principale quale antefatto e presupposto della garanzia azionata, e, quindi, la fondatezza della domanda proposta nei confronti del proprio chiamante, si configura una ipotesi di inscindibilità di cause (v. tra le molte Cass. n.20552/2014; Cass. n.16590/2019) che dà luogo a litisconsorzio processuale in fase di impugnazione e che, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., impone l’integrazione del contraddittorio nel giudizio di appello, a pena di nullità – rilevabile d’ufficio ed anche in sede di legittimità – dell’intero procedimento di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso. (v. Cass. n.20552/2014; Cass. n.16590/201912; Cass. n. 12174/2020); invero è noto che l’art. 331 c.p.c., disciplinante il litisconsorzio nelle fasi di gravame, si applica non solo alle fattispecie in cui la necessità del litisconsorzio in primo grado derivi da ragioni di ordine sostanziale, ma anche a quelle di cd. litisconsorzio necessario processuale, che si verificano, però, solo quando la presenza di più parti nel giudizio di primo grado debba necessariamente persistere in sede di impugnazione, e ciò al fine di evitare possibili giudicati contrastanti in ordine alla stessa materia e nei confronti di quei soggetti che siano stati parti del giudizio (v. Cass. n. 8790/2019); il che non avviene invece là
dove quanto ottenibile in giudizio dalla parte, all’esito della reclamata partecipazione di quel terzo, non possa essere che una pronuncia di « mero rito » destinata a dar conto dell’esistenza di una causa che impedisca la regolare introduzione del giudizio rispetto al distinto rapporto di cui il terzo sia partecipe; e questo perché (v. ancora Cass. n. 8790/2019), alla luce del c.d. giusto processo, è da ritenersi superata una visione formalistica del contraddittorio, sicché si deve intervenire su di esso con la prospettiva di assicurare davanti al giudice che esso si svolga tra le parti che effettivamente dimostrino di avervi interesse sostanziale, ovvero alla tutela del bene della vita coltivato in giudizio;
c) in caso di cause « scindibili » e non tra loro dipendenti (per un rapporto di pregiudizialità intrinseco), trova applicazione non l’art. 331, bensì l’art. 332 c.p.c., che prevede la notificazione dell’impugnazione, a parti diverse da quelle dalle quali o contro le quali è stata proposta, con una funzione diversa: mentre nel primo caso si tratta di una vocatio in ius per integrare il contraddittorio, in ipotesi di cause scindibili, nel secondo caso, detta notificazione integra soltanto una litis denuntiatio « volta a far conoscere ai destinatari l’esistenza di un’impugnazione, al fine di consentire loro di proporre impugnazione in via incidentale nello stesso processo, qualora la stessa non sia esclusa o preclusa » (Cass. n. 9002/2007; conforme Cass. n. 10171/2018; Cass. n. 7031/2020); proprio in ragione di detta specifica finalità questa Corte, secondo un risalente pacifico indirizzo (Cass., n. 1920/88; Cass., n. 6404/98; Cass., n. 6802/99; n. 20792/2004, Cass. n.7031/2020), ha stabilito che ove il giudice abbia omesso di disporre la notificazione dell’impugnazione, la violazione della norma di cui all’art. 332 c.p.c. è improduttiva di effetti se siano già trascorsi i termini per l’impugnazione al momento in cui il giudice dell’impugnazione è chiamato a decidere.
Ciò premesso si osserva che quella realizzata nel caso di specie è appunto un’ipotesi di causa «scindibile» (non essendo stato contestato da parte di RAGIONE_SOCIALE – fallita e non costituitasi nel giudizio di primo grado – il titolo della domanda principale che ha giustificato la chiamata in manleva da parte di MPS), definita in primo grado con una sentenza di inammissibilità della domanda che è passata in giudicato non essendo stata oggetto di impugnazione in appello da parte di MPS, che, quindi, aveva notificato la citazione in appello al Fallimento RAGIONE_SOCIALE già a mero titolo di litis denuntiatio.
Perciò la sentenza di secondo grado che contempla il Fallimento RAGIONE_SOCIALE come parte rimasta contumace, non riguarda in alcun modo né quest’ultima né la procedura concorsuale relativa al suo fallimento, onde non sussisteva alcun interesse, alcuna necessità né alcuna opportunità, di notificare anche ad essa la pendenza della lite, dal momento che anche in caso di esito positivo del ricorso, la sentenza resa in primo grado non avrebbe potuto comunque essere ri-discussa in appello se non quanto al rapporto tra RAGIONE_SOCIALE (pretesa creditrice) e COGNOMEpretesa debitrice), ma non quanto al rapporto MPS (cessionaria del credito) e GSM (cedete il credito), già dichiarata inammissibile – con effetto definitivo – in ragione del fatto che ogni pretesa a contenuto patrimoniale svolta nei confronti di un soggetto fallito deve essere azionata attraverso lo speciale procedimento endofallimentare dell’accertamento del passivo, da attivarsi avanti al tribunale fallimentare.
Pertanto anche sotto questo profilo l’eccezione di inammissibilità va respinta.
– Con l’unico motivo la ricorrente denuncia error in procedendo e nullità della sentenza o del procedimento, per violazione dell’art. 58 comma 1 l. n. 69/2009 e degli artt. 83, 182, 641 e 647 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c. e violazione dell’art. 11 delle preleggi ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.
In sintesi reputa la ricorrente che la sentenza debba essere cassata nella parte in cui, rigettando il primo motivo di impugnazione, avrebbe erroneamente applicato: l’art. 182 c.p.c. vigente ratione temporis attribuendo effetti ex tunc alla ratifica dei poteri del falsus procurator; l’art. 11 delle preleggi ed il principio tempus regit actum, applicando impropriamente la sentenza delle SS.UU. citata ; l’art. 125 c.p.c., in quanto avrebbe dovuto dichiarare che il principio di sanatoria del difetto di rappresentanza con effetti retroattivi non opera in ambito processuale; con la conseguenza che l’opposizione a decreto ingiuntivo avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile, con conseguente declaratoria di definitività del decreto ingiuntivo che era passato in giudicato, per non avere il debitore spiegato opposizione in termini.
2.1. – Il motivo è inammissibile ex art. 360 bis comma 1 c.p.c.
La sentenza d’appello ha fatto corretta applicazione dell’orientamento ermeneutico stabilito da questa Corte a proposito dell’art. 182 c.p.c. nella versione anteriore alla riforma del 2009 a partire dalla sentenza delle SS.UU. n. 9217/2010: questa, invero, nel risolvere il contrasto giurisprudenziale sottopostole attraverso l’ordinanza interlocutoria, si è soffermata soprattutto sulla questione del dovere o meno del giudice di concedere il termine per procedere alla regolarizzazione del difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione perché, in effetti, non sussisteva un contrasto effettivo sul fatto che le decadenze di cui parlava la norma fossero solo quelle « sostanziali » e non « processuali », tanto che sul punto osserva che « quanto al limite delle decadenze già maturate, imposto dall’art. 182 c.p.c., comma 2, esso renderebbe la norma del tutto superflua, se fosse riferibile anche alle decadenze processuali, anziché solo a quelle sostanziali, perché non avrebbe ragione la concessione di un termine per il compimento di attività dalle quali la parte non sia ancora decaduta ».
Il riferimento (contenuto in detta sentenza e fatto proprio dal giudice d’appello) alla L. n. 69 del 2009 – che ha modificato l’art. 182 c.p.c . prevedendo, analogamente a quanto già stabilisce l’art. 164 c.p.c., comma 2, per la nullità della citazione « che, quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa » e che «l’ osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione » – non vale, ovviamente, ad affermare che la nuova disciplina sia applicabile con efficacia retroattiva in violazione del principio tempus regit actum, bensì a sottolineare il fatto che l’orientamento ermeneutico prevalente (conforme alla dottrina processualistica altrettanto prevalente ) per cui, tra l’altro, le decadenze considerate dalla norma vigente fossero solo quelle «sostanziali», donde l’efficacia retroattiva dell’intervento sanante del giudice, « non poteva non valere anche come criterio interpretativo del testo precedente». Onde ha concluso « nel senso che le invalidità derivanti dal difetto di capacità processuale possono essere sanate anche di propria iniziativa dalle parti; segnatamente con la regolarizzazione della costituzione in giudizio della parte cui l’invalidità si riferisce. Mentre l’intervento del giudice inteso a promuovere la sanatoria è obbligatorio, va esercitato in qualsiasi fase o grado del giudizio, e ha efficacia ex tunc , senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze processuali ».
2.2. – Né è di ostacolo quanto sostiene la ricorrente a proposito del preteso passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo che sarebbe nel frattempo verificatosi impedendo, comunque, alla
sanatoria di produrre effetto ex tunc sotto questo specifico profilo, poiché il decreto ingiuntivo acquista effetto di giudicato per effetto del decreto ex art. 647 c.p.c. con cui il giudice che lo ha emesso lo dichiara definitivamente esecutivo, dal momento che solo da detto provvedimento l’art. 656 c.p.c. prevede l’esperibilità dei mezzi straordinari d’impugnazione per la sentenza passata in giudicato, in quanto « provvedimento di natura giurisdizionale, diverso dalla mera attestazione da parte del cancelliere della mancata opposizione dell’ingiunto nel termine predetto, che ne costituisce solo il presupposto di fatto» (così già Cass. 23202/2013). In tal senso la giurisprudenza della Corte è del resto consolidata per effetto di ripetuti e conformi arresti (v. Cass. n. 1774/2018, « la conversione in decennale del termine prescrizionale per effetto del giudicato, ex art. 2953 c.c., non si verifica a seguito di decreto ingiuntivo non opposto ma privo della dichiarazione ex art. 647 c.p.c., bensì nel momento in cui il giudice, dopo aver controllato la notificazione del decreto, lo dichiari esecutivo, poiché il procedimento di cui all’art. 647 c.p.c. non ha una mera funzione di attestazione, analoga a quella della cancelleria circa l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza, bensì quella, assai più penetrante, di una verifica giurisdizionale della regolarità del contraddittorio, che si pone all’interno del procedimento monitorio e che conclude l’attività in esso riservata al giudice in caso di mancata opposizione. L’effetto di cui all’art. 2953 c.c. sul termine di prescrizione si collega, infatti, ad un provvedimento giurisdizionale passato in giudicato, e tale qualità non può che essere attribuita al decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., dal momento che solo per esso l’art. 656 c.p.c. prevede l’esperibilità dei mezzi straordinari d’impugnazione per la sentenza passata in giudicato » ; conformi in materia fallimentare Cass. n. 1650/2014; Cass. n. 25191/2017; Cass. n. 21583/2018; Cass. n. 24157/2020 e da ultimo di recente Cass. n. 8260/2024
che – con osservazioni che il Collegio condivide – afferma che va fatta applicazione del principio per cui « il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c. Tale funzione si differenzia dalla verifica affidata al cancelliere dall’art. 124 o dall’art. 153 disp. att. c.p.c., e consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all’interno del processo d’ingiunzione »; la stessa è particolarmente significativa poiché la Corte si pronuncia a fronte di gravame in cui la ricorrente sollecita una rilettura del riferito orientamento, osservando che l’art. 324 c.p.c. prevede la « cosa giudicata formale » stabilendo che « s’intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5 » e a « prova del passaggio in giudicato della sentenza » , poi, l’art. 124 att. c.p.c. contempla il « certificato passaggio in giudicato della sentenza » , con il quale il cancelliere certifica, in calce alla copia contenente la relazione di notificazione, che non è stato proposto, nei termini di legge, appello, ricorso per cassazione o istanza di revocazione ordinaria per i motivi di cui all’art. 395 c.p.c., nn. 4) e 5); il cancelliere certifica in calce alla copia della sentenza, parimenti, che non è stata proposta alcuna delle dette impugnazioni nel termine lungo di sei mesi ex art. 327 c.p.c.: « Il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo non opposto contempla, invece, un procedimento contenuto nell’art. 647 c.p.c. che è diretto alla declaratoria di esecutorietà del decreto; si tratta di un procedimento spedito e privo di formalità (l’istanza può essere anche verbale), che implica il controllo della notificazione del decreto, del decorso del termine e della mancata opposizione o costituzione nei termini. Il decreto di esecutorietà, quindi, si
distingue dalla mera attestazione di cancelleria, cui non può certamente reputarsi equivalente, sia sotto il profilo dell’organo emanante, sia sotto quello del contenuto del controllo, limitato il primo al fatto storico della mancata opposizione decorso il termine perentorio ed il secondo esteso all’accertamento della regolarità della notificazione (art. 643 c.p.c.)».
– In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come nel dispositivo, ai sensi del D.M. 12 luglio 2012, n. 140. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore di parte controricorrente liquidate nell’importo di euro 8.200,00 di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% sul compenso ed agli accessori come per legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dalla I. 24 dicembre 2012, n. 228, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1bis .
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1° Sezione